“La disobbedienza è una via per rinnovare la Chiesa?” di A.Simoni

A.B.Simoni
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Se lo chiede Benedetto XVI il Giovedì santo, in controcanto ad un “Appello alla disobbedienza” di circa 400 parroci austriaci, con i quali sembra voler entrare in dialogo. Ma se proprio non è retorica, la domanda è funzionale ad una risposta d’ufficio, che per la verità gioca alquanto sul rischio di equivoco a cui si presta la parola obbedienza: si va tranquillamente dalla obbedienza di Cristo e a Cristo come modello – e quindi qualcosa che attiene al mistero della fede – alla obbedienza intesa come disposizione morale o come rispetto e osservanza di istanze istituzionali.

Senza voler entrare nell’articolato ragionamento del Papa, basta cogliere il significato sintomatico del suo intervento, che raccoglie voci della periferia “come deve realizzarsi – una conformazione a Cristo – nella situazione spesso drammatica della Chiesa di oggi”. In sostanza, si prende atto di una situazione critica anche alla base, così come da tempo è successo nei confronti dei lefebvriani, oggetto di ben altra attenzione e mai trattati così perentoriamente. Vengono esaminate alcune obiezioni funzionali alle risposte scontate e viene presentata la ricetta della “chiesa docente” con i testi del Concilio Vaticano II e del catechismo della chiesa cattolica insieme ai documenti offerti da Giovanni Paolo II: dove l’ottica è sempre quella “magisteriale” a senso unico e non quella “pastorale” e interattiva dei segni dei tempi promossa da Giovanni XXIII.

Sarebbe già buona cosa se la chiesa nel suo insieme prendesse coscienza della esistenza di un conflitto interno che è nelle cose e imparasse a viverlo in una sana dialettica. Ma soprattutto – questo è l’auspicio – sarebbe necessario che quanti agitano la bandiera della riforma e del rinnovamento nella Chiesa trovassero finalmente modo di uscire dalla sterile denuncia o dalla protesta del proprio disagio, per entrare nella prospettiva di un’altra chiesa possibile da costruire come pietre vive, da presentare al mondo “tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Ef 5,27). E cioè come la trasparenza di Cristo nella sua umanità. Non è solo questione interiore o spirituale – come farebbe pensare Benedetto XVI – né problema di sole strutture istituzionali, ma di una cosa e l’altra insieme!

Penso – e torno a dire – che è necessario un ripensamento critico di come è stato interpretato e si è sviluppato l’”aggiornamento”, per dire tutto con una sola parola. C’è chi è rimasto legato alla stagione della contestazione e del dissenso, senza andare al di là della contrapposizione istituzionale e compromettendo le potenzialità di riforma in un confronto impari. E c’è chi ha mutuato da quella stagione solo le forme esteriori o le foglie di quella modernizzazione, ritenendo di recidere alla radice la pianta nuova che stava spuntando. Per cui lo stesso Benedetto XVI può dire che chi “guarda alla storia dell’epoca post-conciliare, può riconoscere la dinamica del vero rinnovamento, che ha spesso assunto forme inattese in movimenti pieni di vita e che rende quasi tangibili l’inesauribile vivacità della santa Chiesa, la presenza e l’azione efficace dello Spirito Santo”. Qualcosa che stride con la menzionata “situazione spesso drammatica della Chiesa di oggi”.

Volendo ritrovare quelle radici e cercando di portare a maturazione i frutti sperati, c’è forse da ripercorrere il lungo e variegato processo di rinnovamento post-conciliare, portandolo fuori dai vicoli ciechi o dalle secche di istanze istituzionali che sono solo una conseguenza o un frutto di organismi nuovi fatti di persone e tra persone. È in questo senso e con questo spirito che riandiamo alla storia dell’Isolotto, senz’altro indicativa di percorsi futuri per chi non si sente già arrivato al traguardo di qualche “riforma”, di base o di vertice che sia.