Governo, IMUnità alla Chiesa?

Antonio Rei
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Sull’Imu alla Chiesa si apre l’ennesimo giallo. Secondo indiscrezioni raccolte dal quotidiano La Repubblica, la squadra dei professori avrebbe escogitato un nuovo trucco fiscale per favorire il Vaticano. L’obiettivo sarebbe di esentare gli enti no profit – fra cui quelli ecclesiastici – dal pagamento della nuova imposta sugli immobili ad uso “misto”, quelli adibiti in parte ad attività che generano profitto.

Per non pagare, questi enti dovrebbero solo cambiare entro dicembre il loro statuto, includendo almeno una delle seguenti norme: divieto di distribuire gli utili, obbligo di reinvestire il guadagno a scopi sociali, impegno a devolvere il patrimonio – in caso di scioglimento – ad un’altra struttura no profit con attività analoga. Insomma, una vera e propria definizione ad hoc di ciò che può essere escluso dalla scomoda categoria delle “attività commerciali”.

La smentita del Governo non si è fatta attendere: “In merito ad un articolo di stampa oggi pubblicato, che imputa al governo un ‘blitz alla Camera’ per alleggerire l’Imu a carico degli enti non commerciali – recita una nota di Palazzo Chigi -, si precisa che la ricostruzione dei fatti è del tutto errata e destituita di ogni fondamento. Non c’è stato infatti alcun arretramento rispetto a quanto più volte affermato da parte del governo”.

La precisazione è d’obbligo, ma non chiarisce del tutto la vicenda. Secondo la ricostruzione del quotidiano, cliniche e ospedali non pagheranno l’Imu se accreditate o convenzionate con gli enti pubblici e se le loro attività si svolgono “in maniera complementare o integrativa rispetto al servizio pubblico”, a titolo gratuito o dietro pagamento di rette “d’importo simbolico”. Questo sarebbe un altro bel tranello: a quanto ammonta un “importo simbolico”?

Sembra che il governo non lo specifichi, generando così un vuoto normativo che lascerebbe ampi spazi di manovra a chi non ha alcuna intenzione di pagare. Lo stesso espediente sarebbe valido anche per gli immobili in cui si praticano attività culturali, ricreative e sportive. Convitti e scuole, invece, sarebbero esentati in caso di attività paritaria rispetto alle istituzioni statali. Infine, non pagherebbero l’imposta sugli immobili le “strutture ricettive”, purché la ricettività sia “sociale”.

Il vero blitz di cui parla La Repubblica è però nascosto in tre righe inserite nel decreto Enti locali, un provvedimento già passato alla Camera e incentrato sui costi della politica, che con l’Imu non hanno nulla a che vedere. Una correzione con cui il governo amplia di fatto la delega che il Parlamento gli aveva attribuito per legiferare sull’imposta a carico degli enti no profit.

Su questo punto l’Esecutivo si esprime chiaramente: “La norma in questione, come può facilmente essere riscontrato – si legge ancora nella smentita – è contenuta nel comma 6 dell’articolo 9 del decreto sugli Enti locali, su cui domani (oggi, ndr) la Camera darà il voto finale, dopo aver votato la fiducia lo scorso 8 novembre. Si precisa pertanto che la disposizione, in linea con gli orientamenti più volte espressi dal governo e con le richieste dell’Unione europea, non è stata modificata in alcuna parte dall’esecutivo durante l’esame alla Camera. Il testo approvato coincide esattamente con quello già deliberato dal Consiglio dei ministri lo scorso 4 ottobre. Tale intervento si era reso necessario a seguito del primo parere del Consiglio di Stato, che individuava un possibile profilo di debolezza nell’assenza di una delega espressa per il regolamento governativo, che risponde in dettaglio e puntualmente ai criteri comunitari”.

L’ultimo passaggio appare un po’ meno cristallino. Lo scorso 4 ottobre i giudici amministrativi – il cui parere è obbligatorio ma non vincolante – si erano espressi negativamente sul primo regolamento prodotto dal ministero dell’Economia, in cui l’esecutivo spiegava in che modo gli enti no profit dovevano calcolare e dichiarare la porzione dei loro immobili destinata al business.

Ma il Consiglio non aveva eccepito solo la violazione dei limiti imposti dalla delega. Secondo i giudici, il Governo aveva “compiuto alcune scelte applicative” che esulavano “dall’oggetto del potere regolamentare attribuito” e che erano state “effettuate in assenza di criteri o altre indicazioni normative atte a specificare la natura non commerciale di un’attività”.

Il sospetto ora è che l’esecutivo abbia scelto di evitare il colpo di mano palese bypassando i termini della delega. Al di là degli aspetti tecnici, tuttavia, la filosofia di fondo rischia di non cambiare. Nel primo regolamento era infatti la vaghezza dei termini a determinare i possibili sconti sull’Imu alla Chiesa.

Sarebbe davvero una presa in giro dolorosa, che non lascerebbe più alcun dubbio sull’iniquità dell’austerity in salsa montiana. Proprio in questi giorni si mette a punto la legge di stabilità 2013, che per far quadrare i conti prevede una serie di misure dannose per l’economia reale: dall’aumento della terza aliquota Iva al taglio di alcune detrazioni e deduzioni. Di fronte alla necessità di battere cassa, con lo stesso provvedimento il governo non esita a sforbiciare ancora una volta i fondi destinati a scuola e sanità.

Negli ultimi giorni è stata messa in dubbio perfino la possibilità di garantire assistenza ai malati di Sla. Ma non basta. Dopo mesi di improvvisazioni dilettantistiche, solo ieri si è (forse) risolta la querelle sugli esodati: la copertura per chi rischia di trovarsi senza pensione né lavoro a causa della riforma Fornero sarà garantita dalla deindicizzazione delle pensioni più ricche.

In una situazione del genere, come si potrebbe giustificare il trattamento di riguardo riservato a un centro di potere come il Vaticano? Anche perché, se alla fine la Chiesa non pagasse il dovuto, l’economia italiana ne uscirebbe danneggiata. Almeno in due modi: non solo per il gettito che mancherebbe dalle casse pubbliche, ma anche perché l’ennesimo condono mascherato potrebbe convincere l’Europa a infliggerci una multa pesantissima. Bruxelles ci accusa di aver concesso aiuti di Stato illegali e punta a recuperare le somme non riscosse dal 2006 (quando ancora era in vigore la vecchia Ici). Se consideriamo gli incassi stimati dal governo (300-500 milioni l’anno), il danno potrebbe sfiorare i tre miliardi. Ma in fondo non c’è da preoccuparsi. Quando servono davvero, i soldi si trovano.