Non è teologia se non ci libera

Roberta De Monticelli
Il Sole 24 Ore, 22.04.2012

Tanti sono i sapienti che hanno commentato la pagina forse più famosa di Dostoevskij, La leggenda del Grande Inquisitore. Eppure poche sono le spiegazioni convincenti del bacio con il quale il Cristo della Leggenda – tornato in terra al tempo dell’Inquisizione, e subito gettato in carcere – risponde al lungo monologo del vecchio Inquisitore: che pure rivendica per la sua Chiesa il pietoso nichilismo con cui questa ha spento la «libera decisione del cuore», alla quale il Cristo affidava il Regno di Dio. E l’ha sostituita con l’obbedienza degli uomini-bambini al potere spirituale-temporale dell’istituzione.

L’Inquisitore ha raccontato in ogni dettaglio il baratto ispirato dal demonio: libertà contro “felicità”, obbedienza (e licenza di peccato, e perdono) in cambio del sollievo di non dover dubitare, e cercare, e scegliere, e portare responsabilità delle proprie scelte. Ha ricordato “il segreto del mondo”, la sapienza del tentatore, che è sapienza politica e riguarda il meccanismo dell’obbedienza, nutrita dal bisogno che gli uomini hanno di inchinarsi “tutti insieme” a qualcuno, cioè dalla dimensione sociale della religione. Ha evocato la contraffazione del divino mediante le forze che da sempre corteggiano l'”umiltà del male” (come direbbe Franco Cassano): «miracolo, mistero, autorità».

E per tutta risposta il Nazareno bacia le sue labbra esangui, di un bacio che brucia l’anima del vecchio e lo induce ad aprirgli la porta della libertà. Perché? Aprendo l’ultimo libro di Vito Mancuso – Obbedienza e libertà – troviamo una risposta nuova. «Gesù vede che il vero prigioniero è proprio il suo carceriere, racchiuso in una prigione non fisica ma mentale, da cui è molto più difficile uscire».

Quel bacio è un varco offerto alla mente prigioniera dell’Inquisitore. Aljoscia Karamazov, il monaco novizio – che più tardi sceglierà di vivere nel mondo – ripete questo gesto, e bacia il fratello Ivan, il filosofo, il cui pensiero racchiude entrambe le possibilità: l’Istituzione che imprigiona la mente e il nazareno che la libera. Ecco: Mancuso è Aljoscia.

Proseguite nella lettura e ve ne convincerete. Tutti i suoi libri infine sono questo: un bacio che brucia di un fuoco soave, “purificatore”, in cui possa incenerirsi l”‘autorità” di una Chiesa costruita nei millenni sopra il “miracolo” e il “mistero”, per lasciar spazio all’autenticità” cui Gesù richiamava l’anima («svegliati, ragazza»). In cui l’obbedienza si depuri del suo diabolico fondamento – il potere – e si inchini soltanto alla “legge della libertà”, all’autonomia della coscienza.

Il bacio offre a quella Chiesa da cui Mancuso proviene il varco di una libertà che è a lei ben nota, nutrita com’è, fin nei suoi ultimi papi, del pensiero europeo moderno e contemporaneo, dal quale sorgono (come dal pensiero di Ivan Karamazov) entrambi gli interlocutori: l’obbedienza asservita e la libertà autentica, il nichilismo morale e il primato della coscienza, la “fede” come devozione atea e la fede come «esperienza che l’intelligenza è illuminata dall’amore» (S.Weil).

Questa chiave di lettura illumina tutta la complessa dialettica di questo libro, giustamente presentato come “sintesi matura” del pensiero del suo autore. Un libro pubblicato nella collana “Campo dei fiori” – la piazza romana in cui arse il rogo di Giordano Bruno – e dedicato «alla memoria degli italiani uccisi in quanto “eretici”, martiri della libertà religiosa, testimoni obbedienti del primato della coscienza». E i cui nomi sono riportati nell’Appendice.

Eppure è a questa stessa Chiesa che li ha bruciati che Mancuso si rivolge con il sottotitolo del suo libro: Critica e rinnovamento della coscienza cristiana. Lo afferma chiaramente: un cristianesimo non può esistere senza chiesa, senza magistero, senza tradizione, senza liturgia, senza comunità/comunione. Non si tratta quindi di eliminare la “sua” Chiesa, si tratta di spezzare la subordinazione alla Chiesa della teologia. In una “teologia laica” si dispiega il bacio liberatorio. E la liberazione, si badi, è rigorosamente teologica. Biblica anzitutto: Dio non ha bisogno del sangue per salvare gli uomini, non è dunque Paolo il vero fondatore della Chiesa di Cristo.

La salvezza non va pensata come redenzione, ma secondo l’annuncio di Gesù: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia». Di teologia fondamentale, in secondo luogo. All’inizio dell’avventura umana non c’è il peccate originale, ma «l’energia caotica… che ha bisogno di essere ordinata e disciplinata perdiventare volontà di bene e di giustizia»: cioè la libertà. Dio è il nome del bene, e non il nome del potere.

Ed ecco le due radici di quella logica dell’obbedienza e del potere che attanaglia la mente del moderno Inquisitore: il pessimismo relativo all’uomo, con la dottrina del peccato originale che avvinghia l’esercizio del potere all’umiltà del male; e il fatto che il cattolicesimo «non ha più una visione del mondo dai tempi di Dante», perché ha tradito, da Galileo in poi, la ricerca del vero. Il bacio, dunque, fiorisce proprio dai due temi principali dell’innovazione teologica di Mancuso.

E offre scampo al duplice disagio, della coscienza e dell’intelligenza, e al tragico paradosso della Chiesa: «L’istituzione per merito della quale ancora oggi nel mondo continua a risuonare il messaggio di liberazione di Gesù è governata nel suo vertice da una logica che rispecchia proprio quel potere contro cui Gesù lottò fino a essere ucciso». Sarà finalmente aperta, quella porta?