Tra la terra e il cielo, il pane e le rose. Un convegno per “fare memoria” di Giulio Girardi di V.Gigante

Valerio Gigante
Adista Notizie n. 25/2012

«Cieli nuovi e terra nuova», profetizzava Isaia (Is 65,17). Ma prima ancora che al cielo è alla terra – anzi – alle tante terre abitate dai diseredati e dagli esclusi, come condizione fondamentale per parlare di cielo, che ha guardato con passione per tutta la sua vita Giulio Girardi, teologo e filosofo della Liberazione morto il 26 febbraio scorso ad 86 anni. Per questo, “Terre nuove, cieli nuovi. Il messaggio di Giulio Girardi” è stato il titolo scelto da amici, compagni di strada e di lotta, allievi ed estimatori di Girardi, per un convegno a lui dedicato, che intendeva “fare memoria” di una delle figure cardine della stagione conciliare e post-conciliare della Chiesa cattolica, di uno degli esponenti più significativi, dal punto di vista teorico ma anche dell’impegno concreto, di quella parte di mondo cristiano che negli ultimi 50 anni si è sforzata di liberare la fede nel messaggio di Gesù dalle sovrastrutture religiose, dalle incrostazioni teologiche ed ideologiche funzionali al dominio del sacro – spirituale e materiale – sui credenti, aprendo orizzonti nuovi di riflessione, di dialogo, di liberazione.

Il 21 giugno, presso la Sala Luigi Di Liegro della Provincia di Roma a “fare memoria” della teoria e della prassi liberatrice – che era soprattutto “amicizia liberatrice”, relazione profonda con gli individui che si saldava con l’amore per le masse e per il loro riscatto – di Girardi, come uomo, prete, filosofo, docente universitario, esponente della Teologia indigena e della Liberazione, sono state tante persone che hanno incrociato la loro vita con la sua. Bruno Bellerate, il confratello salesiano che ne ha condiviso i travagli e le battaglie dentro e fuori la congregazione salesiana, e che lo ha ospitato amorevolmente, ormai gravemente malato, negli ultimi anni della sua vita; l’altro salesianoGerard Lutte, espulso con Girardi nel 1969 e compagno nell’avventura latinoamericana e nell’impegno pedagogico a favore degli esclusi; Marie Claude Ryckebusch, collaboratrice di Girardi ai tempi dell’insegnamento a Parigi, nel 1973;Franco Passuello, Raul Mordenti e Antonio Parisella, che condivisero con lui la stagione post conciliare e l’impegno nelle Comunità Cristiane di Base e nei Cristiani per il Socialismo; Adriano Serafino, ex sindacalista della Fim-Cisl che collaborò con Girardi alle inchieste operaie su “coscienza operaia” e su “scelta di e trasformazioni della coscienza cristiana” condotta a Torino, insieme alle Acli, alla Gioc, ai preti operai, ai sindacati metalmeccanici, tra il 1975 e il 1984; Vidaluz Meneses, poetessa e presidente del Centro Nicaragüense de Escritores, impegnata nelle prime fasi della rivoluzione sandinista come vice ministra della Cultura, e divenuta amica di Girardi proprio in quegli anni convulsi e pieni di speranza; Aldo Zanchetta, della fondazione Neno Zanchetta per i diritti dei popoli indigeni di Lucca, punto di riferimento in Italia per tutto ciò che riguarda la cultura e le lotte dei movimenti sociali e indigeni, oltre che sui temi della nonviolenza attiva, che Girardi approfondì nell’ultima fase della sua produzione teorica; Juan Francisco Andrade, prete di Riobamba, in Ecuador, discepolo di Leonidas Proaño, vescovo e teologo ecuadoriano, tra i massimi esponenti della Teologia indigena e della Liberazione ecuadoregna, che nel suo intervento ha accostato la figura di Girardi a quella del “vescovo degli indigeni”, morto nel 1988.

Classe operaia, popoli oppressi dell’America Latina (indio-latina, come ha cercato più correttamente di definirla Aldo Zanchetta), sandinisti, rivoluzionari cubani, popoli indigeni, movimento altermondialista, militanti della “rivoluzione bolivariana”, sostenitori della nonviolenza attiva: le relazioni che hanno accompagnato l’intensa giornata dei lavori del convegno hanno toccato, alternativamente, tutti questi soggetti storici, evidenziando il filo conduttore attraverso il quale Giulio Girardi ha ricondotto all’unità questa variegata realtà storica e sociale: la ricerca, cioè, di un soggetto rivoluzionario, che incarnasse quell’ansia di trasformazione dell’esistente, di giustizia sociale, di solidarietà e di umanità che aveva contrassegnato la vita di Girardi fin dai difficili anni (lo ha ricordato Lutte) dell’internato nei collegi salesiani, quando Girardi viveva con grande sofferenza da una parte la distanza dalla famiglia, dall’altra l’autorità vuota e insensata dei superiori.

Anche la scelta marxista, più che l’adesione al materialismo dialettico (che, lo ha ricordato Passuello, non avvenne mai pienamente), tentò di coniugare l’umanesimo cristiano con quello comunista, l’aspirazione di credenti e non credenti per un mondo nuovo, nell’idea di una storia che procede, seppure in maniera non sempre lineare, dentro una visione “escatologica” del tempo, che realizza quello che il cristianesimo annuncia e per cui il marxismo lotta, cioè il riscatto della condizione dell’umanità oppressa. Ma la rivoluzione per Girardi non riguarda solo le strutture sociali. Parte sempre dalla persona. È prioritariamente e necessariamente rivoluzione antropologica. Se non c’è quella, la rivoluzione delle condizioni materiali non può realizzarsi pienamente (e questo è un altro aspetto che lo divideva dal marxismo).

Per queste ragioni, se i soggetti rivoluzionari studiati da Girardi mutavano, a seconda delle fasi storiche, immutata restava invece la fiducia in una palingenesi dell’umanità le cui premesse andavano gettate nell’immediato e che per Girardi non potevano che fondarsi sulle istanze di coloro che si trovano più in basso nella gerarchia sociale, che vivono con maggiore drammaticità le contraddizioni del sistema. Girardi, lo ha ricordato Vidaluz Meneses nella sua relazione, amò profondamente i movimenti rivoluzionari che attraversarono la sua vita di uomo e di studioso. Ma riconosceva ed accettava, nonostante li avesse difesi con passione, errori e abusi, quando si presentavano. Ma le sconfitte personali e storiche vissute nel corso degli anni lo avevano anche condotto a leggere in maniera problematica il suo lavoro ed il suo impegno, vivendo anche diversi momenti di sconforto personale, non estranei forse alla depressione che ne caratterizzò a più riprese gli ultimi anni di vita.

Marie Claude Ryckebusch nel suo intervento ha ricordato come già nel 1983 Giulio si chiedesse con profonda sollecitudine se il suo lavoro interessasse davvero a qualcuno, se servisse veramente a qualcuno: «Mi sforzo di crederci», diceva. In fondo, come ha ricordato Passuello e come poi ha puntualmente ricostruito Raul Mordenti, Girardi è stato un cristiano che ha visto e vissuto le contraddizioni della sua Chiesa, a cui è rimasto fedele fino alla fine. Aveva posizioni difficili, sia per i cattolici che per la sinistra, unite ad un grande rigore intellettuale e coerenza personale. La sua “solitudine” nasceva dall’insofferenza nei confronti dell’autoritarismo della gerarchia ecclesiastica, la radicale sensibilità evangelica, una sostanziale estraneità, dopo la fase dell’attivismo degli anni ’70, alla sinistra italiana, un impegno teorico che lo portava spesso ad essere “altrove”, per cui chi lo incontrava ne era magari profondamente influenzato, pur con la sensazione che Girardi restasse lì, gentilissimo ma irraggiungibile, immerso nel suo mondo.

La sintesi di questi elementi ha fatto di Girardi un personaggio “eccedente”, “eccentrico” nel panorama teologico, politico ed ecclesiale. E lo ha indotto a scelte difficili, che in più occasioni gli fecero sperimentare il dolore di venire emarginato (dalla congregazione salesiana, dalla Chiesa, dall’establishment culturale, dal mondo accademico). E di condividere, anche in questa condizione di déraciné, la vita di quel mondo degli oppressi a cui si era votato.