La laicità di Pisapia e la teocrazia di Ratzinger

Maria Mantello
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Un discorso da rappresentante di un paese democratico, laico e plurale, quello che il sindaco Pisapia ha rivolto a papa Ratzinger in visita a Milano per il “VII incontro mondiale delle famiglie”.
Un discorso che sarebbe da considerare normale, se purtroppo non fossimo abituati a inchini e inginocchiamenti vari di ministri, parlamentari, amministratori locali, di fronte a papi e cardinali.

Pisapia, che ha accolto il papa il 1 giugno a Piazza Duomo, ha portato col suo discorso il saluto di tutti i milanesi. Non c’era formalismo in quel “tutti”, visto che al primo posto il sindaco ha messo l’appartenenza nella cittadinanza che include nella pariteticità e reciprocità del riconoscimento della singolarità e quindi della differenza.
«Sono le diversità – ha detto Pisapia – che definiscono i nostri tempi. Diversità di cultura, di credo; di benessere e di possibilità di vita. Diversità di razze, di colori, di speranze. La diversità non può e non deve essere motivo di scontro. Può e deve essere fonte di aggregazione, di ricchezza, di unità. E, comunque, a tutte e a tutti deve essere garantita parità di diritti».

Non ha fatto altro che riaffermare il supremo principio della laicità dello Stato. Un principio costituzionale che è al di sopra di tutti, fondativo del patto costituzionale stesso perché garanzia della civile convivenza democratica. Il che significa che non c’è benessere individuale e sociale senza libertà di scelta per caratterizzare la propria vita tra le diverse possibilità di definizione individuale. Un riconoscimento reciproco che diventa formidabile fattore di aggregazione sociale, perché è nella parità di accesso ai diritti che si realizza la pienezza della cittadinanza.

Per questa costruzione di democrazia reale occorre impegno, dialogo. E soprattutto volontà di porre tra parentesi i propri assoluti. È necessario – continua Pisapia nel suo discorso di benvenuto a Benedetto XVI – «cercare di abbattere barriere, di essere aperti al contributo di tutti al di là delle bandiere e al di sopra delle etichette. Io penso che bisogna gettare dei ponti. Non alzare dei muri». E da laico parla di famiglia come sede degli affetti: «Famiglia significa amore, rispetto, solidarietà. E significa scelta, scelta di condividere un pezzo di strada. La famiglia è, in piccolo, la nostra società». La scelta di vivere insieme. Una scelta affettiva. Una scelta di essere coppia. E il riconoscimento delle coppie di fatto è attualmente l’urgente richiesta della società civile.

Da Milano, come in tante altre città d’Italia, sta partendo un’offensiva formidabile per veder riconosciuto questo diritto. Il papa lo sa e per questo forse ha voluto che proprio Milano ospitasse questo VII incontro mondiale delle famiglie. Ma per riaffermare l’idea di famiglia tradizionale: dell’unione di uomo e di una donna nel vincolo matrimoniale. Una famiglia cattolica, base della società cattolica. Il pontefice lancia ponti cattolici. Nel suo discorso, glorificazione dell’ortodossia, non a caso esalta s. Carlo Borromeo «plasmatore della coscienza e del costume del popolo» proprio e «soprattutto con l’applicazione ampia, tenace e rigorosa delle riforme tridentine».

Quelle che il papa chiama “riforme” sono i dettami del Concilio di Trento, con il suo famigerato “Indice dei libri proibiti”, la cui pubblicazione si deve proprio a Carlo Borromeo, che cura anche il primo Catechismo e la Professio fidei Tridentinae, sintesi ad uso delle parrocchie perché chierici e fedeli fossero educati nell’unico credo: «Riconosco la Santa cattolica apostolica Chiesa di Roma, madre e maestra di tutte le chiese, e prometto e giuro sincera obbedienza al Romano Pontefice, successore del beato Pietro, principe degli apostoli e vicario di Gesù Cristo».

Questo credo resta invariato nella chiesa curiale e Ratzinger lo rilancia: «Dove c’è Pietro, là c’è la Chiesa – dice il papa a piazza Duomo, citando il patrono di Milano s. Ambrogio – In Pietro c’è il fondamento della Chiesa e il magistero della disciplina». E chiarisce: «La Chiesa ambrosiana, custodendo le prerogative del suo rito e le espressioni proprie dell’unica fede, è chiamata a vivere in pienezza la cattolicità della Chiesa una, a testimoniarla e a contribuire ad arricchirla. Il profondo senso ecclesiale e il sincero affetto di comunione con il Successore di Pietro, fanno parte della ricchezza e dell’identità della vostra Chiesa».

Nessuna storicizzazione, nessuna secolarizzazione, ma un’unica verità, un’unica fede, un’unica chiesa, un’unica morale. Anche la famiglia allora deve essere “normocostituita” – come ripeterà ai raduni milanesi –, normalizzata al catechismo. E poiché di questo modello di mariana famiglia la donna è custode, il papa nel discorso in piazza Duomo porta ad esempio «santa Gianna Beretta Molla, sposa e madre, donna impegnata nell’ambito ecclesiale e civile».
Gianna Beretta, coniugata Molla, è stata proclamata santa da papa Wojtyla il 16 maggio 2004. A febbraio di quello stesso anno era stata varata la legge 40, trampolino di lancio per minare la 194.

Questa donna, madre di 4 figli, era morta nel 1962 perché, come disse papa Wojtyla, «fino al sacrificio estremo mantenne eroicamente fede all’impegno assunto il giorno del matrimonio». Ovvero mettere al mondo figli anche a costo della sua vita. Forse il nome di Gianna Beretta Molla sarà pure scivolato sulle migliaia di “sacre famiglie” chiamate a raccolta da tutto il mondo a Milano, ma non è certo ignoto a quegli integralisti cattolici che insieme a formazioni neofasciste e neonaziste hanno marciato su Roma il 13 maggio scorso contro la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza . E che a madrina di quella marcia hanno chiamato Gianna Emanuela Molla, la figlia nata da quel «sacrificio estremo» della madre che aveva tenuto «eroicamente fede all’impegno assunto il giorno del matrimonio».

Indisponibilità della vita, sacra famiglia, sacra educazione. Niente di nuovo neppure stavolta sotto il sole un po’ annebbiato di Milano. E se il Sindaco Pisapia, anche rispetto a Cristo, propone la strada della laicizzazione per costruire un ponte di comunicazione: «Credo che il messaggio rivoluzionario di Cristo si sposi oggi ancora più facilmente con il messaggio di chi vuole ridurre le differenze, alleviare la miseria, portare nel mondo la giustizia. Con umiltà, che è il modo in cui intendo questa mia missione laica…»; le parole del papa quel ponte lo sbarrano: «la fede in Gesù Cristo, morto e risorto per noi, vivente in mezzo a noi, deve animare tutto il tessuto della vita, personale e comunitaria, pubblica e privata, privata e pubblica, così da consentire uno stabile e autentico “ben essere”».

Insomma al Sindaco che proponeva costruzione di ponti nella ricerca individuale di “benessere” risultato di scelte individuali tra diverse “possibilità” di esserci, il pontefice massimo il suo ponte universale lo vuole tutto disposto nell’ortodossia della fede pontificale, dove le leggi divine (o meglio del papa) devono “ben essere” le leggi umane. Unica possibilità di esistere nell’omologazione all’idea di Bene prefissata. Totalità dell’essere, nell’unico “essere” considerato bene. Per fede. Altro che dialogo! Ancora una volta la teocrazia è servita.