Un papato di transizione?

Marco Tosatti
http://vaticaninsider.lastampa.it/ 17 aprile 2012

Molti di coloro che lo votarono nell’aprile del 2005 pensavano a un pontificato di “passaggio”: non è stato così. Bilancio dei primi sette anni di Joseph Ratzinger al soglio di Pietro

Ho una curiosità, un po’ maligna. Mi chiedo quanti di quelli che nell’aprile del 2005 hanno votato per il cardinale Joseph Ratzinger pensavano che sette anni più tardi il pontefice bavarese sarebbe stato ancora lì, in mezzo a noi; con i suoi passettini veloci, resi più incerti dai problemi all’anca e al ginocchio destro; ma ancora lì, e con un’evidente voglia di fare. Purtroppo è una domanda difficile da porre, e a cui è probabilmente ancora più difficile rispondere sinceramente. Ma quello che nelle intenzioni di molti porporati doveva essere un papato di transizione si sta rivelando qualche cosa di diverso. Un regno fondante, l’opera di qualcuno che cerca di lavorare in silenzio e ostinazione, e in profondità.

Come? Pochi sanno che una gran parte del suo tempo e del suo impegno Benedetto XVI li pone in un lavoro oscuro, che non attira – e non potrebbe – l’interesse dei media, ma che è fondamentale per la vita della Chiesa: proprio per evitare che di qui a qualche anno i media abbiano motivi, non esaltanti, per occuparsi di lei.

Benedetto XI è convinto che la forza – e la debolezza – della Chiesa sia in primo luogo nelle diocesi, nelle Chiese locali. Nel pontificato di Giovanni Paolo II molto spesso la scelta dei vescovi era delegata ai presidenti delle Conferenze episcopali, ai nunzi, e ad altre componenti della Chiesa centrale e di quelle locali. Il Papa, molto spesso, e soprattutto negli ultimi anni di vita, se quello che ci viene raccontato è vero (e non abbiamo motivo di dubitarne), si limitava a firmare. Giovanni Paolo II delegava; si fidava dei suoi collaboratori, non sempre con molta fortuna, come la storia ci ha dimostrato.

Benedetto XVI ha uno stile diverso. Studia ogni “ponenza” (così si chiamano i dossier preparati per i tre candidati a ogni diocesi), studia il percorso di studi e di lavoro dei possibili futuri vescovi, e alla fine decide. E non è infrequente che chieda che gli siano presentati altri candidati, perché nessuno della “terna” lo soddisfa. E’ un lavoro tedioso, poco appariscente, ma di cui la Chiesa dei prossimi decenni dovrà essergli grata.

E’ lo stile di Benedetto. Che era anche quello di Joseph Ratzinger cardinale. Uno stile solitario, certamente; a parte qualche rara visita ad anziani cardinali di lingua tedesca, non si ricorda nella memoria della Curia un “Ratzinger sociale”, che invita e ed invitato a casa di colleghi e amici.

La stessa solitudine la si percepisce ora che è Papa. E il progressivo indebolirsi della figura del suo Segretario di Stato, il card. Tarcisio Bertone, sottolinea questa caratteristica. Pio XII nell’autunno del suo pontificato aveva Tardini e Ottaviani, due “mastini” di prima grandezza, a vegliare sulle spalle che si andavano curvando; Paolo VI aveva Benelli a tenere sotto verga di ferro la Segreteria di Stato e la Curia. Ma sarebbe difficile oggi indicare con certezza chi siano “gli uomini del Papa” al di là del Portone di Bronzo, fatta eccezione per Bertone, che però sembra incapace di reagire in maniera efficace agli attacchi che i vari corvi gli hanno sferrato nei mesi scorsi. Senza che ancora si veda una risposta di qualche tipo dalle conclamate “indagini” su Vatileaks, le fughe di documenti che hanno toccato anche l’Appartamento, e dalla misteriosa commissione vaticana di cardinali, di cui non si conoscono né i componenti, né le opere, tanto che non sono pochi quelli che dubitano della sua esistenza reale.

In questi sette anni Benedetto XVI ha camminato, portando avanti la sua opera; cercando di onorare un’eredità, lasciata dal profetico papa polacco, spesso pesante e ambigua; di difendere se stesso e la Chiesa da una quantità di attacchi e di malevolenza quale non si registrava dai tempi della Guerra fredda, con strumenti spesso inadeguati e insufficienti. E, soprattutto, per tornare all’inizio di questa riflessione, con una capacità, anche fisica, di resistenza che non può non stupire, e che forse stupisce qualcuno. E che porta altri a ipotizzare che forse non è tanto solo, forse è in una buona Compagnia. Ad multos annos.

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«CARO JOE, RICORDI QUANDO ERI PROGRESSISTA?». UN EX COLLEGA SCRIVE A RATZINGER

Ludovica Eugenio
www.adistaonline.it

«Caro Joe»: così inizia una lettera aperta a Benedetto XVI scritta dal teologo statunitense Leonard Swidler, suo collega negli anni ’70 all’Università di Tübingen, alla quale tornò poi in diverse occasioni come docente anche negli anni ’80. Ma, a dispetto del tono amichevole, il documento, pubblicato sul sito australiano catholica.com (5/4) è tutt’altro che tenero nei confronti dell’attuale “politica” pontificia.

«Alcuni anni fa, quando eri ancora a capo del Sant’Uffizio, ti scrissi una lettera riguardo al ruolo delle donne nella Chiesa cattolica», esordisce Swidler che, oltre ad essere direttore e cofondatore del trimestrale Journal of Ecumenical Studies, nonché fondatore e presidente del Dialogue Institute, organismo attivo nel dialogo interreligioso e interculturale, fondato nel 1978 presso la Temple University di Philadelphia, insegna anche Pensiero cattolico e dialogo interreligioso presso la stessa istituzione . «A quel tempo – scrive Swidler – mi rivolgevo a te con un familiare “caro Joe”, che si fondava sulla nostra amicizia, risalente alla fine degli anni ‘60/primi ’70». Lo feci, racconta, «pensando che quella forma ti avrebbe comunicato con quanta serietà io nutrivo la speranza che tu potessi aprire la tua mente e il tuo cuore per ascoltare ciò che avevo da dirti. Non avevo modo di sapere se avrei avuto successo in questo. Tuttavia, facendo ricorso alla nostra antica “collegialità”, ora mi rivolgo a te ancora una volta in questo modo fraterno».

«Sono sconcertato dal fatto che, specialmente negli ultimi tempi, tu abbia lanciato segnali che contraddicono le parole e lo spirito del Concilio Vaticano II, nel corso del quale tu, come giovane teologo, hai dato un contributo a far sì che la nostra amata Chiesa uscisse dal Medio Evo per entrare nella modernità», afferma il teologo, ricordando anche le posizioni prese da Ratzinger, da professore a Tübingen, a favore di un’elezione episcopale democratica e di un limite all’incarico dei vescovi. «Ora stai rimproverando pubblicamente preti cattolici impegnati perché fanno proprio ciò che tu in precedenza avevi così coraggiosamente difeso. Questi e molti, molti altri nella Chiesa cattolica stanno seguendo il tuo esempio di allora, cercando disperatamente di spingere la Chiesa nella modernità. Uso volutamente il termine “disperatamente” perché nel tuo Paese d’origine, la Germania, e altrove in Europa, le chiese sono vuote, e lo sono anche i cuori di tanti cattolici quando sentono le parole raggelanti che vengono da Roma e dai vescovi “radicalmente obbedienti” (leggi: yes-men). Nel mio Paese, gli Stati Uniti, luogo di nascita della libertà moderna, dei diritti umani e della democrazia abbiamo perso – solo in questa generazione! – un terzo della popolazione cattolica, 30 milioni di persone, perché le promesse del Vaticano II, con la sua rivoluzione copernicana in cinque dimensioni (svolta verso libertà, mondo, senso della storia, riforma interna e soprattutto dialogo) sono state così deliberatamente vanificate dal tuo predecessore e ora, ancora di più, da te».

Swidler fa poi riferimento al contributo apportato da Ratzinger al Vaticano II, quando spiccò tra i teologi che «sostennero l’invito di Giovanni XXIII all’aggiornamento grazie allo spirito riformatore derivante dal ritorno alle ritempranti fonti originarie del cristianesimo (ad fontes)». Quelle fonti democratiche e orientate alla libertà della Chiesa primitiva erano esattamente le «“fonti” del rinnovamento di cui tu e i tuoi colleghi di Tübingen» parlavate diffusamente. Di qui il vibrante appello di Swidler al papa affinché torni proprio a quello spirito di riforma espresso in gioventù, già negli articoli pubblicati sul primo numero del trimestrale di teologia ecumenica da lui fondato nel 1964, «che cercavano di gettare un ponte sull’abisso della Controriforma che divideva la Chiesa cattolica dal resto del cristianesimo, e dal resto del mondo moderno». «In quello spirito, Joe, ti sollecito a tornare ad fontes!», è la conclusione del teologo.