Il diritto arrogante: le religioni di fronte ai diritti umani di J.J.Tamayo

Juan José Tamayo
Redes cristianas, 6 luglio 2012

L’atteggiamento adottato dalle religioni nei confronti dei diritti umani è oggi uno dei criteri di rilevanza o irrilevanza sociale, di legittimazione o sconfessione etica, di riconoscimento o rifiuto sul piano civile. E questo a più livelli: l’antropologia pessimista sottostante, la negazione di un fondamento autonomo, la gerarchizzazione degli esseri umani in funzione delle loro credenze, il difficile e selettivo riconoscimento nella società, i conflitti istituzionali e l’assenza della pratica dei diritti umani all’interno delle religioni. È qui che le religioni pongono problemi e presentano ogni tipo di difficoltà in materia di diritti umani.

Antropologia pessimista

Le religioni in generale tendono a considerare gli esseri umani, credenti o meno, come esseri dipendenti dal loro artefice o creatore e sottomessi al piano della divina Provvidenza per l’umanità, mancanti di autonomia nel loro modo di pensare e di agire. Ogni persona, prima ancora che un essere umano con diritti e doveri, è peccatrice agli occhi di Dio e bisognosa di redenzione. Ma prima deve pentirsi e convertirsi. La concezione antropologica delle religioni è solitamente pessimista e negativa. Agostino d’Ippona porta all’estremo questo pessimismo fino a giudicare l’umanità come una massa dannata. Cosa che implica, stando alla logica, un fallimento nel piano del Dio creatore e salvatore.

Secondo tale concezione, l’essere umano difficilmente può essere portatore di dignità e soggetto di diritti. Lo è invece di doveri e obblighi, espressi nei distinti codici giuridici e morali religiosi sotto forma di divieti e minacce di castigo, non solo temporanee ma anche eterne. Affinché le religioni riconoscano gli esseri umani come soggetti di diritti è necessario che mutino concezione antropologica e, di conseguenza, paradigma. Altrimenti resteranno agli antipodi dal paradigma dei diritti umani e continueranno a opporsi insistentemente alla loro formulazione e al loro esercizio.

La superiorità del diritto divino

Il diritto divino si arroga una serie di caratteristiche che lo differenziano dal diritto umano ponendolo al di sopra di questo. La prima è data dalla sua superiorità, dal momento che è stato rivelato da Dio e che le sue fonti precedono gerarchicamente le disposizioni stabilite dall’essere umano. Si ritiene che il diritto divino costituisca la base e il limite del diritto umano, i cui contenuti sono sviluppati dal legislatore o interprete umano. La seconda caratteristica è l’immutabilità, in ragione della sua origine divina; una immutabilità che non può essere assoluta in quanto i regimi divini si collocano nella storia e si adattano ai cambiamenti della comunità religiosa che ha il compito di attuarli. La terza caratteristica è la pienezza, avendo il diritto divino tutti gli elementi necessari per il conseguimento dei propri fini. Ciò che compete all’autorità umana non è altro che esplicitare il contenuto del diritto divino e portare alla luce le sue ricchezze. La quarta caratteristica è l’universalità, che inizialmente corrisponde alla portata universale della rivelazione divina, malgrado nella pratica si limiti ai fedeli di una determinata religione e in questo senso rappresenti una universalità potenziale. Una quinta caratteristica, nel caso dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’islam, è data dal fatto che si tratta di un diritto rivelato, considerando che l’essere umano arriva a conoscerlo non da solo ma per mezzo di una rivelazione. L’iniziativa pertanto è di Dio.

Gerarchizzazione degli esseri umani in funzione delle loro credenze

Le religioni tendono a stabilire differenze tra gli esseri umani in funzione delle loro credenze; differenze che, alla fine, sfociano in disuguaglianze e generano discriminazione ed esclusione. In primo luogo, stabiliscono distinzioni tra credenti della propria religione e credenti delle altre religioni. I primi vengono considerati eletti dal Signore e godono di ogni privilegio che la divinità riserva ai suoi fedeli in questa vita come nell’aldilà. I fedeli delle altre religioni sono considerati inferiori e sono oggetto di castighi tanto in questa vita come in quella futura. E questo viene giustificato sulla base di una rivelazione divina diretta a un popolo, a una comunità, a un gruppo umano. In definitiva, alla base di tutto c’è un atto arbitrario del Dio in cui si crede. Le differenze sono ancora più marcate tra credenti e non credenti, fino all’affermazione che costoro si trovano in errore e non possono essere soggetti di diritto, in base alla logica agostiniana secondo cui «L’errore non ha diritti», ricordata ancora da papa Gregorio XVI nell’enciclica Mirari Vos (1832).

Altra tendenza delle religioni è quella di stabilire rigide gerarchie al proprio interno tra le autorità che rappresentano Dio e ricevono da lui il potere e i fedeli credenti che devono obbedire e mettere in pratica in maniera scrupolosa le direttrici emanate dall’alto e trasmesse attraverso i mediatori. I primi godono di tutti i diritti, mentre per i secondi esistono solo doveri. E ciò per istituzione divina.

Un ottimo esempio di questa tendenza si incontra nella Chiesa cattolica, che stabilisce una chiara differenza tra gerarchia e popolo cristiano, chierici e laici, Chiesa docente e Chiesa discente o, per usare la metafora tanto ripetuta nei documenti ecclesiastici quanto poco felice, tra pastori e gregge. Fino al Concilio Vaticano II (1962-1965), i papi hanno definito la Chiesa cattolica come una società diseguale. La disuguaglianza non è considerata una deviazione da correggere, ma appartiene alla stessa struttura ecclesiale. Di più, è volontà di Dio e corrisponde all’atto di istituzione della Chiesa da parte del suo fondatore, Gesù Cristo.

Obiezioni alla teoria dei diritti umani

Le religioni hanno opposto serie resistenze – alcune delle quali permangono oggi – ad assumere la teoria dei diritti umani, e la contrastano anche frontalmente ritenendo che la sua formulazione e il suo fondamento si muovano su un piano antropologico-giuridico senza base trascendente. Peggio ancora, resistono a metterla in pratica nella società e si sentono più a loro agio in contesti dittatoriali. Arrivano persino a negare valore a un’etica priva di un fondamento trascendente. Le religioni oppongono solitamente resistenza a mettere in pratica i diritti umani al loro interno affermando di dover obbedire ai precetti emanati dai rispettivi testi sacri, che esprimono la volontà di Dio, e di non aver motivo di sottomettersi ad alcuna dichiarazione umana sui diritti, per quanto universale e consensuale possa essere. Tale atteggiamento costituisce una difficoltà in più per la globalizzazione dei diritti umani, andando ad aggiungersi agli ostacoli che già si riscontrano in un mondo in cui la ricerca del profitto impera sul rispetto dei diritti umani, il mercato sulla democrazia e l’economia sulla politica. Sul piano dottrinale, il problema, a volte, affonda le sue radici nella non coincidenza tra la “volontà di Dio” espressa nei testi sacri e la legislazione civile approvata democratimente dai rappresentanti del popolo, tra le leggi rivelate e il diritto positivo.

Conflitto sul piano istituzionale

Sul piano istituzionale si producono permanenti conflitti tra potere legislativo ed autorità religiose perché queste considerano immodificabili determinati principi morali che, a loro giudizio, appartengono alla legge naturale, della quale le gerarchie si considerano interpreti legittime e uniche.

È il caso per esempio delle leggi sul divorzio, sull’interruzione volontaria di gravidanza, sul matrimonio omosessuale, sulla ricerca riguardo alle cellule staminali embrionali, sull’eutanasia. Sono leggi alle quali la gerarchia cattolica si oppone non riconoscendo ai rappresentanti del popolo la legittimità per legiferare su queste materie. Negli ultimi anni la Spagna ha offerto numerosi esempi al riguardo, relativamente a dichiarazioni da parte della gerarchia cattolica quanto mai radicali e offensive contro il governo socialista e i legislatori, accusati di laicismo aggressivo, fondamentalismo laicista (card. Herranz, quando era presidente del Pontificio Consiglio per l’Interpretazione dei Testi Legislativi), attentato allo Stato (mons. Burillo, vescovo di Ávila), fobia religiosa del partito socialista al potere, imposizione culturale di un umanesimo civile e materialista, capace di occultare il suo totalitarismo originario, ai danni dell’umanesimo cristiano, spina dorsale dell’Europa (mons. Del Rio, allora vescovo di Jerez).

I matrimoni omosessuali sono stati definiti come virus o come moneta falsa (Juan Antonio Martínez Camino, segretario generale della Conferenza episcopale spagnola), e la riforma della legge sul divorzio è stata considerata una riduzione del matrimonio a un livello inferiore a un contratto di compravendita (mons. Sebastián, allora arcivescovo di Pamplona). Ma l’offensiva non si è limitata al piano verbale, sfociando in appelli ai parlamentari cattolici a opporsi a tali leggi e, una volta che queste sono state approvate, a giudici, sindaci e consiglieri a non metterle in pratica, e ai cittadini a mobilitarsi contro di esse.

Trasgressione dei diritti umani nelle religioni

La difficoltà più grande delle religioni rispetto ai diritti umani risiede in generale nella loro stessa organizzazione, che non è democratica ma gerarchico-piramidale, e in cui la costante trasgressione dei diritti umani trova giustificazione, nel caso della Chiesa cattolica, nel fatto che: a) è di istituzione divina; b) si muove sul terreno spirituale e non politico; c) il suo funzionamento non è equiparabile a quello di altre istituzioni civili.