Benedetto XVI: «torniamo al vero spirito del concilio

Roberto Monteforte
l’Unità | 12.10.2012

«Nei deserti dell’uomo contemporaneo» vi è una domanda di spiritualità cui rispondere e un Dio da annunciare per dare speranza all’uomo contemporaneo, per aiutarlo a guardare al futuro e alla vita con umanità e giustizia. È questo il compito della Chiesa e dei cristiani. Così Benedetto XVI ha spiegato ieri l’apertura dell’Anno della Fede.

Celebrazione solenne ieri sul sagrato della basilica di san Pietro presieduta da Papa Ratzinger e concelebrata con Luigi Bettazzi, George Cottier e gli altri «padri conciliari», alla quale hanno partecipato anche il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I e il primate anglicano Rowan Williams. Una giornata di festa che si è conclusa in serata con il saluto di Benedetto XVI ai fedeli della diocesi di Roma e dell’Azione Cattolica che con le loro fiaccole si sono raccolti in piazza san Pietro.

Così come avvenne 50 anni fa, quando papa Rocalli improvvisò l’indimenticabile «discorso della luna». Parla a braccio. «Anch’io sono stato in questa piazza 50 anni fa quando il beato Giovanni XXIII ha parlato con indimenticabili parole del cuore». Racconta dell’entusiasmo di quei giorni, della «nuova primavera, della nuova Pentecoste con la grazia liberatrice del Vangelo» di cui si dicevano sicuri.

Ma vi è stata la delusione. «In questi 50 anni abbiamo imparato, esperito che il peccato originale esiste e si traduce sempre di nuovo in peccati personali che possono anche divenire strutture del peccato». Che è così anche nella Chiesa, dove «c’è sempre la zizania», perché «nella rete di Pietro ci sono anche pesci cattivi», vi è «la fragilità umana». «La nave della Chiesa – ammette – sta navigando anche con vento contrario e con tempeste che minacciano la nave e qualche volte abbiamo pensato che il Signore dorme e ci ha dimenticato». Ma – aggiunge «se Cristo vive ed è con noi anche oggi, possiamo essere felici perché la sua volontà non si spegne ed è forte anche oggi».

Conclude facendo sue le parole pronunciate da Giovanni XXIII nel «discorso della luna» la sera dell’11 ottobre 1962. «Andate a casa e date un bacio ai bambini e dite che è del Papa». Nell’omelia pronunciata la mattina aveva spiegato le ragioni della proclamazione dell’Anno della fede. «Ce n’è bisogno, ancor più che 50 anni fa!» E denuncia la «desertificazione» spirituale di questi decenni.

Pare pessimista. Ma invita a non rinunciare alla speranza. È in questa situazione – afferma – che va scoperta e annunciata «la gioia di credere».

Sono «innumerevoli i segni della sete di Dio e del senso ultimo della vita» presenti nella società contemporanea, anche se «spesso sono espressi in forma implicita o negativa». È nel deserto che c’è bisogno di persone di fede. Ma come darle fondamenta robuste? Il Papa invita a tornare agli insegnamenti del Vaticano II da riscoprire partendo dalla «base concreta e precisa» rappresentata dai suoi documenti. «Occorre ritornare alla “lettera” del Concilio, cioè ai suoi testi – ha affermato – per trovarne l’autentico spirito», la «vera eredità». È così che ci si mette al riparo «dagli estremi di nostalgie anacronistiche e di corse in avanti, e consente di cogliere la novità nella continuità». La battaglia ratzingeriana contro l’«ermeneutica della rottura», per affermare quella del «rinnovamento nel rispetto della tradizione».

Nel dialogo aperto con il mondo moderno, vi è stato spesso un «accoglimento senza discernimento della mentalità dominante «che ha messo in discussione le basi stesse del depositum fidei». È critico sul post Concilio. L’Anno della fede – annuncia – dovrà essere «un pellegrinaggio nei deserti del mondo contemporaneo» avendo il necessario: il Vangelo e la fede della Chiesa, di cui i documenti del Concilio sono «luminosa espressione » e il Catechismo della Chiesa Cattolica.

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Un papa «riduzionista

Luca Kocci
il manifesto | 12.10.2012

Non il «balzo in avanti» prospettato da Giovanni XXIII, il pontefice che aprì il Concilio Vaticano II l’11 ottobre 1962, ma una «novità nella continuità». Usa gli ossimori papa Ratzinger per ricordare, e nello stesso tempo riportare all’interno dei saldi binari della tradizione e del magistero cattolico romano, il Concilio, contro tutte le interpretazioni «progressiste» sorte negli anni del post Concilio. Non è una novità. Fin dall’inizio del suo pontificato – in un discorso alla curia romana il 22 dicembre 2005 – Ratzinger aveva esplicitato il suo pensiero sul Vaticano II: «Due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione; l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato e porta frutti». La prima è «l’ermeneutica della discontinuità e della rottura», la seconda è «l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità».

Ieri a piazza San Pietro, nell’anniversario dell’inizio del Concilio, durante l’omelia della messa per l’apertura dell’Anno della fede, Ratzinger ha ribadito gli elementi chiave della sua interpretazione che, se non è revisionista, è perlomeno riduzionista. Primo: limitarsi alla «lettera» del Concilio, ovvero ai documenti ufficiali prodotti da quell’assise – che, per quanto avanzati su molti aspetti, furono il risultato del necessario compromesso fra progressisti e conservatori, e quindi contengono anche elementi di segno molto diverso fra loro -, e abbandonare la nozione di «spirito» del Concilio, cara invece ai settori ecclesiali più progressisti, che proprio lì ravvisarono la volontà di aggiornamento e di rinnovamento della Chiesa, rimasta ancora ferma al Concilio Vaticano I di Pio IX. Anzi, precisa Ratzinger «l’autentico spirito» del Concilio si trova solo nella sua «lettera». «Il riferimento ai documenti – spiega il papa – mette al riparo dagli estremi di nostalgie anacronistiche e di corse in avanti, e consente di cogliere la novità nella continuità». Secondo: rifiutare qualsiasi interpretazione del Vaticano II come evento di «rottura», perché «il Concilio non ha escogitato nulla di nuovo come materia di fede, né ha voluto sostituire quanto è antico». Invece «negli anni seguenti – ed è implicito il riferimento sia alla Chiesa di base sia anche alla “scuola di Bologna” di Dossetti e degli storici Alberigo e Melloni, rei di aver redatto una storia del Concilio giudicata in Vaticano troppo progressista – molti hanno accolto senza discernimento la mentalità dominante, mettendo in discussione le basi stesse del depositum fidei, che purtroppo non sentivano più come proprie nella loro verità».

Per rendere ancora più chiara l’interpretazione del Concilio nell’ottica della continuità, la messa di ieri si è aperta con una grande processione in piazza San Pietro – come già all’apertura del Vaticano II -, in cui hanno sfilato non i padri conciliari di ieri, ma 400 cardinali, vescovi, patriarchi e presidenti delle Conferenze episcopali di oggi (fra cui una dozzina di «reduci» del Concilio, ora novantenni), portando all’altare i messaggi finali del Vaticano II e una copia del Catechismo della Chiesa cattolica voluto da papa Wojtyla nel 1997. Del resto, ha voluto precisare Ratzinger, «fra Paolo VI (il papa che chiuse il Concilio nel 1965, n.d.r.) e Giovanni Paolo II c’è stata una profonda e piena convergenza». Un’operazione non nuova, anche questa, della conciliazione degli opposti all’interno della Chiesa, già sperimentata nel 2000, quando Wojtyla decise di beatificare insieme nello stesso giorno Pio IX, il papa del Sillabo e del non expedit, e Giovanni XXIII, il pontefice della Pacem in Terris e dell’apertura al mondo moderno.