Ma la Chiesa sa fare i conti con le donne?

Marinella Perroni
l’Unità, 24-09-2012

In molti ormai si irritano a sentir parlare di donne. Accettano che ci siano donne in grado di
prendere la parola, basta però che non parlino di donne, perché la parola, come l’intelligenza,
non deve avere determinazioni di genere. Per questo ci si compiace se il direttore della Mostra del
cinema di Venezia insiste sul fatto che i sette film diretti da donne sono stati scelti perché belli, non
per l’appartenenza sessuale delle rispettive registe, e il disagio collettivo cresce tutte le volte che il
movimento Se non ora quando? propone, come condizione necessaria, anche se non sufficiente, per
rifondare la politica italiana, il criterio del «50 e 50».

Non è questo il luogo per prendere in esame le tante implicazioni della cultura di genere e,
soprattutto, per provare a capire i motivi dell’ostinato quanto diffuso rifiuto che ad essa oppone
l’opinione pubblica del nostro Paese, in primis la sua classe intellettuale di ogni ordine e grado.
Invece, quando si tratta di donne e Chiesa cattolica, la sensibilità si riaccende. Come se la Chiesa
cattolica rappresentasse l’unica enclave ideologica ostile alle donne. Come se l’inviata
dell’Onu che ha presentato il primo rapporto sul femminicidio e ha definito la situazione italiana
«grave e insostenibile» avesse in mente soltanto i parrocchiani cattolici Piaccia o no
ammetterlo, l’impedimentum sexus non determina soltanto l’interdizione dal sacerdozio cattolico,
ma si insinua in molti modi nel pieghe della vita civile del nostro Paese.

Cultura di genere nella chiesa

Quando, ormai quasi dieci anni fa, alcune teologhe italiane hanno dato vita al Coordinamento
teologhe italiane, spinte dall’esigenza di valorizzare e promuovere gli studi di genere in ambito
teologico, pensavano non soltanto al panorama ecclesiale, ma anche a quello culturale. La Chiesa
cattolica ha infatti un problema molto serio sulla questione della rappresentanza delle donne, ma
questo problema si declina in modi profondamente diversi a seconda dei Paesi in cui essa vive
come soggetto storico e culturale, oltre che come comunità religiosa. La questione delle donne è
questione italiana, non soltanto cattolica.

Nessuna di noi si illude: la categoria di genere è ambivalente e problematica. Impone però di fare i
conti con un dato di fatto ormai evidente: le donne ci sono e, quando acquisiscono gli strumenti
per diventare soggetti culturali, sportivi, economici, religiosi, politici, sindacali, sono
assolutamente capaci di entrare nella trama delle relazioni e delle competizioni pubbliche che
configura una società. Soprattutto, vogliono restare donne, ma non vogliono essere come
normalmente ci si aspetta che debbano essere. È vero, sulle passerelle della politica, dei media o
della società civile dominano ancora figure o figurine di donne prodotte da un immaginario
maschile, da dolce stil novo o da orgetta, poco importa: donne che siano come devono essere, non
che siano come sono.

Anche il linguaggio di ecclesiastici illuminati riflette ancora il recondito
desiderio che le donne si facciano, sì, sempre più presenti nella Chiesa come nella società, ma che
debbano essere quelle che loro si aspettano, sensibili e accoglienti, protagoniste, sì, ma con gli abiti
confezionati da una cultura patriarcale che è disposta a farsi femminilizzare (leggi: ammorbidire,
edulcorare), ma non è disposta a ridiscutere cosa sia il maschile e il femminile, cosa comporti, sul
duplice versante dell’interiorità e delle relazioni, la maschilità e la femminilità, cosa voglia dire
vivere in una società capace di declinarsi e di organizzarsi a partire dalla differenza di genere. E fa
amaramente sorridere che rifiutino il femminismo e la prospettiva di genere proprio quelli che
hanno organizzato il mondo a partire dal criterio dell’esclusione sulla base della differenza dei
sessi. Comprese, evidentemente, le chiese cristiane o le altre tradizioni religiose!

Emma Fattorini e Liliana Cavani hanno suggerito alla Chiesa cattolica di convocare un «sinodo sulle donne». Molte
di noi sperano fortemente, invece, che ciò non avvenga. Quando, cinquanta anni fa, Giovanni
XXIII convocò il Concilio Vaticano II sapeva molto bene a cosa andava incontro e lo desiderava ardentemente:
che i vescovi di tutto il mondo si confrontassero nella trasparenza e nella libertà,
perché fossero «le chiese» a ridisegnare il volto di una Chiesa cattolica capace di rispondere alla
chiamata di responsabilità che ad essa veniva dalla storia. La forza del Concilio è stata proprio
questa: vi hanno partecipato tutti i vescovi cattolici, con la chiara consapevolezza di dover dare
voce alle loro chiese, e vi hanno anche partecipato rappresentanti di un’ecumene cattolica già
esistente oltre che vagheggiata, per non dire che, per la prima volta nella storia, vi hanno preso
parte, sia pure tra mille limitazioni e vincoli, perfino alcune donne (23 su 2778 presenti!) che
erano figure di rilievo in diversi ambiti della vita della Chiesa.

Rileggere il Vaticano II

Al Vaticano II hanno collaborato, con i loro vescovi, 400 teologi in forza nelle diverse università
nazionali. Lo sforzo di mediazione che questo ha richiesto, a tutela della comunione ecclesiale, ha
dato la misura della vitalità delle chiese e, al contempo, della loro cattolicità reale, non formale.
Oggi, l’atteggiamento di partenza è molto diverso, nell’episcopato, nelle università teologiche,
nelle comunità ecclesiali. Perché oggi non si accetta più di partire dal criterio della realtà, percepita
e capita come interpellanza per spingere la fedeltà al vangelo lì dove la rivelazione di Dio nella
storia chiede, e la giusta distanza tra verità e realtà è diventata insanabile scissione: quali teologi e
soprattutto quali teologhe verrebbero chiamati a partecipare? Quale libertà di parola sentirebbero
di poter avere?

Dal 4 al 6 ottobre avrà luogo un convegno organizzato dal Coordinamento teologhe italiane dal
titolo «Teologhe rileggono il Vaticano II. Assumere una storia, preparare il futuro»
(www.teologhe.org). Vuole essere, evidentemente, un evento ecclesiale tra i tanti previsti per
celebrare i 50 anni dall’apertura del Vaticano II. Ma vuole anche lasciar emergere quanto e come, a
partire dal Concilio, la soggettualità delle donne è diventata una componente irrinunciabile della
vita ecclesiale. Una soggettualità di cui, come teologhe, siamo in grado di prenderci la
responsabilità. Domandandoci anche, però, se la Chiesa e la cultura italiane sono altrettanto in
grado di fare i conti con questa soggettualità che ci spinge ad essere ciò che siamo e non ciò che le
aspettative patriarcali pretendono da noi.