Don Puglisi, il beato che rompeva le scatole

Roberto Faenza
Il Fatto Quotidiano, 29.06.2012

L’hanno ammazzato come un cane mentre rientrava a casa il 15 settembre 1993. A distanza di quasi vent’anni finalmente la Chiesa si accinge a nominarlo beato. Ucciso “in odio alla fede”, così ha detto il Papa. Se mi è consentito dissentire, non credo proprio che i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, su cui proprio ieri Il Fatto ha pubblicato un ampio servizio, abbiano fatto uccidere Don Puglisi per motivi di fede. A quelli come i boss di Brancaccio della fede non gliene frega niente, se non per battezzare i loro pargoli, o chiedere l’estrema unzione, o per mandare messaggini in carcere tramite sacerdoti compiacenti.

Lo hanno ammazzato quel prete, così hanno poi confessato gli stessi assassini, “perché ci rompeva le scatole”. Perché si era messo in testa di battersi contro la mafia proprio nel loro regno alle porte di Palermo. Perché aveva gridato in piazza e in chiesa che di loro non aveva paura. Perché aveva persino osato intimargli di convertirsi davanti ai loro stessi sottoposti e ai numerosi complici politici che la domenica andavano in chiesa. A sentire le sue prediche, per poi commentarle con disprezzo e chiedere in segreto di metterlo a tacere una volta per tutte.

Quando ho deciso di raccontare la sua storia nel film “Alla luce del sole”, mentre facevo i sopralluoghi in cerca di location, ho capito cosa significhi la sottomissione di un intero quartiere dove non si muoveva foglia senza che lo volessero i Graviano o il loro luogotenente, il medico Guttadauro.

Una mattina, attraversando quei vicoli, ho visto un ragazzino seduto davanti a un cancello. Mi sono fermato e gli ho chiesto cosa ci fosse oltre le inferriate. “A mio padre dovete chiedere”, mi ha risposto. Tale era l’assoluto dominio mafioso, che il ragazzo neppure osava dire cosa ci fosse alle sue spalle. Era attraverso quei giovani, che don Pino Puglisi, per gli amici 3P, cercava di contrastare il cancro omertoso. Agli adulti non credeva più, ormai erano perduti, diceva ai suoi discepoli. Ma i giovani no. Con loro si può ancora intervenire, con loro si può ancora parlare. Gli si può far conoscere la bellezza del mondo, in opposizione alle miserie del potere. E molti di quei ragazzi hanno cominciato a credergli, fino a seguirlo nei suoi sogni. Per questo lo hanno ammazzato.

Tanto era l’odio che nutrivano i boss nei suoi confronti che quando a Palermo si è sparsa la notizia del suo assassinio, una banda di scellerati in motorino ha cominciato a sgommare per le vie di Brancaccio gridando a squarciagola e scrivendo sui muri un peana mostruoso “W la mafia!”. 3P era un uomo vero in mezzo a troppi eroi di cartapesta. Il suo tragitto ha trascinato tanti giovani perché era un uomo capace di coltivare la passione per la verità, rifiutare i compromessi, tenere alta la testa. Sapeva che lo avrebbero ammazzato, perché lui a Brancaccio c’era cresciuto e aveva incontrato sin da bambino quelli che poi gli avrebbero sparato. Pochi giorni prima di morire, aveva lasciato in testamento al suo vice, Gregorio Porcaro, la promessa che il loro lavoro non sarebbe restato senza seguito.

Ma la Chiesa che ora si accinge a beatificarlo, invece di seguire il suo ultimo desiderio, nominò in sua vece un parroco che definire all’opposto di don Puglisi è dire poco. E come se non bastasse disperse i suoi seguaci, mandando suor Carolina, la direttrice del Centro Paternostro, lontanissimo in Calabria. E inducendo Gregorio a lasciare la tonaca, tanto era il dolore di vedere infranto il sogno di quel povero prete, che lontano dai riflettori in vita diventò famoso solo quando fu lasciato a terra in una pozza di sangue. Quando 3P aveva esposto ai vertici della Curia palermitana il suo progetto di rieducazione del quartiere, si era sentito rispondere “ma questo è un sogno”. E lui citando Carl Gustav Jung, aveva risposto prontamente: “Ma i sogni colorano il buio”. Già un prete che leggeva Jung veniva guardato con sospetto. Figurarsi cosa pensavano di lui quando si era messo in testa di insegnare a leggere e scrivere ai bambini che disertavano la scuola. Oppure quando affrontando di persona i latitanti che circolavano liberi per il quartiere non aveva timore di indurli a consegnarsi.

Ho portato il film su don Puglisi in giro per il mondo e ovunque la sua storia ha suscitato stupore e commozione.
Ma davvero in Italia, mi hanno chiesto ogni volta, la mafia è così diffusa? La sua morte era davvero inevitabile? Il suo sogno davvero irrealizzabile? La sua storia dice di no. Oggi Palermo sta per affrontare una nuova speranza. Sperare nell’impossibile è una cosa bellissima. Il possibile lo troviamo tutti i giorni nella realtà.

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DON PUGLISI E GLI ALTRI SANTI CHE VANNO TOLTI ALLA MAFIA

Francesco Merlo
la Repubblica, 30.06.2012

Non basta fare santo un eroe dell’antimafia, la Chiesa deve adesso strappare tutti gli altri santi alla
mafia, compreso Gesù Cristo che nella devozione malata dei criminali è reso pari ad ogni malacarne
messo ai ceppi dagli sbirri. Don Puglisi rischia di sentirsi solo in un Paradiso affollato dalle troppe
preghiere dei boss, dai ceri dei sicari, dai te deum degli estortori, dalle orazioni degli stragisti. E
dalle devozioni lautamente finanziate, dai peccatori sanguinari che hanno fatto della Chiesa
meridionale il loro covo, la banca dei loro sentimenti.

Di sicuro il processo di beatificazione di don Puglisi, avviato da Benedetto XVI, è il primo atto di
potenza spirituale di questo Papa così teologico, così professore, così lontano dalla vox populi che è
sempre vox dei.

E difatti il parroco di Brancaccio, che adesso è in attesa di diventare un’immaginetta della Chiesa,
era già un’icona, una faccia molto amata e molto raffigurata, con pennellate naïf, sui cruscotti, sui
carrettini, sui muri. E la gente assiste come ad una messa allo spettacolo bello e stralunato che
Ficarra e Picone gli hanno dedicato: «E dire che noi glielo avevamo detto: “Zio Pino, con tutto
quest’amore si dia una calmata, perché altrimenti a lei finisce male”». Insomma, da molto tempo
don Puglisi è chiamato «santo» nella Palermo profonda. Persino uno dei killer che gli ha sparato,
disse: «Ho ucciso un santo». Che anche la Chiesa lo riconosca finalmente come santo è, al tempo
stesso, un atto dovuto e la promessa di una svolta. Di certo è ancora troppo poco in un universo
religioso che è dominato e pagato dal devoto violento, dal killer che prega e spara, dal mafioso che
bacia il crocifisso e strangola, dal boss che domina il delitto e innalza altarini alla Madonna, legge e
annota la Bibbia e allo stadio di Catania fa calare sulla curva sud un enorme striscione, venti metri
per trenta, con l’immagine di Sant’Agata in carcere, il viso reclinato verso la finestra della prigione
da cui arriva un fascio di luce divina.

Come si può santificare il martirio – la testimonianza – di don Puglisi e non sospendere, come primo
atto di purificazione, le feste religiose che sono esplosioni collettive dell’anima antica e oscura per
un tema liturgico, quello della Passione, in cui la mafia, bestemmiandolo, si riconosce, si specchia:
il tradimento (Giuda), l’assassinio (Cristo), lo strazio della Madre Addolorata (la Madonna). Ed è
vero che non esiste nulla di così affollato come le feste religiose della Sicilia spagnola e si capisce
che la Chiesa, in crisi di vocazioni e di consenso, cerchi la folla. Ma le processioni sono le palestre
del rancore popolare, un concentrato di antichissima ferocia pagana che i boss riciclano per
riaffermare il controllo assoluto del territorio. E nel cappuccio sono depositate tutte le pratiche più
lugubri, precristiane e anticristiane, un armamentario devozionale che è apparentato con le
processioni sciite, con il peggio del fondamentalismo e del fanatismo di massa dell’Iran. Ma il
cappuccio è anche il nascondersi che in latino si dice lateo, quindi latitare, quindi latitante, tra fucili
e crocifissi, bombe a mano e immagini dei santi, di tutti i santi.

Ebbene don Puglisi è stato il solo che è riuscito a ribaltare persino la cupezza di queste processioni e
a riportare al sorriso il tetro e lugubre Dio della mafia. Perciò è il modello vincente di
quell’antimafia che non è fatta di catechismo e di retorica nelle scuole. Don Puglisi si misurava con
la mafia, era cresciuto nella sua stessa tragedia sociale, si nutriva degli stessi miti ma, rovesciandoli
in ogni centimetro del territorio e maneggiando le sue stesse armi, si riappropriava inesorabilmente
del quartiere. E non è santo perché accolse sorridendo il suo sicario – «vi aspettavo» -, ma perché,
capovolgendo i miti della mafia, convinse la gente del Brancaccio, la sua gente, a guardare
all’incontrario il proprio mondo, la propria casa, la propria famiglia e anche la propria chiesa, e a
scoprire che all’incontrario è meglio.

Molto più della causa di canonizzazione del giudice Rosario Livatino, introdotta lo scorso anno
dall’arcivescovo di Agrigento, la scelta di beatificare don Puglisi è il primo vero tentativo di
contrapporre all’universo del mafioso devoto quello dell’antimafioso devoto. Ecco perché è statoucciso: stava togliendo alla mafia la sua ragione sociale e cioè il territorio, i suoi miti, le sue
processioni, i suoi santi, la sua religione.

E pensate al linguaggio che è sempre carne viva, pensate a quanto c’è di cattolico nelle parole e nel
codice della mafia: cupola, papa, padrino, mammasantissima, e poi il bacio dell’anello, il rogo del
santino nell’iniziazione … E a tutto i latitanti rinunziano ma non ai battesimi, alle cresime, alle
processioni appunto. Tra i santuari più famosi della provincia di Reggio Calabria c’è quello di Polsi,
con la sua Madonna della Montagna che tutti chiamano la Madonna della ‘ndrangheta perché ogni
anno i mammasantissima si riuniscono per portare sulla spalla le statue dei santi. Ed è passato nella
simbologia mafiosa l’intero sistema penale dell’Inquisizione, che in Sicilia fu uno stato nello Stato e
faceva pagare il pizzo sulla fede, costringendo per esempio il non cattolico, soprattutto l’ebreo, a
versare multe e a cedere parte del patrimonio.

Ed è sorprendente ritrovare tutta la ferocia dell’Inquisizione nelle punizioni della mafia. La faccia tagliata, segno di indelebile infamia tra i mafiosi, era la tortura che la Chiesa infliggeva all’eretico. E il sasso in bocca è la variante mafiosa della mordacchia inquisitoriale, pena comminata al bestemmiatore… E si potrebbe continuare
nell’illustrare il rapporto tra mafia e religione cattolica che è davvero molto stretto e molto
inquietante e non solo perché Provenzano porta al collo tre crocifissi. Molto più della pedofilia,
almeno in Italia, questo è il grumo oscuro della nostra Mater Purissima, l’oggetto dell’esame di
coscienza e della guerra di liberazione che ora spetterebbe alla Chiesa. Altrimenti anche la
beatificazione di don Puglisi rischia d’essere solo un tentativo di rifarsi la faccia: non martire ma
marketing.