Balducci e Turoldo, il realismo dell’utopia

Francesco Comina
Adista Segni Nuovi n. 19/2012

Sono passati vent’anni dalla morte di p. Ernesto Balducci e p. David Maria Turoldo. Il mondo è profondamente cambiato. A voltarsi indietro sembra quasi di piombare in un’altra epoca. Altri erano i sogni e le speranze del 1992. Le profezie di un mondo riconciliato, di una politica libera dall’assillo del potere, della corruzione, della violenza dialettica, di una Chiesa solidale e fraterna, di una società senza vincitori né vinti sembrano soltanto fuochi accesi sul pagliericcio. Intorno a noi domina l’individualismo, la rassegnazione, l’assuefazione, la parcellizzazione della società demoralizzata dal sogno infranto di un’alternativa possibile. I giovani faticano a credere che nell’Italia del dopoguerra si muovevano uomini, dentro la Chiesa, che urlavano lo scandalo della povertà, che venivano condannati dai tribunali perché difendevano gli obiettori di coscienza, che denunciavano i prepotenti e si schieravano per la pace contro i fautori della guerra, frati che sapevano parlare agli altri e che non avevano timori reverenziali nemmeno nei confronti delle gerarchie ecclesiali perché la verità non si svende per un piatto di lenticchie: «Mia Chiesa amata e infedele, / mia amarezza di ogni domenica, / chiesa che vorrei impazzita di gioia». (Turoldo, Mio praefatio a Pasqua). Erano preti con i calzari ai piedi che si muovevano sul crinale della storia, come titola l’ultimo numero monografico di Testimonianze, dedicato al ricordo di Balducci.

Forse uomini come Balducci e Turoldo si capiscono meglio dalla periferia. Il centro non gli appartiene. Ecco perché il convegno nazionale a loro dedicato si è tenuto in Alto Adige. Il Centro per la Pace del Comune di Bolzano ha pensato che l’inattuale attualità di questi due uomini di frontiera si rivelasse meglio in un territorio di confine. Così dal 20 al 22 aprile, sotto una fittissima nevicata, il santuario di Pietralba (punto di riferimento della comunità dei Servi di Maria dove Turoldo passava volentieri i giorni del riposo e della creatività poetica) si è fatto centro di discussione, di dibattito, di rievocazione. Giorni intensi in cui i temi, le passioni e gli eventi che hanno accompagnato la vita di Balducci e Turoldo sono stati riproposti con il fascino e l’entusiasmo di un tempo.

L’introduzione è stata affidata all’immaginario di Liliana Cavani, che nei suoi film mette a nudo il dramma estremo delle persone di frontiera e la potenza dei loro messaggi rivoluzionari capaci di buttare all’aria l’ordine costituito (pensiamo al film “Galileo” del 1968 proiettato a fine incontro nell’ambito del festival del cinema di Bolzano o ai film su san Francesco, su Einstein, su De Gasperi). Balducci e Turoldo si muovono nel fuoco di questa profezia evangelica: «Padre Turoldo – ha raccontato la Cavani – l’ho visitato in quella chiesetta molto bella dove visse l’ultimo periodo della sua vita. Aveva visto il mio primo Francesco ed ebbe modo di pronunciare parole molto belle su quello che aveva visto. Balducci presentò il mio Milarepa a Firenze. Cenammo insieme e ricordo che parlammo, con punti di vista molto diversi, della questione dell’Unione Sovietica. Altri contatti con quegli ambienti cattolici non ne ebbi più se non con l’eccezione di Boris Ulianich, che fu mio consulente nella realizzazione di documentari storici come Storia del Terzo Reich e L’età di Stalin».

C’è commozione a Pietralba quando Fabrizio Truini proietta sullo schermo alcuni frammenti di interviste a Balducci e Turoldo. Due oratori eccezionali, «due figure straordinarie, due giganti del pensiero», come li ha definiti Moni Ovadia in un messaggio video al convegno: «Figure come David Maria Turoldo e Ernesto Balducci – ha proseguito l’attore – hanno permesso di accendere la speranza di una relazione fra uomini fondata sulla giustizia sociale, sulla pace, sulla fratellanza, sulla solidarietà, sull’accoglienza perché hanno incarnato nel loro magistero questa dimensione del cristianesimo». Il fuoco del profetismo, ha aggiunto Ovadia, si è come assopito in questi tempi oscuri. «Profeti come Turoldo e Balducci ricordano al credente quale è il suo vero dovere, ossia non flettersi come un giunco in una preghiera svuotata di significato, ma portare la parola per accogliere, per dialogare, per riflettere la luce del volto altrui non come qualcosa che va omologato, ma come un qualcosa che dà dignità nel rispetto della sua radicale alterità».

Turoldo ha cantato la salmodia della speranza. Balducci ha indagato i territori oscuri dell’Occidente per dire, al termine del suo testamento spirituale, che i giochi non sono fatti, perché davanti ad ogni crisi epocale l’umanità ha saputo trovare la risposta creativa: «Che sui passaggi intermedi della sua nascita ci sia buio non fa meraviglia. Come scrisse Ernst Bloch, “ai piedi del faro non c’è luce”».

Eppure, dopo vent’anni, non è la speranza ma un sentimento di ruvido pessimismo che emerge anche dalle riflessioni dei relatori. Qualcuno, sottovoce, parla di fallimento. Perfino Arturo Paoli, in un’intervista video realizzata a Lucca qualche giorno prima dell’incontro, rivela un senso di profonda amarezza rispetto a come si è sviluppata la storia italiana in questi ultimi anni: «Quando penso a me, a Balducci, a Turoldo, a Mazzolari, a Carretto, negli anni ‘50, poveri ma pieni di ideali, e guardo ora la realtà dominata dal capitale, non c’è una situazione di continuità. Siamo sotto una cappa di rassegnazione e di inerzia generalizzata. Non mi ricordo un periodo peggiore dell’Italia come quello che stiamo vivendo».

Sul versante della pace le riflessioni di Mao Valpiana, Andrea Bigalli e Nandino Capovilla, lasciano intendere come ci sia stato un riflusso di azione, dentro e fuori la Chiesa, rispetto al riemergere degli scenari di guerra aperti in tante parti del mondo: «Noi non stiamo agendo», ha detto chiaro e tondo Mao Valpiana. «Noi facciamo appelli, mozioni, convegni, ma non stiamo agendo. E se non è questo il momento della disobbedienza civile, io non so quando potrà essere». Valpiana lancia l’idea di partire proprio dal convegno di Pietralba per un’azione in grande stile contro la parata militare del 2 giugno che «ripudia la Costituzione», indirizzata direttamente al presidente della Repubblica (v. Adista Notizie n. 18/12, ndr).

Idem per la politica, che non ha nulla da spartire con alcuni esperimenti, nati proprio intorno alla Badia fiesolana, di un cattolicesimo imbevuto di passione e di ideali (pensiamo al ruolo che ebbe Balducci nella Firenze di La Pira, ma anche nella scelta di alcuni cattolici di entrare come indipendenti nelle file del Pci, oppure la presenza di Turoldo a Milano insieme al cardinale Martini): «Oggi la politica è succube dei rapporti di forza del capitale», ha spiegato l’economista cileno Rodrigo Rivas. «Dobbiamo pensare ad un nuovo paradigma che sappia valorizzare il lavoro di Balducci e Turoldo per far crescere non tanto il Pil, ma un’etica degli abbracci e uno spirito di fratellanza orizzontale».

Appassionato il dibattito intorno ai cinquant’anni del Concilio Vaticano II, quella «rivoluzione interrotta» come l’ha definita Raniero la Valle. Un Concilio – ha spiegato Luigi Sandri – che non ha concretizzato nulla sui punti chiave: la collegialità dei vescovi, il ruolo del popolo di Dio, la libertà religiosa, un ripensamento radicale sulla questione della forza e della guerra, con la Pacem in Terris, una grande enciclica in gran parte rimasta pura intenzionalità: «Io sono convinto – ha detto Sandri – che sia auspicabile un Vaticano III per discutere in maniera profonda alcune questioni spinose che stanno emergendo come problemi radicali della società e dell’etica». Di diverso avviso monsignor Bettazzi che invece auspica finalmente un’attuazione coraggiosa delle grandi novità che il vento caldo del Vaticano II porta con sé e che in molte parti non sono ancora fiorite. «Con il Vaticano II il mondo è cambiato», ha detto forte La Valle. «La discontinuità si è manifestata nel come la Chiesa ha accettato la modernità: la scienza (con la scelta copernicana e darwiniana, Galileo e Giordano Bruno…), la democrazia con cui si è dovuta confrontare e il rapporto con le altre religioni che non ha potuto evitare. Il Concilio, quindi, malgrado la Chiesa di Roma, è stato una rivoluzione perché ha accettato l’Illuminismo, i lumi che in essa non erano ancora scoperti».

(*) Giornalista e scrittore, coordinatore del Centro per la Pace del Comune di Bolzano