Cattolici e politica. Ultima chance?

Salvatore Rizza (*)
Adista, n.15/2012

In questa stagione politica i cattolici sono presenti e attivi: non è male! Escono così dalla presunta emarginazione e dalla insignificanza, rivendicando il diritto di parola e proponendosi come interlocutori della politica: un diritto mai negato e una interlocuzione mai impedita. Il problema, forse, è tutto interno alla stessa componente cattolica: si sente orfana di una rappresentanza, che invece esiste, benché in modo diverso che nel passato. È la tesi di Luca Diotallevi, sociologo e presidente del Comitato Scientifico-Organizzatore delle Settimane Sociali Italiane raccontata nel suo L’ultima chance. Per una generazione nuova di cattolici in politica (Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011, pp. 108, euro 14).

Forse si stenta a fare i conti con i tempi nuovi; forse non è stata assimilata la lezione del Concilio, che invita i cattolici a farsi «sale» e «lievito» della «pasta» del mondo, senza avanzare pretese che non siano quelle del servizio, senza la preoccupazione di dover appiccicare etichette e mostrare badge di riconoscimento. I cattolici possono dare alla politica un contributo positivo inserendosi nelle trasformazioni in corso, senza suscitare polemiche. La storia politica dei cattolici italiani ha sempre registrato posizioni ambivalenti all’interno del loro stesso mondo: Toniolo e Murri, Sturzo e De Gasperi e Gedda, cattolici democratici, e più vicini a noi, Moro, Gorrieri, Scoppola e altri, portatori di tentativi differenti di riformismo.

È difficile pensare che il riformismo invocato sia quello derivante da un popolarismo coincidente con l’ideologia liberista e antistatalista dell’autore. Né Sturzo, né Moro, né Scoppola volevano che lo Stato facesse un “passo indietro”, ma piuttosto che lo facesse “in avanti”, liberandosi dalle pastoie e dalle molte incrostazioni del passato che produssero la crisi dell’attuale welfare state. Se i cattolici per avere una chance ulteriore – a dire dell’autore, con linguaggio apocalittico, «ultima» – dovessero farsi portatori di politiche «non ostili al mercato» o «a difesa del mercato» e «domare lo Stato», il loro riformismo sarebbe un vero trasformismo nei confronti di una tradizione solidaristica, di ricerca del bene comune e di collaborazione con lo Stato, che li ha sempre distinti, nella società e nella politica.

Il convegno ecclesiale di Verona del 2006 e la 46.ma Settimana Sociale, con il card. Camillo Ruini, segnano l’inizio del tentativo di “clericalizzare” la politica e i politici. Contemporaneamente segnano l’inizio della “conversione” di Diotallevi al progetto di cui egli si fa protagonista e strumento. In questo volume – come in quello precedente (Una alternativa alla laicità, Rubbettino, 2010) e come nei suoi molteplici interventi – conferma la sua “avversione” alla laicità, che, a suo dire, sarebbe per i cattolici sostituita dalla conciliare «libertà religiosa», capace di generare quella «scelta religiosa» che però negli anni ‘70 fornì ai cattolici impegnati (specie nell’Azione Cattolica) la linea interpretativa dell’impegno nel mondo e nella politica. La scelta religiosa esige la laicità, “luogo” di libertà, che consente a tutti di essere «liberi nella politica». Il popolarismo sturziano – più di quello degasperiano – esige un partito non confessionale; ma perché allora non potrebbe prevedere che i cattolici stiano in partiti di sinistra, di centro o di destra senza cercare altra chance che non sia quella della ricerca comune del bene comune?

L’analisi e la storia del “popolarismo” – che occupa le pagine centrali del libro – appare (a grandi linee) condivisibile, ma non si capiscono le conclusioni a cui vuole pervenire. Non si capisce inoltre come sia possibile fare scaturire da questa storia di popolarismo, vissuto fino a “ieri”, la tesi secondo cui la gerarchia occupa lo spazio pubblico, proprio dei laici, per l’assenza di questi ultimi. Tra i capisaldi della politica c’è certamente quella di riservare allo Stato le incombenze per creare le condizioni tese a realizzare il bene comune, senza tuttavia averne il monopolio. Ma non si può sostituire al monopolio dello Stato il monopolio della Chiesa, e quindi dei cattolici, nella realizzazione dello stesso bene comune: niente monopoli, ma competenze diversificate e convergenti con modalità proprie della laicità.

Non si capisce infine dove esattamente si voglia collocare Diotallevi nel panorama politico italiano. Sembra di capire (per fortuna) che non è per un generico centrismo e che sposa il bipolarismo come fondamento per un efficace riformismo.

Le 13 tesi che chiudono e sintetizzano l’excursus del libro – popolarismo, riformismo, necessità di organizzarsi, bipolarismo – sembrano un “manifesto elettorale” che vedono impegnato personalmente l’autore nella diffusione, in giro per l’Italia, attraverso incontri di formazione (propaganda?) sulla Dottrina Sociale della Chiesa e sui risultati (?) della 46.ma Settimana Sociale.

(*) Università Roma Tre