Caro fratello vescovo di Torino

Sevdjie Hamiti

Sono una giovane mamma Rom di 4 bambini, abito in un campo Rom di Pisa. Giorni ho avuto la sorpresa e la gioia di leggere la sua lettera indirizzata ai Rom e Sinti di Torino. Me l’ha fatta leggere un sacerdote che vive con noi e che voleva sapere il mio parere.

Io non leggo molto bene, ma le sue parole sono arrivate al mio cuore. Allora, ho sentito subito il bisogno di risponderti, soprattutto per ringraziarti, perché secondo me sei riuscito a capire la nostra vita, fatta di cose belle e brutte. Vorrei dire e raccontare tante cose che mi passano per la testa, e so che sono anche le stesse della mia gente.

Ricordo che anche il vescovo di Pisa due anni fa è venuto qui al nostro campo, è stato un bel momento di incontro e di ascolto reciproco. Ha anche benedetto i nostri tanti bambini e il mio terzo figlio, che in quel momento era l’ultimo nato del campo, partecipando ad un momento di preghiera mussulmana. Ha lasciato un bel ricordo tra noi Rom.

Quello che tu ci dici, lo sento vero soprattutto perché tu ti sei avvicinato a noi, e questo è molto bello per me. Quasi ogni giorno invece mi/ci capita di sentire giudizi forti su di noi, da gente che mai si è avvicinata alla mia vita. Oggi, c’è anche gente che ci avvicina, ma rimane molto distante dalla nostra vita. E’ anche importante il “come” ci si avvicina alla vita dei Rom. Perché gli Italiani non sentono il bisogno di conoscerci veramente e invece preferiscono nascondersi dietro una certa paura e sospetto? E’ vero, questo dipende anche da noi, ma credo che la diffidenza più grande viene proprio dagli Italiani. Quindi mi è piaciuta tanto la tua lettera, quando inviti tutti quanti a conoscersi meglio, vincendo diffidenze e sospetti.

Ti ringrazio, caro vescovo perché sento che la tua lettera è il frutto di un incontro. Quando c’è l’incontro le persone imparano a conoscersi meglio, attraverso la fiducia nell’altro. Non si può giudicare una persona senza prima conoscerla. Noi Rom sentiamo forte sulla nostra pelle questo giudizio della gente, che tante volte ci condanna senza aver commesso alcun peccato. L’altro giorno con i miei bambini siamo andati in un parco divertimento per bambini. Mi ero seduta ad un tavolo a guardare i miei bambini giocare, al tavolo accanto stavano dei giovani italiani, subito uno ad alta voce invita la sua ragazza a spostare la borsa perché era arrivata la zingara! Non ti dico le altre parole minacciose contro di noi. Ecco, lì mi sono sentita condannata senza aver nemmeno sfiorato l’idea di allungare la mano. Questo mi ha molto ferita dentro e ha rattristato quel momento di gioia che volevo vivere e dare ai miei figli.

E’ vero, non lo nascondo che non pochi Rom rubano..anche lei lo sa, ma questo non le ha impedito di conoscerci e stare in mezzo a noi per ascoltare la nostra vita e di invitarci a non “perdere la fiducia”.

Un’altra cosa che mi sembra importante, anche se un po’ difficile per me da spiegare. Credo che la gente (italiani) non può pensare di voler cambiare ad ogni costo il nostro essere Rom: le nostre tradizioni, l’importanza che diamo alla famiglia, ai nostri figli, il nostro modo di voler stare e vivere insieme, di volerci sposare giovani anche per avere tanti figli..che per noi Rom sono il nostro futuro e la nostra vera ricchezza. Ecco vorrei che chi ci frequenta impari ad accettare, comprendere e anche amare il nostro mondo, senza pretendere subito di cambiarlo, perché questo tocca a noi farlo. Noi spesso diciamo che se mi vuoi, accettaci come siamo: poveri, ricchi, sporchi, belli o brutti che sia: io sono quello che sono e se voglio cambiare tocca a me, a noi Rom, è importante rispettare i nostri tempi e i nostri modi.

Con queste parole, caro fratello vescovo ti Saluto e ti ringrazio ancora per quello che hai voluto dire con il cuore ai Rom e anche ai gagè: Hacio e Devlesa (Rimani con Dio)!

Una mamma Rom di Pisa, felice dei suoi 4 figli.

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Il «piccolo povero popolo» con cui vogliamo vivere insieme. Lettera di mons. Nosiglia su rom e sinti

Ingrid Colanicchia
Adista Notizie n. 40 del 10/11/2012

Di rom e sinti la cronaca e la politica sembrano ricordarsi solo quando fa “comodo”. Per questo è ancora più lodevole, e soprattutto fa notizia, l’iniziativa del vescovo di Torino, mons. Cesare Nosiglia, che ha interamente dedicato loro una Lettera pastorale presentata il 24 ottobre scorso presso il Seminario Metropolitano.

«“Avevo fame, avevo sete, ero nudo, ero malato, ero forestiero, ero in carcere…”. Forse nessuno come i rom e i sinti può assommare in sé tutte le povertà di cui parla il Vangelo di Matteo», scrive il vescovo. «Sento con angoscia paterna la sofferenza della casa che non avete, del lavoro che non c’è, della salute che manca, del disprezzo di cui a volte siete oggetto, dell’umiliazione di stare a mendicare senza ricevere aiuto. Vorrei dirvi: non scoraggiatevi!». «Sappiamo che è facile, quando manca tanto, credere di risolvere i problemi della vita con la violenza o con la delinquenza e l’illegalità, ma la dignità dei vostri popoli, voi la difendete con l’onore di una vita buona, fiduciosa, rispettosa di voi stessi e degli altri, capace di offrire il contributo della vostra umanità alla costruzione di una vita più bella per tutti». «Il nostro futuro è vivere insieme, come una grande famiglia», prosegue Nosiglia: «In una famiglia si vive insieme ma nessuno è uguale ad un altro. Chi di voi ha figli, sa che i suoi figli sono tutti diversi, però la famiglia è una e dove uno non arriva da solo, c’è un altro che lo aiuta. Così è la vita della nostra città di Torino e dei nostri paesi: possiamo vivere insieme, aiutarci, volerci bene».

Per farlo, però, prosegue mons. Nosiglia, sono necessarie «scelte di futuro per questo piccolo povero popolo». E allora l’invito alle istituzioni è quello di non dire che sono «tempi difficili per tutti e non ci sono risorse, perché se oggi tanti sono più poveri per la crisi, in un certo senso, i rom e i sinti sono in crisi da sempre, anzi, da prima»: «Capro espiatorio da secoli, fino allo sterminio nazista del secolo scorso, i rom e i sinti rivelano la disumanità di una convivenza, la nostra, che vuol dirsi civile, ma lascia nella miseria più nera e nell’emarginazione più amara i figli del popolo più giovane d’Europa». «Sento la vergogna – prosegue il vescovo – di campi più o meno autorizzati che sono al di sotto della soglia della vivibilità, in cui cresce la violenza e la delinquenza. Chi conserva la dignità della vita in situazioni così difficili mostra una grandezza umana straordinaria». «La vera equità – scrive ancora Nosiglia – si fonda sempre sul partire dall’ultimo» e, «se ci sono vittime in questa crisi, esse sono soprattutto i poveri e tra i poveri, sicuramente i rom e i sinti sono i più poveri: la loro ridotta aspettativa di vita in un Paese longevo come il nostro la dice lunga».

Ma l’invito di Nosiglia è rivolto a tutti: «Forse qualcuno potrebbe mettere a disposizione un piccolo alloggio, qualcun altro potrebbe offrire un lavoro part time, un altro potrebbe sostenere l’impegno scolastico dei più giovani». Una specie di adozione: «Se qualcuno facesse amicizia, fosse disponibile a superare l’imbarazzo dell’estraneità, il muro del pregiudizio; se qualcuno si facesse prossimo di questi poveri così vicini, ma così lontani dall’affetto fraterno delle nostre comunità cristiane… forse per tanti rom e sinti la vita potrebbe cambiare, forse tanti giovani potrebbero avere almeno un’opportunità nella vita, forse anche tutti noi saremmo arricchiti della presenza del Signore».

Contestualmente alla Lettera pastorale, è stato presentato anche il documento – dal titolo “Vogliamo vivere insieme” – elaborato da alcuni dei gruppi che a Torino sono impegnati con la comunità rom e sinti: un programma di lavoro concreto in cui coinvolgere istituzioni e forze sociali che ha i suoi cardini in proposte per l’abitare, l’istruzione, l’accompagnamento al lavoro, la salute, la cultura.

Per Nosiglia non si tratta di una prima volta. Già nel 2006, quando era alla guida della diocesi di Vicenza, dedicò a rom e sinti una sua Lettera pastorale richiamando le comunità al dovere della solidarietà e dell’accoglienza (v. Adista n. 87/06); e nell’agosto del 2010 condannò la reiterata scelta della Regione Veneto di non rifinanziare la legge 54 del 1989 sull’erogazione di fondi per la loro integrazione. Senza spazi abitativi, scrisse, «ogni progetto di inclusione sociale si banalizza e si vanifica».