Tra Formigoni e Giussani Don Carrón e le deboli autocritiche di Cl

Michele Di Schiena
Adista segni nuovi n. 21/2012

«Se il movimento di Comunione e Liberazione è continuamente identificato con l’attrattiva del potere, dei soldi, di stili di vita che nulla hanno a che fare con quello che abbiamo incontrato, qualche pretesto dobbiamo averlo dato»: così si è espresso (la Repubblica, 1/5) il presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, don Julián Carrón. Un intervento che alcuni commentatori hanno considerato un’autocritica e una sconfessione dell’inclinazione al lucroso affarismo e al gaudente modo di vivere di alcuni esponenti di Cl in vario modo coinvolti negli scandali che stanno scuotendo la Sanità e la Regione Lombardia. Non è di poco conto che il successore di don Giussani abbia ammesso alcune “sconfitte” del movimento, sottolineando l’esigenza di «ricominciare» il cammino intrapreso. Non può tuttavia sfuggire che l’autocritica di Carrón appare tardiva e ridimensionata, quando egli stesso minimizza le responsabilità di Cl, affermando che gli scandali in questione sarebbero stati sollevati pretestuosamente per colpire un movimento estraneo ai fatti denunciati.

Ma il discorso di don Carrón si espone anche ad altre obiezioni di fondo. E ciò sia quando cade nell’esaltazione – una specie di culto della personalità in chiave religiosa – del fondatore don Giussani, sia quando, rifacendosi a una vecchia polemica, ripropone con forza la «cultura della presenza» (un’assolutizzazione dell’esperienza cristiana in tutti i campi, compresa la politica) in alternativa alla «cultura della mediazione», per la quale invece i principi cristiani ispirano l’attività sociale e politica dei credenti ma nel pieno riconoscimento della «legittima autonomia delle realtà terrene» (come peraltro raccomanda la Gaudium et spes, al n. 43).

Nessuno che abbia seguito la vita e il pensiero di don Giussani può mettere in dubbio la sua fede e i tanti frutti positivi del suo apostolato, ma non vi è dubbio che il movimento da lui fondato abbia finito per favorire la formazione di aree sostanzialmente impermeabili agli insegnamenti del Concilio Vaticano II. Cl si è infatti caratterizzata più per l’esaltazione della sua identità dentro e fuori la comunità cristiana che per la ricerca del confronto e del dialogo, più per la contrapposizione alla cultura laica che per la capacità di cogliere anche in essa i “segni dei tempi”, più per le “opere” e per gli affari che per la testimonianza e la missione, più per l’inclinazione a dotare di potere l’esperienza cristiana che per la capacità di far lievitare solidarietà e giustizia, più per la commistione fra religione e politica che per la necessaria distinzione delle due esperienze per tenerle a riparo da reciproche strumentalizzazioni.

Si è finito così per indebolire il Concilio Vaticano II, secondo il quale la Chiesa «non pone la sua speranza nei privilegi offerti dall’autorità civile» e utilizza per la sua missione «solo quei mezzi che sono conformi al Vangelo e al bene di tutti secondo le diversità dei tempi e delle situazioni». E si è tentato anche di accantonare un insegnamento che sottolinea la doverosità dell’impegno rivolto ad eliminare le ingenti disparità economiche e le conseguenti discriminazioni, che denuncia l’arbitrio di gruppi e nazioni che hanno in mano un eccessivo potere economico, che sollecita la promozione dei diritti umani fondamentali e che chiede alla comunità internazionale di costruire la pace facendosi carico della condizione di quelle vaste regioni del pianeta che si trovano in uno stato di intollerabile miseria.

Sorgono allora alcune domande. Come è possibile vivere la fedeltà al Vangelo senza porsi in chiara posizione critica nei confronti di questo sistema economico e di questa globalizzazione che aggravano le sperequazioni economiche e sociali in tutto il mondo e affamano la maggior parte dell’umanità? Come si può essere testimoni di verità e di giustizia assecondando nel nostro Paese progetti che favoriscono ulteriormente i ceti privilegiati a danno delle fasce sociali più deboli? Come si può essere pervasi dalla “passione per Cristo” e nel contempo essere solidali con personaggi politici ossessionati dal potere e immersi in uno stile di vita incompatibile con i valori evangelici? E infine, non vale anche per tutte le esperienze cristiane l’esortazione evangelica a riconoscere i falsi profeti guardando non alle loro dichiarazioni di fede o alle loro pratiche carismatiche ma alla vita che essi in concreto conducono così come dai frutti si distinguono gli alberi buoni da quelli cattivi?

(* ) Presidente onorario aggiunto della Corte di Cassazione