Gli abiti di Formigoni di G.Colombo

Giovanni Colombo
Il Margine

A gennaio, prendendo spunto da due interviste di don Carròn e del cardinal Scola, m’interrogavo sui sommovimenti in corso in Comunione e Liberazione. Finivo il mio articolo con una frase ad effetto:“regnavit a ligno, non dai bordi di uno yacht.” Me la prendevo con Roberto Formigoni, per una sua foto estiva apparsa sui giornali. Ora, tre mesi dopo, sappiamo sia il nome dello yacht, MiAmor, sia il nome del suo proprietario, Pierangelo Daccò. Chi è costui? Ciellino di Lodi, mediatore d’affari, è in carcere dal novembre scorso per l’inchiesta sul crac del San Raffaele con l’accusa di avere distratti fondi dell’Ospedale.

Subito dopo Pasqua nei suoi confronti è stato spiccato un altro mandato di cattura. Con altri cinque arrestati, è accusato di associazione a delinquere finalizzata a riciclaggi, appropriazione indebita, frode fiscale, emissione di fatture. Secondo la procura di Milano, 56 milioni di euro della Fondazione Maugeri, proprietaria di molte cliniche in tutta Italia, sono finiti in società lussemburghesi e maltesi di Daccò grazie a finti contratti di consulenza e di ricerca – come quello per verificare “la possibilità di vita su Marte”. Parte di questi fondi neri sono arrivati – tramite altre società estere – sui conti personali di Antonio Simone.

Chi è Simone? Leader degli universitari ciellini nella Cattolica degli anni Settanta, enfant prodige del Movimento popolare eletto in Regione Lombardia a 26 anni nel 1980, è stato assessore alla Sanità fino allo scoppio di Tangentopoli. Arrestato, uscito dai processi con due assoluzioni e una prescrizione, ha dismesso i panni del politico e si è dedicato agli affari in giro per l’Europa. Secondo l’accusa, Daccò e Simone sono stati pagati dalla Fondazione Maugeri perchè avevano moltissima influenza sull’Assessorato alla Sanità della Regione Lombardia – guidato anch’esso da dirigenti ciellini – e quindi erano in grado di risolvere problemi su rimborsi e finanziamenti. Daccò e Simone da molti anni sono amici intimi del governatore Formigoni. Insieme hanno fatto battaglie politiche. Insieme hanno fatto cene e vacanze.

E chi pagava per Roberto? Nel mirino della procura è finito il Capodanno del 2009. Il governatore partecipò a un soggiorno di gruppo nel resort più esclusivo del mondo, l’ Altamer di Anguilla, nei Carabi, e dagli estratti conto risulterebbe un unico pagamento a carico del Daccò. Formigoni dice di aver rimborsato la sua parte, ma ha buttato via le ricevute. Male, molto male, perché se questo aspetto non venisse acclarato, i giudici potrebbero ipotizzare il reato di corruzione.

Questa inchiesta, con questi particolari, aveva già messo in allarme tutta Comunione e Liberazione quando il 19 aprile scorso è scoppiata la “bomba”. Chiamo così la lettera pubblicata dal Corriere di Carla Vites, la moglie di Antonio Simone. Una lettera stile Veronica Lario. Parole irate che accusano “Robertino” di aver tradito il suo migliore amico e di aver perso la testa per il lusso, di divertirsi (e tanto!) in un turbine di vacanze e di serate a 5 stelle. La Carla tira in ballo direttamente il movimento: “Cl, a mio avviso, deve avere un sussulto di gelosia per la propria identità, per quello che Giussani pensava al momento della fondazione. ” “Robertino” è costretto rispondere con una lettera agli amici di “Tempi”: “Le spese anticipate da Daccò me le sono pagate con il mio stipendio… La Lombardia è la Regione meglio amministrata d’Italia…Cosa si deve giudicare: le mie camicie o miei atti di governo, le mie giacche o le mie leggi? Giudicatemi sui fatti”. Chiude con un perentorio “Non mi dimetterò! Sarebbe da irresponsabili piegarsi al ricatto dei calunniatori e dare soddisfazione a lobby a cui interessa soltanto la mia poltrona per i loro affari di potere“. Poi corre a Rimini per gli esercizi spirituali predicati da don Carròn.

Che dire di quel che sta succedendo? Un altro cerchio magico si spezza e le sue schegge vanno a colpire il cuore di Comunione e Liberazione, ovvero il suo metodo educativo, il suo essere “fenomeno educativo ecclesiale formidabile” (così il Cardinal Scola nell’intervista al Corriere della Sera del 23 dicembre scorso). Certo, le responsabilità sono personali, chi va in politica si assume il proprio rischio ma se i frutti son discutibili perché non discutere anche della pianta, della sua impostazione, della sua eventuale potatura? Confesso che ogni volta che vedo “Robertino” con la giacca gialla (“orrendamente gialla” dice la Carla) mi viene in mente un passaggio della Prefazione di don Dossetti al libro “Le querce di Monte Sole” di don Luciano Gherardi sugli abiti virtuosi (la Rosa Bianca li mise a tema della scuola estiva del 1987, “Il politico e le virtù”, Il Margine 3-4 del 1988).

Don Dossetti scrive nel 1986, avendo sotto gli occhi i guasti della DC e della Prima Repubblica: “Bisogna riconoscere che gli esiti non brillanti delle esperienze dei cristiani nella vita sociale e politica non sono tanto dovuti a malizia degli avversari e neppure solo a proprie deficienze culturali (che certo spesso li hanno resi subalterni a premesse dottrinali non omogenee al Vangelo) ma anche e soprattutto a deficienze di abiti virtuosi adeguati, la mancanza di sapienza della prassi … quella sapienza che – supposte le esenziali premesse teologali della fede, della speranza e dell’amore – richiede in più un delicatissimo equilibrio di esercitata prudenza e di fortezza magnanima; di temperanza luminosa e di affinata giustizia individuale e politica; di umiltà sincera e di mite ma reale indipendenza di giudizio; di sottomissione e insieme di desiderio verace di unità, ma anche di spirito di iniziativa e di senso della propria responsabilità; di capacità di resistenza e insieme di mitezza evangelica”.

Queste parole – così come molte altre di don Dossetti – sono ancora di straordinaria attualità e , a mio avviso, interpretano in profondità anche le tristi vicende lombarde. Il problema principale di un’autentica formazione politica cristiana sta nella formazione di abiti virtuosi, di una sapienza della prassi. Prima che sulle soluzioni concrete dovremmo interrogarci su questi “abiti”. Purtroppo io non ho mai trovato un ciellino che concordasse con questa impostazione. Che mettesse al primo posto la lotta alle tre concupiscenze (potere, godere, possedere). Che ritenesse essenziale imparare a governare se stessi. Che si facesse aiutare in questo dalla Parola, dai libri sapienziali. Che sottoscrivesse le parole di Guardini (che pure per un certo periodo e’ stato uno degli autori preferiti del movimento): “mai nulla è diventato grande senza ascesi…dobbiamo nuovamente imparare che il dominio del mondo presuppone il dominio di noi su noi stessi.”

Per i ciellini parlare di abiti virtuosi è insopportabile moralismo e perdita del cristocentrismo. “Noi abbiamo a cuore l’Avvenimento e viviamo l’appartenenza” , quante volte me lo sono sentito ripetere. E se enfatizzare identità ed appartenenza sviasse dalla retta via? E se l’impostazione educativa di Cl (ma non solo di Cl) non favorisse il necessario passaggio dal cristocentrismo al cristoformismo, arrivando alla fine a giustificare doppiezze e ipocrisie? Le vicende lombarde dimostrano che c’è stata, come minimo, un’eccessiva distrazione sulle opere. Per i cristiani le opere sono decisive. Il cristianesimo non ha atteso l’undicesima tesi su Feuerbach – “I filosofi hanno interpretato il mondo in modi diversi; il compito è quello di trasformarlo “ – per sapere che è “falso” quel modo di vivere che non “fa” la verità (2 Gv 1, 3-4).

La verità nel senso biblico è prassi, azione, fedeltà; non è come quella greca, puro fatto teorico, dell’occhio e del vedere. Quindi è richiesta la massima attenzione sulle nostre opere. Perché, va da sé, le opere non sono tutte uguali. Quando la cristianità era un popolo (tema molto caro a Cl) l’esercizio quotidiano del suo credo erano le opere di misericordia, antiche, anche nella dizione, com’è antico il cristianesimo. Sette per il corpo e sette per lo spirito. Sette è il numero della quantità perfetta, sette è il numero della pienezza qualitativa. Ora che la cristianità non c’è più (ed è una fortuna), delle opere di misericordia si è perduto anche la memoria del nome (e questa invece è una sciagura!). E se il futuro avesse radici antiche? E se, dopo aver chiuso i conti con la giustizia terrena, pensassimo finalmente a quella Celeste? Dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati eccetera eccetera eccetera : su questo, alle fine, saremo tutti interrogati da Colui che è Sommo Giudice e Sommo Amore (Mt 25, 31 – 46).