Quel concilio che ha cambiato «in modo irreversibile» la chiesa

Luca Kocci
Adista .n. 36/21012

“Valori non negoziabili” o mediazione, partito cattolico identitario oppure “sale” all’interno di forze politiche laiche, moderati o riformisti: sono formule in uso anche nel dibattito politico-culturale odierno che, se ricondotte nell’ambito biblico, possono essere riassunte dal binomio «Cristo re» o «Cristo maestro», che ha attraversato i testi del Concilio. E proprio la questione dell’«identità» e della «differenza cristiana», «nodo cruciale negli scontri o nelle incomprensioni dentro e fuori la Chiesa», ovvero «la tensione in merito all’atteggiamento nei confronti del mondo, non polarizza solo le interpretazioni del Concilio, ma è presente nei testi conciliari stessi» e arriva fino ad oggi, con ricadute nella teologia, nella pastorale, nell’ecclesiologia e nella politica. È la tesi di p. Giacomo Costa, direttore di Aggiornamenti sociali, il bimestrale dei gesuiti del Centro San Fedele di Milano, nell’editoriale del fascicolo di settembre-ottobre, che esce in occasione del cinquantesimo anniversario dell’inizio del Concilio Vaticano II e a poche settimane dalla morte del card. Carlo Maria Martini, gesuita pure lui.

L’editoriale di p. Costa è un “elogio” del Concilio, «punto di riferimento imprescindibile per capire e impostare i nodi cruciali della vita della Chiesa», la cui «forza dirompente (…) ha cambiato in modo irreversibile il mondo e il nostro modo di concepirlo, a dispetto di tanti dibattiti sulla sua recezione e sulla completezza della sua attuazione». E allora il Concilio va ripreso in mano «non per allontanarlo dallo sguardo o per inserirlo fra i cimeli del passato, ma per aprirne nuovamente i tesori con un diverso metodo, evitando letture parziali che lo trasformino, come peraltro già avviene, in un repertorio di possibili citazioni a sostegno di quanto ciascuno pensa della Chiesa».

Punto di partenza “rivoluzionario”, scrive p. Costa, è la nuova idea di «rivelazione di Dio agli uomini» che non è, «come ancora nel Vaticano I, un contenuto (delle verità da credere o dei precetti morali da compiere), ma un’esperienza, un evento di incontro, di relazione, di comunicazione, di scambio» in cui Dio «non ci rivela dei contenuti o delle verità», ma «se stesso come mistero assoluto», in Gesù Cristo. E, «a partire da questa comprensione della rivelazione come relazione di Dio con l’uomo, il Concilio reimposta il rapporto che la Chiesa intrattiene con gli “altri” e con il mondo». Non c’è dunque, prosegue il direttore di Aggiornamenti sociali, «una dottrina “fatta e finita” da esporre e applicare, né tali vogliono essere i decreti del Vaticano II: la pratica pastorale è una relazione viva e creativa con i destinatari del messaggio evangelico», per cui «la fedeltà non va cercata nella ripetizione meccanica di una dottrina», ma nell’esercizio della libertà di coscienza.

Un’impostazione, nota p. Costa, che «ha suscitato interpretazioni e reazioni contrastanti. Da una parte si è valorizzato il Concilio per il confronto libero e onesto con il mondo contemporaneo, a vantaggio della credibilità e della rilevanza della Chiesa. Dall’altra parte gli si è attribuito un “ingiustificato ottimismo” circa l’accoglienza della fede da parte dell’uomo moderno, un cedimento allo “spirito del mondo”, l’abbandono della vera tradizione, l’indebolimento del ruolo profetico della Chiesa. In una parola, lo si accusa di aver svalutato l’inalienabile “differenza” cristiana rispetto al mondo e, valorizzando il ruolo della coscienza, di aver ceduto sulla questione della verità». Da qui nascono gli irrigidimenti identitari dei nostri tempi: «È meglio un partito cristiano in cui la “differenza” può rendersi visibile, o partecipare con altri in partiti nei quali i cristiani si devono confrontare con altre visioni del mondo, rischiando di risultare invisibili se non inefficaci? Di fronte a proposte di legge su questioni etiche sensibili, è propria dei cristiani l’affermazione di valori non negoziabili o una mediazione che rischia sempre il compromesso?». E così facendo ci si dimentica proprio che il Concilio stesso «non ha preso una posizione monolitica». Del resto, aggiunge il gesuita, «la compresenza di posizioni diverse all’interno dei testi conciliari, che peraltro non è una novità nel magistero, è anzi salutare: è proprio della tradizione cattolica, non senza fatiche, permettere che diverse sensibilità si esprimano nel suo seno e non voler rinchiudere tutti in un’unica prospettiva teologica», proclamata «non negoziabile».

È la prospettiva del «Cristo re», in cui «si ritrovano tracce della visione di un cattolicesimo integrale». A cui p. Costa affianca, mostrando di preferirla, quella del «Cristo maestro», «che insegna ai discepoli come entrare in contatto con gli altri e annunciare la Buona Notizia», tradotta dal Concilio – nella Dignitatis humanae – con l’affermazione della «libertà religiosa legata alla libertà di coscienza».

E allora, conclude il direttore di Aggiornamenti sociali riprendendo la “lezione” del card. Martini, è «legittimo interrogarsi se l’intransigenza sui principi sia effettivamente fondata sul Vangelo o se non sia necessario ascoltare e interpretare teologicamente gli sviluppi della postmodernità e capire come fare valere altrimenti la differenza cristiana. Confrontarsi con la forma contemporanea di comprensione della libertà umana ha condotto e può ancora condurre a una reinterpretazione dell’identità cristiana e a una maniera diversa di concepire la presenza profetica, e quindi fedele alla tradizione, della Chiesa nella società. È una sfida troppo elevata