Nel Concilio tradito le radici del dissenso

Alessandro Santagata
Adista Segni Nuovi n. 29 del 28/07/2012

Il Concilio Vaticano II è oggi al centro di un’intensa stagione di discussioni. Nei think thanks della Santa Sede persevera l’attacco contro la presunta «ermeneutica della rottura»; tra gli studiosi è in corso il dibattito su come l’aggiornamento conciliare sia stato messo in pratica.

Per quanto riguarda l’Italia, una chiave di lettura della prima stagione dopo il Concilio può essere quella dello scontro politico. Mettere al centro l’elemento politico non significa ignorare che il Concilio ha provocato una fioritura delle sperimentazioni liturgiche, un risveglio del “popolo di Dio”, una domanda di ritorno alle Scritture e un crescente interesse per la teologia e il dialogo ecumenico. Tuttavia emerge anche come il binomio fede e politica abbia fornito la cifra del dibattito nella seconda metà degli anni Sessanta. A indirizzarlo in questa direzione sono state la “politicità” del Vaticano II, che nel rinnovare la tradizione del Vangelo non si era sottratto ai problemi del mondo, stabilendo le diverse sfere di influenza tra l’ordine spirituale e quello temporale, ma soprattutto il contesto politico nel quale l’evento conciliare è stato recepito.

Fin dalla conclusione della guerra, aveva preso forma un cattolicesimo fortemente politicizzato che, per far fronte al “pericolo comunista”, era ricorso alle grandi mobilitazioni di massa, aveva sostenuto il partito cattolico e aveva ottenuto il mantenimento del Concordato. Si era instaurato uno “Stato confessionale”, non monolitico – si pensi ai difficili rapporti tra la Dc e la gerarchia e a figure come Balducci, Mazzolari o Turoldo – ma comunque solido. Non stupisce, dunque, che la celebrazione del Vaticano II abbia scosso l’assetto esistente, dal momento che la Chiesa aveva elevato a dottrina proprio quelle critiche al “modello costantiniano” che erano cresciute sottotraccia.

In primo luogo, la radicalizzazione dello scontro ha risentito delle scelte operate dalla Conferenza episcopale italiana. Questa considerava l’applicazione del Concilio quasi come un fatto “meccanico” che avrebbe dovuto modificare nelle forme, ma non nella sostanza, l’azione della Chiesa nello scenario politico e il rapporto con l’istituzione statale. Come è stato chiaro con la pubblicazione del documento di sostegno alla Dc per le elezioni politiche del 1968 (I cristiani e la vita pubblica), la maggioranza dei vescovi sosteneva che l’avanzata delle “forze di sinistra”, anche nel mondo cattolico, giustificasse l’unità politica dei credenti in difesa della democrazia, della famiglia, del Concordato e dello stesso Concilio: la rimozione di Raniero La Valle dalla direzione dell’Avvenire d’Italia fu il primo segnale della rottura con i sostenitori della riforma della Gaudium et spes.

L’altro fronte di conflitto è stato con la Democrazia cristiana. Dopo averlo ignorato il più a lungo possibile, il partito ha cercato di chiudere i conti con il Concilio al convegno di Lucca (1967). L’operazione ideologica era chiara e fu sostenuta anche dalla Santa Sede: inserire il Vaticano II nella storia del movimento cattolico per mettere in mostra la continuità tra la lezione dei padri conciliari sull’autonomia dei cattolici e l’esperienza del cattolicesimo democratico. Nelle conclusioni la Dc era proclamata il prodotto di quell’impostazione che la Chiesa aveva finalmente ufficializzato: il partito non aveva quindi motivo di mettersi in discussione.

La campagna per la riforma politica ha avuto una cassa di risonanza in alcune riviste progressiste, ma ha coinvolto anche le organizzazioni dipendenti dalla gerarchia. l’Azione cattolica, per esempio, ha dovuto fare i conti con gli attacchi di coloro che intendevano superare il controllo gerarchico dell’apostolato per una “liberazione” della coscienza dei credenti. Ad aggravarne la situazione ha concorso la crescente crisi degli iscritti. La dirigenza nazionale ha reagito alla propria crisi con la “scelta religiosa”, che si è tradotta in un progressivo allontanamento dalla Dc. Tuttavia, il cambiamento di registro non ha comportato una critica all’unità politica dei cattolici e, soprattutto, un disimpegno definitivo dalla politica dell’episcopato, come è stato evidente nella campagna contro la legge Fortuna sul divorzio, generando così uno scontro interno con i settori giovanili della Giac/Gf (i rami maschili e femminili dell’Ac) e, in misura minore, della Fuci. Non è casuale dunque che, dopo la “sconfitta” della battaglia contro la centralizzazione (nuovo Statuto del 1969), le organizzazioni giovanili diventeranno dei bacini della contestazione religiosa e studentesca.

Anche la dirigenza delle Acli ha posto al centro il problema dei rapporti con la politica, ma in maniera conflittuale con i vertici ecclesiastici. Dal suo punto di vista, l’azione pastorale raccomandata dalla Gaudium et spes non poteva che svolgersi nella dimensione politica e sindacale: il passo successivo doveva essere il superamento dell’assistentato ecclesiastico e la rottura con il “partito cattolico”, a cui si contestava l’orientamento filo-capitalista. La parabola verso l’“ipotesi socialista” rappresenta una vicenda esemplare del conflitto post-conciliare, risolto con un’uscita “a sinistra” nel fronte della protesta.

L’elemento del conflitto è evidente anche nell’esperienza dei gruppi spontanei, i principali protagonisti della stagione del dissenso. I gruppi hanno coltivato una visione del Vaticano II focalizzata sul contrasto delle compromissioni della Chiesa con il potere. Dello spirito del ‘68 condividevano la proiezione internazionale(-ista), che ha alimentato la critica alla prudenza di Paolo VI nei confronti della “guerra ingiusta” in Vietnam e ha rafforzato la vicinanza alle lotte del Terzo Mondo. A proposito della situazione italiana, i gruppi erano convinti che il Vaticano II avesse sancito la rifondazione di un “nuova sinistra” priva di una copertura ecclesiastica e religiosa, ma sono stati anche i promotori del dissenso nella Chiesa e gli animatori della protesta contro la “restaurazione aggiornata”. Nel movimento era quindi avvertibile una contraddizione tra la volontà di separare la fede dalla politica e l’attività vera e propria. Lo stesso problema si è presentato nelle Comunità di Base, dalle quali prenderanno forma i Cristiani per il socialismo: cristiani e non per questo socialisti, ma socialisti anche perché partecipi del messaggio sociale di Cristo.

Il periodo che va dalla conclusione del Vaticano II allo scoppio del ‘68 è stato quindi decisivo per il cattolicesimo italiano, perché è in un arco temporale brevissimo che sono maturate le tensioni che porteranno alla rottura. Alcune di queste avevano una storia di lungo corso, ma è stato solo dopo il Vaticano II che le istanze di riforma hanno conosciuto un’accelerazione. Si sono quindi sovrapposte al ‘68 con proprie parole d’ordine di sinistra rivoluzionaria e di liberazione dall’autoritarismo e, allo stesso tempo, hanno contribuito in maniera determinante alla genesi della stessa contestazione: religiosa e, soprattutto, politica, perché solo attraverso il superamento dell’“età costantiniana” sarebbe stato possibile arrivare alla riforma della Chiesa. In questo contesto, l’elusione da parte dell’autorità ecclesiastica e del partito cattolico dei problemi posti dalla Gaudium et spes ha contribuito in maniera determinante a indirizzare i settori più ricettivi della lezione “giovannea” (soprattutto giovanili) verso la “nuova sinistra”.

La lettura qui proposta non è certamente sufficiente: non esaurisce il problema della relazione tra il ‘68 e la ridefinizione del paradigma religioso, non spiega i fermenti cristologici del periodo, non risolve nodi come la “declericalizzazione”, i conflitti liturgici e l’ecclesiologia dal basso, ma è uno strumento con il quale sfogliare l’album della contestazione (dall’Isolotto alla Cattolica di Milano, i gruppi e le ipotesi socialiste) nel quadro del problema di fondo del primo post-concilio. Molto di più ci dice sulla storia della nostra Repubblica e su quella commistione tra fede e potere della quale paghiamo ancora il prezzo in termini di laicità e democrazia.

* Dottore di ricerca in Storia contemporanea, Università di Tor Vergata (Roma)

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IL LUNGO INVERNO

Anselmo Borges
Diario de noticias, 5 luglio 2012

Il Concilio Vaticano II ha cambiato Chiesa e mondo, ma le sue novità sono state così frenate da richiedere ora nuove iniziative

Nella prima settimana di luglio, si è svolto a Santander, presso l’Università Internazionale Menéndez-Pelayo, il Seminario estivo sul tema dei 50 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II, sotto la direzione del teologo Juan José Tamayo.

Il Concilio è stato un evento enorme. Senza di esso non è immaginabile cosa sarebbe oggi la Chiesa Cattolica, né lo stesso mondo, data la influenza che esso ha avuto. Come ha sottolineato Tamayo, grandi sono le trasformazioni avvenute.

Da una Chiesa che si considerava una società perfetta si è passati ad una Chiesa come comunità di credenti. Dal mondo come nemico dell’anima al mondo come luogo di vita della fede. Dalla condanna della modernità e delle religioni non cristiane al dialogo multilaterale. Dalla condanna dei diritti umani al loro riconoscimento e alla loro proclamazione. Dalla condanna della secolarizzazione alla sua difesa nel senso del riconoscimento dell’autonomia delle realtà temporali. Da Chiesa immutabile e immobile a Chiesa che deve essere in riforma costante. Dall’integrismo cattolico al rispetto per le altre credenze. Dall’autoritarismo centralizzato, a Roma, alla collegialità episcopale. Dalla Cristianità al cristianesimo. Dall’appartenenza alla Chiesa come condizione necessaria per la salvezza alla libertà religiosa come diritto umano fondamentale. Da una Chiesa europea ad una Chiesa veramente universale.

Ci sono stati dei limiti? Alcuni, e fra i maggiori, malgrado una certa apertura al mondo, il carattere eurocentrico – l’orizzonte di comprensione è stato la modernità europea e, in questo quadro, la problematica della crisi di Dio nel mondo occidentale e il fenomeno della non credenza – e la non centralità dell’opzione per i poveri, non dandosi la dovuta attenzione alle maggioranze popolari del Terzo Mondo. L’Occidente ha finito per essere il destinatario principale del Concilio. Inoltre, l’antropocentrismo esacerbato ha fatto sì che la problematica ecologica fosse ignorata.

Alcuni temi sono stati messi sotto silenzio. Papa Paolo VI ha impedito che fosse dibattuto il tema del celibato dei sacerdoti – più tardi, durante un Sinodo episcopale, fu sottoposto a votazione, ma la maggioranza dei vescovi vi si oppose. Il posto delle donne nella Chiesa e, concretamente, la loro ordinazione, come anche il controllo della natalità, sono stati sottratti al dibattito.

Secondo le parole di Tamayo, «il Concilio fu una breve primavera alla quale è seguito un lungo inverno, che dura da più di quarant’anni». Di fronte agli eccessi di allora, Paolo VI, che aveva condotto il Concilio a conclusione, da intellettuale esitante, si intimorì e cominciò a tirare il freno, in una processo di avanzamenti e retrocessioni. Poi, ormai con Giovanni Paolo II, ha preso piede l’involuzione, con l’avvio di «un programma di calcolata restaurazione». È stato accentuato il carattere gerarchico-papale della Chiesa, è stata arginata la libertà di ricerca teologica – molti teologi sono stati condannati – passando dal pensiero critico al pensiero unico e dogmatico; la Curia ha riacquistato potere; i vescovi conciliari sono stati sostituiti da vescovi fedeli al neoconservatorismo e al Vaticano.

Con Benedetto XVI, che ha rappresentato una sorpresa per la sua umanità, per le misure forti contro il clero pedofilo, per l’ammirazione che suscita in molti intellettuali, il cammino dell’involuzione prosegue: restaurazione della Messa in latino, negoziati con i lefebvriani, condanna di teologi, centralizzazione. Di fronte alla grave crisi che attraversa oggi la Chiesa, molti chiedono un nuovo concilio: un Vaticano III, convocato da un Giovanni XXIV. Ma c’è chi ricorda, fra altre obiezioni, la questione finanziaria: un nuovo concilio costerebbe troppo. Ci si chiede allora se non dovrebbe darsi almeno la convocazione dei presidenti delle Conferenze episcopali – c’è chi, a ragione, mette in questione l’utilità del cardinalato -, per risolvere problemi urgenti: gli scandali in Vaticano, il celibato, il posto della donna nella Chiesa, la riforma di strutture ecclesiastiche, una maggiore decentralizzazione, un linguaggio nuovo per esprimere la fede, le nuove questioni poste dalla globalizzazione e dalle nuove tecnologie, sia nel campo della comunicazione sia nel campo della vita.