A proposito di “notificazioni”

Roberto Rivosecchi
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Fa meraviglia la “notificazione” del 29 marzo scorso di uno dei maggiori teologi spagnoli, il galiziano Andrés Torres Queiruga, da parte della Commissione per la dottrina della fede della Conferenza episcopale spagnola. Fa meraviglia il constatare del persistere di strumenti di controllo del pensiero, sia pure all’interno di un sistema deputato alla salvaguardia delle linee del Magistero ecclesiastico, istituzionalmente ispirato e assistito dallo Spirito Santo. Non possono non venire alla mente tragiche e sanguinose vicende. Non ci si può non sentire su terreni estranei alla vita democratica e ai più elementari diritti alla libera espressione. Ma ove c’è Spirito Santo è difficile trovare dialogo.

Ebbene il nostro teologo è stato notificato per la sostanza della sua opera orientata a rendere comprensibile all’uomo di oggi l’annuncio cristiano e le formulazioni di fede. Nell’intento di superare la distinzione dottrinale tra creatore e creature, che prevede puntuali e soprannaturali interventi divini, propone un “nuovo paradigma”: la creazione per amore. In tal modo, sulle tracce del Vaticano II, può affermare l’autonomia dell’uomo e della natura. Per Queiruga si tratta della mediazione più efficace tra immanenza e trascendenza. Col partire dall’amore di Dio si assicura la massima identità e al tempo stesso la massima autonomia.

È l’abbà perfetto, che dà spazio alla libera espressività dei figli, quasi aggiornato sui moderni manuali di puericultura. Quindi non più interventi estemporanei di Dio nel mondo, rifiuto dei miracoli e della stessa risurrezione, ove la si riducesse appunto a miracolo suscettibile di prove empiriche. Non solo, creando per amore, Dio risulta presenza salvifica e chiarificatrice, presente da sempre in ogni uomo. Non è necessario un percorso di redenzione e grazia che sembrerebbe connotare di negatività la creazione iniziale. Gli strumenti della redenzione sono già dentro di noi. Vanno maieuticamente enucleati.

Al di là dei pronunciamenti delle varie Commissioni ecclesiastiche, ancorate all’insegnamento del Magistero, dei Padri della Chiesa e del Catechismo (per nulla da irridere, ma faticoso compendio dello scibile religioso), la richiesta di imputazione si allarga al mondo di certa cultura altamente qualificata, fiancheggiatrice, se non direttamente impegnata in certe congregazioni del parareligioso affaristico, che, sensibili all’insegnamento biblico, uniscono alla cura dello spirito anche quella del corpo, specie nei resort delle isole caraibiche. Da questo mondo giunge l’accusa di capovolgimento dei processi cognitivi. La fede di Queiruga non presupponendo il sepolcro vuoto e l’esperienza del Risorto, giocherebbe tutto su una forma di precomprensione. Sarebbe l’apriori della fede a rendere visibile la risurrezione.

Il Cristo risorto quindi frutto della soggettività del credente e non della realtà palpabile del corpo o delle testimonianze dei discepoli o dei “cinquecento” cui è apparso. Il Nostro, sulla difensiva, sembra ritirare il braccio: “non ho mai ridotto la risurrezione a un’idea né a un simbolo senza realtà”. È Gesù in persona che risorge. “Quando affermo che la resurrezione non è un fatto empirico, non intendo in alcun modo dire che non è reale, anzi è talmente reale da essere al di sopra del fatto empirico: non è questo che giustamente affermiamo a proposito di Dio stesso? Non bisogna cadere nella trappola empiristica di esigere prove fisiche per una realtà trascendente”. Ovverossia, con approssimazione, il fatto empirico, basato sui dati contingenti, è soggettivo. Il reale, che esiste effettivamente, è oggettivo. Dio è dunque reale. Ma il reale non giunge a noi attraverso l’esperienza sensibile? Non potremmo avere percezioni diverse dello stesso reale con conseguente non oggettività?

Comunque, con lo stesso sentire ed argomentare, sembra intervenire a sostegno Vito Mancuso in un articolo scritto anni prima per il “Foglio”: “La risurrezione… non può essere un evento empirico. Questo non significa che non sia reale, anzi è reale al sommo grado, ma proprio per questo non è empirica, cioè soggetta ai sensi umani. Esattamente come Dio che è reale ma non empirico”. Anche Mancuso gioca sulla distinzione reale-dati empirici. Ma non è che questo ci chiarisca le idee. Tutt’altro. Sembra che i nostri autori non abbiano il coraggio di andare sino in fondo e ci lascino in mezzo al guado. Si persiste in affermazioni astratte senza corrispondenza con il reale. Disturbando Wittgenstein, oggetto della vera conoscenza sono solamente quelle affermazioni che possono essere ritenute vere o false sulla base dell’esperienza, mentre le altre, non verificate nell’esperienza, sono prive di senso. Di qui la mancanza di senso della metafisica: nulla si può affermare sulla veridicità del legame che sussiste tra le affermazioni metafisiche e la realtà da loro indagata. Sembra che anche nei Nostri i tentativi di avvicinare la realtà si perdano nelle nebbie metafisiche.

I due autori, in tempi, luoghi e contesti diversi, sono accomunati nella critica e nel rinnovamento. Continuano però ad affermare la loro adesione alla Chiesa, alla struttura, al Magistero. Non si può avere capra e cavoli: se ti tieni il Magistero, la fede apostolica e la tradizione dogmatica, ti tieni anche le notificazioni e l’impossibilità di uscire dal seminato. In una teologia laica si dispiega il bacio liberatore, afferma Roberta De Monticelli. Appunto, laica, fuori dalla Chiesa. Si ha l’impressione di essere di fronte ad una incompiuta. Si sostiene con forza che la rivelazione, come del resto la redenzione e la grazia, non consistono in qualcosa che irrompe dall’esterno, bensì nella presenza che era da sempre dentro di noi, in un rapporto di immanenza non mosso dall’esterno. Al tempo stesso si vuol continuare a far parte di quella struttura gerarchica che invece è legittimata da una concezione opposta, cioè trascendente, di quei principi fondanti e che pertanto la rendono poco compatibile con le strutture democratiche di questo mondo. O si sta dentro, o si sta fuori. Questo è il dramma.