La crisi della Chiesa, il silenzio dei cattolici e la sinistra

Francesco Peloso
www.micromega.net

Il segno caratteristico del regno di Ratzinger è stato certamente quello della crisi. In questo periodo (ad aprile 2013 il pontificato compirà 8 anni) è cresciuto il divario fra il magistero e la contemporaneità, la modernità è stata definitivamente interpretata dalla Santa Sede e dai suoi fedeli esegeti secondo le categorie della secolarizzazione, del laicismo aggressivo, della riduzione alla sfera privata del fatto religioso. E’ emerso, in tutta la sua enormità e gravità, si può dire nella sua universalità, e per altro anche grazie all’azione del Papa, lo scandalo delle aggressioni sessuali ai minori, delle violenze contro bambini e adolescenti. E’ un tema, questo, esemplare di un processo di decadimento dell’istituzione che meriterebbe una trattazione separata; qui si accennerà solamente al fatto che la vicenda degli abusi ha fatto da innesco all’apertura di una crisi che ha cancellato la credibilità morale della Chiesa, ne ha indebolito i pretesi insegnamenti morali già largamente disattesi dal popolo dei fedeli, ha messo in discussione una visione clericale e sclerotizzata dell’amore fondata in modo univoco sulla procreazione. Tale impostazione ripetuta a dismisura burocraticamente in innumerevoli atti del magistero e di documenti delle chiese locali, puntava a eliminare artificialmente passione, sensualità, piacere, romanticismo. Il terrore della sessualità quale elemento di disordine che metteva in discussione il potere della gerarchia, ha prodotto, anche attraverso il celibato obbligatorio, una frattura interna allo stesso clero mostruosa per certi versi (l’orrore dell’abuso), drammatica per altri (le psicopatologie di sacerdoti, vescovi, seminaristi). Ma lo scandalo ha finito col mettere in luce anche il rifiuto di una parte dei vertici ecclesiali a dialogare con istituzioni, governi, comunità laiche; ha disegnato inoltre, una rete di compromissioni, collusioni, insabbiamenti ramificati e sorprendenti per la precisione, la costanza, l’autorevolezza delle personalità di Chiesa coinvolte. Ciò non toglie che, negli ultimi anni, diversi prelati si siano opposti a questo stato di cose.

I diritti umani e il ’68 nella dottrina Ratzinger

La risposta del Papa è stata in un primo momento coraggiosa, successivamente si è però rivelata parziale e incompleta. Da una parte infatti Benedetto XVI, nell’impostazione generale che ha dato al problema, ha chiamato in causa, a partire dal caso irlandese – dove sono emersi gli abusi nelle scuole cattoliche e nelle parrocchie denunciati in una serie di inchieste governative – le responsabilità dei sacerdoti; è il primo Papa che lo ha fatto con tanta forza: il peccato, il reato, commesso da un prete, dice Ratzinger, è più grave di quello realizzato da altri, tale è la sua vocazione a guidare il prossimo e tale è la fiducia che in lui tutti ripongono. Ma nella celebre lettera ai vescovi d’Irlanda sullo scandalo pedofilia (2010), il Papa, ancora una volta, darà buona parte della colpa di quanto accaduto al ’68, vera chiave di volta anche psicanalitica della sua biografia. La liberazione sessuale, il disfacimento dei costumi, la crisi del matrimonio, l’idea di una sessualità non più ancorata a regole etiche e morali, spiegherà egli stesso in diverse occasioni, ha travolto anche la Chiesa e quella che è stata chiamata emancipazione è solo una forma di consumismo selvaggio, di abbrutimento. In questa lettura, per altro un po’ grezza per quello che è considerato un grande intellettuale, la pornografia, il femminismo, la fine dell’oppressione sessuale e del maschilismo, sono la stessa cosa. Non c’è spazio, nel ragionare di Ratzinger, per un argomento usato da molti vescovi in questi anni, alcuni anche autorevoli, come per esempio l‘ex prefetto della Congregazione per la dottrina della fede William Levada nominato proprio da Benedetto XVI poco dopo la sua elezione.

Levada giustificherà le lentezze ecclesiali dicendo più o meno: molti casi risalgono a decenni or sono, sono cioè antichi, la presa di coscienza circa la tutela del bambino e dei ragazzi è stata lenta nella cultura contemporanea e quindi anche nella Chiesa. Gli abusi come è noto sono continuati fino ai giorni nostri, ma il punto interessante è un altro: nel corso del ‘900, e vorremmo dire a partire almeno dagli ultimi 250 anni, la progressione dei “diritti” è andata avanti di pari passo con il procedere della modernità. Dal dopoguerra in poi c’è stata un’ulteriore accelerazione attraverso le Nazioni Unite e le sue diverse agenzie; in questi decenni molte ‘categorie umane’ – le donne, i bambini, gli immigrati ma anche i detenuti – tanto per citare esempi classici, sono entrate a pieno titolo nelle carte dei diritti riconosciuti internazionalmente. Insomma o la modernità è causa della rottura di una tradizione che preservava i bambini – e i fatti, a migliaia, ci dicono che non è così – oppure è stato proprio il cambiamento dei costumi e della cultura a spalancare la porta sullo scandalo. Le vittime dicono spesso: ‘oggi ho il coraggio di denunciare’. La fine dei tabù sessuali e dell’oppressione silenziosa subita da ragazzi e ragazze, da bambini e bambine e dalle loro famiglie ha determinato la rottura di un sistema di potere violento e maschilista quasi per definizione.

L’assenza dei cattolici laici di fronte agli scandali del potere ecclesiale

Delle vicende finanziarie vaticane, degli scandali di potere, dei legami dei vescovi con la politica di centrodestra di questi anni, si è scritto molto e anche su Micromega, per questo non diremo molto. L’opzione preferenziale della Chiesa italiana, è stata per il potere berlusconiano; ora l’episcopato e il Vaticano, cercano una via di fuga nel ‘montismo’ quale scelta ‘super partes’ di rigore nei conti e salvezza nazionale per il bene comune che rompe con il passato rutilante e anticristiano (ipersecolarizzante nel senso del consumismo e della caduta di ogni riferimento etico) del patròn milanista. Eppure c’è da chiedersi se, anche sul piano politico, la Chiesa possa davvero voltare pagina senza compiere un’analisi approfondita su di sé e sul protagonismo pubblico di tanti vescovi e cardinali. Si pensi per esempio al caso di Eluana Englaro quando Cei e Vaticano arrivarono ad attaccare le più alte istituzioni, la magistratura e la presidenza della Repubblica, sottoponendo a tensione gli accordi concordatari, pur di ottenere ciò che volevano a tutti i costi.

Ma soprattutto, guardando all’atteggiamento del laicato cattolico del nostro Paese, c’è da chiedersi come sia possibile che quest’insieme di questioni e di temi, qui per altro appena accennati, venga rimosso dal dibattito culturale dei credenti impegnati. La definizione di cattolico ha a che fare quasi istintivamente con la Chiesa di Roma, con il papato, con il clero in tutte le sue varianti. E se è vero che recuperare la necessaria autonomia dei laici dalle gerarchie è passaggio fondamentale per il ritorno di un cattolicesimo politico impegnato, resta inevasa una questione: vale a dire in che termini i primi definiscano sé stessi in relazione al magistero di questi decenni. E’ un tema centrale. Tanto che in Germania, Austria, Stati Uniti e altrove sono stati proprio i laici cattolici ad aprire un dibattito anche aspro con la Chiesa-istituzione o a collaborare con quei teologi, vescovi e sacerdoti che hanno aperto una riflessione critica severa e di ampio respiro sul potere ecclesiale nelle sue varie forme. Ciò che non è accaduto e non sta accadendo in Italia.

Il quinquennio Bagnasco e l’unità d’Italia

E’ in tale quadro che nel 2007 il cardinale Angelo Bagnasco è stato chiamato dal Papa alla guida della Cei dopo il ventennio ruiniano. I suoi cinque anni di governo sono stati caratterizzati in un primo tempo in una lenta presa di distanza dal suo predecessore, quindi in un progressivo allontanamento dal berlusconismo; assai faticoso, per la verità, tanto nei fatti quanto nelle parole. Forse il punto più significativo dell’esperienza Bagnasco è stata la difesa dell’unità nazionale (fra l’altro svolta in concomitanza con le celebrazioni per i 150 dell’unificazione del Paese), questa sì compiuta senza indugi, provando anche a ricollocare la Chiesa nel discorso unitario risorgimentale, in modo forse un po’ artificioso, a partire da figura come quella di Antonio Rosmini. La polemica con il leghismo è stata in questo senso dura e precisa. Negli ultimi mesi la Cei ha scelto di seguire Monti, quasi a farsi trascinare da quest’ultimo il più lontano possibile dai Gasparri, dai Quagliariello, che pure per anni sono stati fra i punti di riferimento pubblici della Chiesa. Allo stesso tempo va rilevato come l’arcivescovo di Milano, il cardinale Angelo Scola, la cui appartenenza a Cl è nota, stia provando a ridisegnare il proprio percorso ecclesiale andando anche oltre l’esperienza ciellina e per questo è stato attaccato dai settori oltranzisti formigoniani che non gli perdonano l’allontanamento strumentale o meno che sia. E però, nella sostanza, lo stesso Scola si colloca in una linea fondamentalista – tradendo il tanto evocato meticciato di civiltà da lui stesso coniato – identificando nello Stato laico, come ha fatto durante il discorso di Sant’Ambrogio lo sorso 6 dicembre, il fautore dell’espulsione di Dio dalla vita pubblica in un processo di secolarizzazione che si realizza, addirittura, attraverso le leggi quando queste non sono in sintonia con l’etica della fede, cioè con l’etica vaticana tout-court. L’allineamento all’ultratradizionalista e reazionario episcopato americano anti-Obama è stato dunque netto (il capo della Casa Bianca veniva esplicitamente citato dall’arcivescovo di Milano); probabilmente Scola intende così candidarsi anche alla successione di Benedetto XVI, ma in ogni caso le sue parole la dicono lunga su come ragiona oggi la leadership della Chiesa in Italia.

I ministri cattolici e la scelta del centro

E proprio a Milano l’Azione cattolica ha compiuto una scelta abbastanza netta schierandosi con molti dei suoi esponenti, a fianco di Giuliano Pisapia già nella campagna elettorale per il Comune e poi nell’amministrazione. Una scelta che ora aprirà un conflitto inevitabile, e fino ad ora rinviato, con il cardinale di Milano. Resta però assente, nell’azione dei leader cattolici a livello nazionale, una discussione aperta su ciò che rappresenti oggi la dottrina sociale della Chiesa e se è davvero credibile ‘inchiodarla’ ai principi non negoziabili. Se, insomma, è accettabile, sul piano pubblico e dell’evangelizzazione, dire che la diffusione della contraccezione è un segno della fine del cristianesimo (ci sarebbe da sorridere se l’argomento non venisse trattato tanto seriamente). Per altro anche la durissimo critica al capitalismo finanziario e globalizzato di questi anni espressa in sottofondo da personalità come monsignor Mario Toso segretario del Pontificio consiglio giustizia e pace ( che propone un’autorità di controllo mondiale sui mercati, denuncia il ruolo speculativo della finanza come l’umiliazione e l’impoverimento del lavoro e dei lavoratori), non rientra nel linguaggio del cattolicesimo impegnato. Tuttavia alcuni ministri dell’esecutivo Monti, Andrea Riccardi in primo luogo, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ma si pensi anche al titolare della Sanità Renato Balduzzi, hanno di fatto espresso un’assunzione di responsabilità in prima persona di fronte alla crisi eccezionale in cui versava il Paese solo un anno fa. Più opaco e meno significativo, è apparso il ruolo del ministro per i Beni Culturali, Lorenzo Ornaghi, pure considerato espressione diretta della Conferenza episcopale. Resta il fatto che un pensiero cattolico compiuto sulla modernità italiana non si vede e le ambiguità permangono in troppi campi; probabilmente è questa una causa non secondaria della scarsa crescita di consenso della mitica area di centro. Temi come quelli della cittadinanza, della solidarietà sociale, del dialogo fra le culture, della riorganizzazione del welfare, non diventano l’asse trainante di un nuovo agire cattolico riformista, né si qualificano come elemento di rottura rispetto al conservatorismo della dominante destra ecclesiale.

Il Pd fra Pontefici cardinali e rottamatori

L’uscita parallela di Bersani-Vendola su un improbabile e rispettivo album politico di famiglia nel quale si sarebbero trovati Giovanni XXIII e il cardinale Carlo Maria Martini, è stato commentato a dovere e con precisione da Barbara Spinelli. Ma all’incertezza ideologica e politica dei due leader, sembra corrispondere anche una scarsa presa di coscienza dello stato delle cose. E’ proprio intorno alle due figure citate, il Papa buono e Martini, che nella Chiesa e nel mondo cattolico si è infatti consumata una battaglia tremenda nel corso degli ultimi 35-40 anni. Uno scontro che, in termini generali, ha visto i progressisti e i riformatori soccombere. Da qui uno degli elementi di crisi di un cattolicesimo sempre più e quasi unicamente ideologico-identitario.

Sembra allora che Bersani-Vendola abbiano provato a evocare, un po’ strumentalmente, un mondo perduto e rassicurante più che lanciare un appello alle frastagliate e sperdute truppe del cattolicesimo di base così lontane e in dissidenza rispetto alle istituzioni ecclesiali; tantomeno è ipotizzabile da parte dei due leader un riferimento al dissenso, questa volta più istituzionale, dei movimenti di teologi, sacerdoti e laici che agitano l’Europa; non sembra, cioè, che la sinistra abbia colto la dimensione globale, occidentale, del problema-Chiesa nel suo insieme.

In questo contesto è esploso il caso Matteo Renzi. In merito al fatto che la sconfitta di Renzi avesse ridimensionato il peso della componente popolare nel Pd, lo storico e politologo di area santegidina, Agostino Giovagnoli ha detto: “Io credo che questa componente si sia un po’ esaurita nella funzione che ha avuto negli anni passati. In un certo senso, è stato proprio Renzi a dare il colpo finale, perché Renzi rappresenta un tipo di proposta che definirei post-cattolica, in cui i richiami ai valori cattolici e ancor più alla tradizione popolare sono stati del tutto assenti. Quindi, questa componente deve rinnovare radicalmente il senso della propria presenza nel partito democratico”. Rosi Bindi, più semplicemente, ha parlato di Renzi come di un “secolarizzatore” (sottointendendo un émulo del Cavaliere) e quindi di un avversario del cattolicesimo. Tuttavia il sindaco di Firenze, al di là di una discreta dose di trasformismo insito nelle sue proposte, a suo modo si definiva cattolico; sollevava il tema della famiglia, era prudente ma non troppo sulle questioni etiche, parlava di scuola, di valori e via dicendo. Per questo ha raccolto fra l’altro il consenso di un’area cattolica – verificata da chi scrive nell’esperienza di un lavoro svolto sui temi della Chiesa e della politica italiana – che è decisamente antiberlusconiana ma non vuole essere inclusa e forse annullata nella sfera post-comunista o socialista moderata nella sua versione attuale. Accanto a questo gruppo si trovano poi dirigenti laici e librali come Paolo Gentiloni, esponenti di area prodiana o giovani dirigenti donne che danno invece per acquisite le conquiste del femminismo.

Una miscela che se da una parte è indice dell’ambiguità e fragilità della proposta renziana, dall’altra indica come, intorno a un’area di insofferenza diffusa per i ritardi della politica italiana e a una domanda forse generica, ma non per questo meno sentita, di rinnovamento e cambiamento, si coagulino culture e persone assai diverse. In tal senso il popolarismo come modello tradizionale sembra in effetti superato e appare l’ipotesi di una ‘rottamazione’ che, oltre i risultati delle primarie, chiama ormai in causa non solo i vecchi dirigenti dell’ex Pci, ma tocca anche la cultura democristiana sopravvissuta, compresa quella che si è distinta per vocazione democratica. Tuttavia sia l’iconografia immobile di un progressismo ecclesiale d’altri tempi, sia il cattolicesimo liquido renziano (per dirla n po’ ironicamente alla Bauman), sembrano insufficienti a risolvere il problema del rapporto fra credenti laici e impegno civile. Senza la ricostruzione di una scala di valori comuni, di idealità forti e condivise, e senza un confronto con i problemi del cattolicesimo contemporaneo e la messa in discussione dell’ideologia vaticana degli ultimi decenni, sarà infine difficile dare vita a un soggetto politico o a una coalizione che non si ritrovi sull’orlo di una crisi di nervi alla prima discussione parlamentare sui diritti degli omosessuali o sulle dichiarazioni anticipate di trattamento.