Scandalo MPS: un intrico di scatole cinesi. E vaticane?

Valerio Gigante
Adista n.6/2013

La vicenda Monte Paschi di Siena da giorni riempie le pagine dei giornali. Un po’ perché si tratta della banca più antica del mondo, essendo stata fondata nel 1462; un po’ perché si tratta del terzo istituto finanziario italiano, almeno per numero di filiali; un po’ perché è legata a doppio filo al Partito Democratico: dei 16 membri del comitato d’indirizzo della Fondazione che controlla la banca, infatti, 8 sono nominati dal Comune di Siena, 5 dalla Provincia, 1 dalla Regione Toscana, tutti enti locali governati dal Pd; 1 a testa, infine, dall’università e dalla Curia di Siena. Inoltre, lo scandalo è emerso proprio nei giorni in cui più intensa si è fatta la campagna elettorale. A tutto questo si è aggiunto, nei giorni scorsi, l’eco di un possibile coinvolgimento del Vaticano, chiamato in causa da un articolo comparso sul Corriere della Sera del 4 febbraio, a firma Paolo Mondani. Prima di tutto, però, occorre ricostruire per sommi capi la complessa trama di eventi che ha dato origine allo scandalo.

L’acquisto di Antonveneta

Tutto partirebbe dall’acquisizione della Banca Antonveneta, ceduta al Monte dei Paschi nel 2009 dal Banco Santander, che l’aveva a sua volta acquisita nel 2006 al prezzo di 6,6 miliardi. Solo 3 anni dopo l’istituto senese sborsa per l’acquisto 9,3 miliardi di euro (più oneri vari che hanno fatto salire il prezzo definitivo a 10,3 miliardi circa), senza contare i debiti che Antonveneta si portava dietro e che nell’operazione viene esclusa la controllata Interbanca poi ceduta a Ge Capital. E già su questa operazione indaga la magistratura per aggiotaggio, truffa, ostacolo agli organismi di vigilanza (l’aggiotaggio, art. 501 del Codice Penale, è il «rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato o nelle borse di commercio»). L’ipotesi è che sulla vendita gravi una “mazzetta”. Il pagamento, tra l’altro, fu diviso su due conti correnti. Circa 7 miliardi versati direttamente a Madrid, altri 2 su un conto di una banca londinese. E secondo gli inquirenti i soldi potrebbero essere passati dall’Inghilterra per arrivare in Brasile. E forse rientrare, in parte in Italia, attraverso lo scudo fiscale.
In ogni caso, l’operazione dell’acquisto dell’Antonveneta creò una grossa esposizione finanziaria al Monte dei Paschi. Per fronteggiarla, il CdA della banca diede il via libera a diverse operazioni di “finanza creativa”, per evitare di far comparire i passivi nel bilancio. Del resto, gli azionisti premono per avere bilanci in attivo, per ottenere i dividendi. Lo stesso i manager, per mantenere alti i propri stipendi e i “bonus” di produttività. La soluzione, allora, sarebbe stata quella di “aggiustare” il bilancio per farlo sembrare migliore di quanto in realtà non fosse.

La toppa peggio del buco

Per far ciò, Mps si sarebbe anzitutto servita di una operazione speculativa denominata “Alexandria”, effettuata tramite la banca tedesca Dresdner Bank, già alla fine del 2005. A quell’epoca, l’istituto senese acquistò obbligazioni (cioè titoli di debito, in inglese bond) per 400 milioni di euro da un società-veicolo (si chiamano così le istituzioni finanziarie cui le banche o le imprese scaricano i propri titoli a rischio, recuperando immediatamente i soldi investiti) di Dresdner Bank che si chiama appunto Alexandria (a sua volta legata ad un’altra società di Dresdner Bank con sede alle Cayman, la Skylark), che emise bond collegati ad una serie di mutui ipotecari e altri Cdo (obbligazioni strutturate, cioè pacchetti con all’interno diversi tipi di debiti, definiti spesso anche titoli “salsiccia” per la loro eterogeneità, unita all’alto livello di rischio). In due anni Mps realizzò una perdita di ben 220 milioni, poiché il valore dei bond Alexandria scese fino a 180 milioni.
Nel 2009, dopo l’acquisizione di Antonveneta, Siena si rivolge allora al gruppo giapponese Nomura, mettendo in atto un’altra acrobazia finanziaria. Vendette ai giapponesi i bond Alexandria (a valore nominale e non di mercato, quindi a 400 milioni, accollando quindi ai Nomura la perdita dei 200 milioni) e in cambio comprò 3 miliardi di BTp trentennali. I soldi per l’operazione, che Mps non aveva, la banca senese se li fece prestare dalla stessa Nomura attraverso un contratto che tecnicamente si definisce “pronti contro termine” e che viene realizzato sugli stessi BTp. In questa fattispecie, il venditore (generalmente una banca) cede un certo numero di titoli (i BTp, appunto) a un acquirente, impegnandosi a riacquistarli dallo stesso acquirente a un certo prezzo (in genere più alto) e ad una data fissata. Mps cedette quindi a Nomura i titoli di Stato appena acquistati, impegnandosi a ricomprarli successivamente a un prezzo più elevato, con asset swap da fisso a variabile. Vale a dire: le due controparti si impegnavano a scambiarsi pagamenti periodici di interessi calcolati sui BTp. Nomura pagava il tasso variabile e riceveva quello fisso. Per converso, Mps riceveva il tasso variabile e pagava il fisso. Visto che i tassi sul mercato monetario in quel periodo stavano crollando, a guadagnarci, e molto, fu Nomura, che si assicurò un cospicuo introito sulla speculazione sui titoli di Stato, a fronte di una perdita contenuta sui titoli Alexandria; Mps da parte sua riuscì però almeno ad occultare le perdite di bilancio, “spalmandole” su 30 esercizi, pur essendo costretta a pagare un differenziale d’interesse elevatissimo sui BTp, che potrebbe arrivare ad un totale di quasi un miliardo di euro. E soprattutto, secondo la magistratura, non avrebbe comunicato i termini dell’operazione a Bankitalia e Consob.

Lascia o raddoppia?

Quella di Alexandria non è però l’unica operazione speculativa ed altamente rischiosa fatta dal Monte dei Paschi di Siena. Al vaglio della magistratura ce n’è almeno un’altra. Mps, con molti titoli di Stato in “pancia” e penalizzato dalla crisi finanziaria, proprio mentre era impegnato col finanziamento dell’acquisto di Antonveneta, chiese l’intervento di Deutsche Bank per tamponare una perdita di 367 milioni di euro della banca su un contratto derivato precedente, chiuso sempre con il colosso tedesco. All’epoca (2002) Mps possedeva una quota (3%) di titoli Intesa Sanpaolo. La banca tedesca aveva scommesso su un loro ribasso, Mps era invece la controparte che scommetteva al rialzo. La crisi del 2008 dimezzò il valore di Intesa (in modo analogo a quanto accaduto con “Alexandria”), e così Mps, un po’ come quel giocatore d’azzardo che, dopo aver perso una partita, “raddoppia” la posta in quella successiva, la banca senese, non avendo intenzione di iscrivere l’ulteriore perdita di 367 milioni a bilancio, stipulò a fine 2008 con Deutsche Bank un nuovo contratto, il “Progetto Santorini”: l’istituto tedesco prestò alla banca senese 1,5 miliardi di euro in dieci anni, utilizzati per chiudere il precedente contratto, con relativo accollo della perdita da 367 milioni. Siena vendeva loro contestualmente l’equivalente in BTp decennali, assumendo sulle proprie spalle la garanzia che i titoli di Stato non si sarebbero deprezzati (emettendo in termine tecnico, dei cds, credit default swap, ossia l’impegno a proteggere la controparte dal rischio che un credito perda di valore o diventi inesigibile, a fronte del versamento di un importo periodico, quasi come in una polizza assicurativa: in questo caso un totale di 1,5 miliardi di euro). Ma il valore dei titoli di Stato italiani si è di molto deprezzato. E la scommessa sul valore dei BTp avrebbe prodotto perdite disastrose. Il contratto avrebbe infatti generato perdite per 87 milioni di euro nel 2008, nel 2008 per 62 milioni. A quel punto il contratto è stato chiuso in perdita, anche perché la sua liquidazione, nel 2009, è costata ulteriori 224,4 milioni di euro.

Il ruolo del Vaticano

In questa intricatissima vicenda avrebbe svolto un ruolo anche lo Ior, la banca vaticana. Secondo la ricostruzione fatta da un testimone anonimo che lavora in Vaticano a Paolo Mondani del Corriere della Sera, allo Ior si sarebbero svolte «importanti e delicate riunioni per la costruzione dell’operazione Antonveneta» tra il direttore dello Ior Paolo Cipriani, mons. Piero Pioppo, prelato dello Ior (una carica che non ha funzioni operative dirette, ma che per statuto ha accesso a tutti i documenti bancari) e Andrea Orcel, un «banchiere di area cattolica che nel 2007 seguiva banca Santander nella scalata ad Abn Amro e subito dopo venne nominato advisor di Montepaschi nella conquista di Antonveneta». Il testimone racconta: «Ho visto molto perché per quell’operazione furono aperti almeno quattro conti intestati a quattro organizzazioni religiose che coprono cinque personaggi che hanno avuto un ruolo chiave nella costruzione dell’acquisto di Antonveneta». I conti dello Ior si sarebbero appoggiati ad una banca italiana, quella «del Fucino, sede di via Tomacelli a Roma». Uno dei quattro conti, il 779245000141, aperto il 27 ottobre 2008, «segnala il deposito di 100 mila euro in contanti avvenuto il 21 novembre 2009». In seguito, su quel conto «arrivano 1,2 milioni di euro in tre tranche da 400 mila l’una che successivamente vengono interamente prelevati». Soldi che sarebbero serviti a pagare «le persone utilizzate nel 2007 per organizzare la seconda vendita di Antonveneta».
L’ipotesi è che almeno una tranche dei proventi della compravendita di Antonveneta sia transitata nello Ior tramite 4 conti correnti per poi finire poi su un conto della Banca del Fucino (la stessa, peraltro, in cui furono trovati una parte dei 23 milioni di euro dello Ior sequestrati dalla Procura di Roma nel 2010), intestato allo stesso istituto vaticano, ma che ormai risulterebbe chiuso. La Procura di Roma potrebbe quindi avviare accertamenti sui conti correnti dello Ior per capire se vi sia stato riciclaggio.
Una parte della presunta “tangente” pagata da Mps per acquisire Antonveneta ad un prezzo fuori mercato sarebbe quindi transitata per il Vaticano. Un modello analogo a quanto avvenne nel 1993, ai tempi della maxitangente Enimont, e che è descritto nelle carte pubblicate nel celebre libro di Gianluigi Nuzzi Vaticano Spa. Da parte sua, però. Il Vaticano, per bocca del direttore della Sala Stampa p. Federico Lombardi, ha escluso risolutamente che «dirigenti del Montepaschi abbiano avuto possesso di fondi presso lo Ior», così come aveva già smentito l’eventualità che presso lo Ior si fossero tenute riunioni sull’operazione Antonveneta-Mps.
Il tema del rapporto tra Vaticano e finanza, anche a partire dal caso Antonveneta, sarà al centro di un convegno promosso da diverse realtà ecclesiali di base (tra esse anche Adista) che si svolge a Roma, il 16 febbraio, nei pressi della Stazione Ostiense. Tra i relatori anche il gironalista Ferruccio Pinotti, autori di numerossi libri di inchiesta sul rapporto tra Ior, Opus Dei, Cl, Vaticano e mondo politico finanziario (maggiori informazioni su www.adista.it)