Il Regno di Dio è vicino di F.Scalia

Felice Scalia
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Leggere nella fede l’espressione di Marco, non è semplice. Prendo, assieme ad alcuni amici, quella affermazione fondamentale che fa parte del nucleo centrale del messaggio di Gesù, nel senso che il Regno è possibile, accessibile all’uomo, dato che Dio si è messo all’opera e non cessa mai di “lavorare” per la sua realizzazione. Alla luce del significativo abbandono della stessa parola “Regno” nel linguaggio ecclesiastico, e di quanto capita ai nostri giorni nella chiesa e nella società, mi sembra arduo pensare ad una prossima, “vicina” realizzazione del Regno o di un deciso cammino verso di esso. Resta la promessa, resta la certezza della sua possibilità come verità ultima dell’individuo e della storia, ma spiragli di realistica speranza se ne vedono pochi.

Punto fondamentale: la chiesa di oggi e il Dio che essa presenta, aiutano la creazione di una ambito di libertà che permetta una crescita dell’uomo e di tutto l’uomo in dignità e fratellanza? O la ostacolano? Liberano l’uomo o lo imprigionano? Lo preparano ad essere libero figlio di un Dio innamorato dell’uomo, o figlio della paura e necessariamente nemico di ogni altro uomo? In altri termini: aiutano od ostacolano la venuta del Regno? Sono segno del Regno di Dio o fanno pensare alla sacralizzazione del regno degli uomini?

Mi sembra di potere affermare che l’invocazione ad una “verità che libera”, il richiamo ad un regime di “grazia” e di libertà profonda fatto da Paolo, una liberazione dai legami della Legge, cose come queste, furono presto dimenticate dai cristiani e dalla stessa chiesa gerarchica.[1]

A partire dalla “svolta costantiniana” la chiesa non se la sente più di condannare il potere-dominio esercitato dai re e imperatori che si proclamavano cristiani. Nei secoli successivi non condannerà neppure l’assolutismo. Non le sarà mai facile ridimensionare il potere dell’uomo sulla donna, la società patriarcale e maschilista. Non tirerà mai le conseguenze pratiche del valore della coscienza come criterio ultimo-pratico delle scelte nella vita.[2] La chiesa condanna solo dettagli, eccessi, ma sostiene il sistema. In fondo, forse, era impossibilitata a farlo, dato che essa stessa ben presto era passata dal potere-servizio (essenziale clima del Regno) che costava sangue e vite umane, al potere-dominio portatore di privilegi, denaro, splendore di guardie armate, infallibilità, immunità, sotto la protezione di imperatori a tutto interessati eccetto che al vangelo ed al suo annunzio di liberazione totale.[3]

Non mi pare esistano storici giunti ad affermare che la chiesa, custode del potere-servizio, non abbia mai ceduto alla seduzione del potere-dominio. Tentativi di ieri e di oggi di “contestualizzare” gli avvenimenti, ce ne sono. Apologisti che si imbarcano in imprese perdute, pure. Del resto il lavoro di questi ultimi consiste nell’esporre il contesto storico e nell’evidenziare gli aspetti positivi anche di certi papati oscuri. Il fatto incontestabile che la tentazione del potere-dominio, del “primariato”, della grandezza, accompagna la chiesa fin dal suo primo vagito, anzi si annida perfino in Gesù di Nazareth, alle prese con satana nel deserto, con Pietro a Cesarea di Filippo, con la folla dopo la condivisione dei pani, questo fatto meticolosamente registrato dai Vangeli non può indurci a giustificare la libido dominandi presente nella chiesa di eri e di oggi. Non dice che le cose devono andare nel senso del cedimento alla tentazione, ma ci avverte che là andremo a finire se non si “vigila”.

La chiesa è passata dal “potere-servizio” al “potere–dominio” per via di un processo di istituzionalizzazione che ha preso per modello i potenti di questo mondo. “Societas perfecta”[4] – si è autodefinita la chiesa, allontanandosi piuttosto vistosamente da quella “ekklesia di Dio” (assemblea pubblica, di tutta la comunità) con cui la comunità cristiana chiama se stessa a Gerusalemme.[5] Così si è dotata di centralismo imperiale, di palazzi, leggi, tribunali, carceri, soldati, cursus honorum, carriere, privilegi, tanto denaro e quindi… corruzione.

Il tutto per garantire l’annunzio del vangelo e del “Regno” di Dio. Solo che i criteri di un “regno mondano” sono radicalmente opposti a quelli che strutturano il “regno di Dio”. Qui amore, giustizia, pace, rispetto della dignità infinita di una persona, legame indissolubile tra fratelli, comune obbedienza alla Parola, cammino di purificazione per giungere alla pienezza della vita del Cristo nella propria carne, sono le caratteristiche di un popolo di fratelli che vanno verso la Vita con ruoli diversi ma con uguale dignità. Nessuno è maestro di un altro, ma tutti obbedienti alla Parola ed alle sollecitazioni dello Spirito.

Nel regno degli uomini la sottomissione a chi comanda, l’intangibilità dei potenti, il dovere di sottostare a regole rigide anche quando imprigionano la vita, l’uso della coercizione e della forza, la rinunzia alla voce della propria coscienza, sono elementi portanti e, per certi versi, irrinunciabili. Una chiesa centralizzata, un papa-re, un assolutismo dogmatico che prescinde dalla collegialità dei successori degli Apostoli, trasformano inesorabilmente in potere-dominio quel potere-servizio che ci era stato donato.[6]

Quando in una istituzione (laica o religiosa che sia) c’è una persona che ha un enorme potere perché occupa una posizione più elevata e centrale rispetto agli altri, si crea il “sistema della corte”. Chi in questa istituzione ha anche un ruolo dirigenziale, non agisce in nome proprio, ma dell’”unico signore” e da lui solo dipende per avere, conservare, difendere privilegi, status sociale e funzioni. Il “signore unico” distribuisce benefici materiali e spirituali, onore o disonore, può togliere o aumentare qualsiasi potere delegato. In questo sistema la minima sfumatura di umore o di parere nel “signore” ha una enorme importanza per gli uomini di “corte”, per la loro sopravvivenza. Inutile cercare libertà di pensare e di proporre nelle “corti”. Si ha un servilismo più o meno interessato, più o meno onesto. L’obiettivo irrinunciabile è stare in sella col “signore”, dunque difenderlo anche nell’indifendibile. I “cortigiani” possono essere tra loro ostili, ma la “corte” è massa. Il “sistema di corte”, con questa sua compattezza, con questa autogiustificazione quotidiana, non solo tende a difendere sempre se stessa, ma diventa maestra di vita per tutta la nazione. Chi pensa ed agisce diversamente dal “signore” e dai “cortigiani” è nemico del popolo e della stessa civiltà con cui la “corte” si identifica.

In questo sistema il “signore” è l’unico “potente” in senso stretto, dunque non può non avere che sottomessi, servi. Nessuno uguale a lui, ma tutti sotto di lui. Chi aspira a crescere troppo è un nemico.

È difficile pensare che la chiesa-istituzione possa essere pensata immune dai difetti del “sistema della corte”. Solo che bisognerebbe vigilare molto perché quando la chiesa-mistero diventa chiesa-istituzione, il “mistero” è in pericolo, minacciato dalla stessa istituzione. Quest’ultima non si preoccupa principalmente dal fine per cui è nata (la custodia e la trasmissione del mistero cristiano) ma di se stessa, della propria sopravvivenza, del proprio “onore”. “Ahi, Costantin di quanto mal fu matre” – dice Dante. La chiesa centrata principalmente sull’istituzione rischia di abiurare a Dio e di adorare i nuovi vitelli d’oro derivanti dal potere-dominio. Gli uomini del “sistema della corte” credono di dovere rivendicare per sé il potere dell’onnipotenza del giudizio, del “potere delle chiavi”. Essi assolvono e condanno tutti gli altri. “Sederanno a giudicare le 12 tribù di Israele” – dicono spesso di sé.

Sarà questo un “pensare secondo gli uomini e non secondo Dio”. Peccato in cui cadono gli amici di Gesù Pietro e Giuda. Gesù si ribella a questi “amici” che “non pensano secondo Dio”, che non vivono nello Spirito della verità-servizio (cfr Gv 14,15-21), siano essi al suo seguito o tra i “capi”. Per questo anche lui ha un sogno: una chiesa libera dall’ipocrisia (basta con chi dice ma non fa), dalla vanità (niente preghiere e digiuni sulle piazze), onnipotenza (nessun uomo che sia padrone di altri uomini fino ad imporre fardelli insopportabili, e nutrire atteggiamenti severi e umilianti che fanno sentire giusti e grandi chi li commina). Lo abbiamo anche noi questo sogno perché come uomini e come credenti vogliamo slargare cuori e polmoni alla speranza, vogliamo poter respirare. Ma quando nella chiesa, di fatto, si accumulano ipocrisia, senso di onnipotenza, vanità, allora in essa “manca il respiro” dello Spirito e del vangelo – come osserva Giorgio Campanini[7].

Per me (per noi) credere nel “Regno vicino” è credere che i sogni di Gesù sono come la sua Parola: “non passeranno”. Sempre avremo il tormento dell’inquietudine di sapere che esso è possibile, desiderato dal profondo di ogni cuore umano, eppure rifiutato ogni giorno, ma ogni giorno disegnato e – almeno dalla “ecclesia sancta, casta” – costruito.

[1] Cfr Hans Küng, “Salviamo la chiesa”, Rizzoli, Milano, 2011, pp. 67-94.
[2] “Quidquid fit contra conscientiam aedificat ad geennam”. Così il Concilio Lateranense IV del 1215. Ma ci vorranno quasi otto secoli prima che si stili il documento conciliare “Dignitatis humanae”.
[3] Le ricerche sul potere della chiesa si confondono con quelle sulla essenziale natura violenta dei monoteismi. Si veda Erik Peterson, “Il monoteismo come problema politico, Queriniana, Brescia, 1983 – Jan Assmann, “Non avrai altro Dio”, Il Mulino, Milano, 2007 – Aldo Zanca, “Religione e morale – Filosofia del condizionamento religioso”, Ed . Istituto Poligrafico Europeo, 2012.
[4] Nel 1939 un parroco berlinese, Karl Pelz, pubblica un’opera significativa, “Der Christ als Christus” (Il cristiano come Cristo), esponendo la visione paolina della incorporazione a Cristo o la teologia del “Corpo mistico di Cristo”. Negli anni immediatamente successivi, diversi teologi giudicarono pericolosa la dottrina del Corpo mistico, chiedendo il ripristino puro e semplice della definizione della Chiesa come societas perfecta, una nozione abbastanza recente, impostasi fra XVIII e XIX secolo, che significativamente san Tommaso non usa – egli parla di communitas perfecta ovvero agostinianamente di civitas (cfr. Summa theologiae I-II, q.90 a.3), concependo la civitas come comprendente la cooperazione col potere politico (regnum). Altrettanto significativamente, la categoria di societas perfecta fu invece ripresa da Karol Wojtyla in un suo intervento al Concilio (cfr. Acta synodalia II/3, 155-156).
[5] Cfr. 1 Cor 15,9; Gal 1,13.
[6] Interessanti per una panoramica su questo argomento i due volumi del compianto Giancarlo Zizola, “L’altro Wojtyla” e “Santità e potere”, Sperling & Kupfer, Milano.
[7] Saverio Xeres e Giorgio Campanini, “Manca il respiro. U(n prete e un laico riflettono sulla chiesa italiana”, Ancora Ed., Milano, 2012.