L’infanzia di Gesù secondo Joseph Ratzinger

p. Ortensio da Spinetoli
Adista documenti n. 7/2013

Non ho ritenuto opportuno procurarmi subito l’ultimo libro dell’attuale pontefice su Gesù di Nazareth perché immaginavo che non sarebbe stato dissimile da quelli che l’hanno preceduto. Il primo (della serie) me l’aveva lasciato con distacco un sacerdote diocesano, lamentando che “non ci aveva capito nulla”. Per quest’ultimo mi sono rivolto a un amico, che sul momento non l’aveva perché “ancora alle prese con il secondo”, ma che poi in serata è venuto a portarmelo.

1. Mi è sembrato subito evidente che si trattava di considerazioni omiletiche (di prediche, mettiamo buone) che tutti i pastori d’anime di solito fanno ai loro fedeli in occasione del Natale, ricordando che Gesù è venuto a nascere in una grotta al freddo e al gelo, onorato dall’ossequio dei mandriani del luogo, dalla vicinanza dei genitori, dalla compagnia di qualche giumento.

In tutti i modi non è certo uno “studio”, come ci si sarebbe aspettato da un ex-professore universitario. Si può parlare piuttosto di una trattazione apologetica, non però del protagonista dei testi in questione, bensì dell’insegnamento ufficiale della Chiesa a suo riguardo e dei libri (vangeli) che parlano di lui.

Non è fuori posto vedervi come un’appendice alla dichiarazione Dominus Jesus dell’allora (era l’anno 2000) prefetto della Congregazione della fede, dove si affermava che solo la Chiesa cattolica ha tutta la verità su Gesù Cristo e la piena, quasi esclusiva, autorità di annunziare e spiegare il vangelo (n.ri 5-6.16,17,22). Quanto proponeva da “tutore della fede” ora lo ripete – sottinteso lo impone, visto il rilievo dato al suo nome d’ufficio – da supremo pastore, anche se diplomaticamente assicura che è «una ricerca personale» e non un atto del suo «magistero» (vol. I, p. 20).

2. Innanzitutto appaiono poco convincenti i criteri ermeneutici ai quali sembra essersi affidato. Altrove (Vol. I pag. 19) dice di conoscere la portata della «interpretazione storico-critica», ma ritiene di doverla integrare, in realtà sostituire, con quella che chiama «propriamente teologica». In questo volume dedica tre pagine a «la proprietà letteraria dei testi» e si ferma a disquisire su «la storia interpretata» e «la parola di Dio, interpretativa» (pp. 23-27) per concludere che la seconda garantisce la verità della prima, non accorgendosi del circolo vizioso sottostante, cioè che la storicità degli eventi evangelici possa essere garantita dall’autorità (divina) della parola che li racconta.

3. Si sa, almeno si dice, che i papi si fanno scrivere le loro lettere encicliche dai migliori accademici degli atenei pontifici romani o d’Europa. Verosimilmente papa Ratzinger, che è uno studioso di professione, non si è rivolto a nessuno di essi, ma sembra anche, visto il tenore delle sue opere, che non abbia tenuto a informarsi troppo su quanto negli ultimi decenni si è scritto sul tema che prendeva a trattare.

L’esegesi “indipendente” che la Chiesa, forse per non sentirsi obbligata ad adottarne gli onerosi postulati, chiama “razionalistica” (di fatto è solo logica, perché chiede di valutare i dati storici o letterari in base alla possibilità di dimostrare la loro autenticità e portata), da due secoli avanza riserve sul carattere (genere) storico dei vangeli, a cominciare da quelli dell’infanzia, ossia degli “anni oscuri” della vita di Gesù, e da circa un cinquantennio anche gli studiosi cattolici non hanno saputo o potuto sottrarsi a tale tendenza o tentazione.

I primi saggi di questo rinnovamento interno all’istituzione sono degli anni ’50 (Munoz-Iglesias, Laurentin, 1957) e subito se n’ebbe un’ampia divulgazione in tutta la Chiesa, persino in Italia, ovverosia nelle vicinanze vaticane, tramite “un agile volumetto” (“Introduzione ai vangeli dell’infanzia”, 1967) che andò in mano a chierici e laici di ogni condizione.

Ma il rinnovamento biblico, nonostante la Dei Verbum, non riuscirà a prender piede perché nella Chiesa si era già affermato un clima di “restaurazione” che bloccava ogni spiraglio e qualsiasi anelito di libera ricerca. Gli esegeti cattolici o si fermarono a metà strada o fecero marcia indietro, compresi gli stessi pionieri del nuovo corso. Sono appunto quelli citati nella Bibliografia posta in fondo al libro (pp. 149-153) che sorprende per la sua esiguità, vista la colluvie di pubblicazioni che in continuazione escono sul tema – (v. l’Elenchus bibliographicus della rivista Biblica).

4. Verosimilmente il pontefice, con questi scritti, vista la reclame con cui li ha fatti partire e accompagnare, ha voluto mettere un punto fermo (il suo) sulla “questione cristologica” che, dopo tanti secoli (dalla formula, ossia dal compromesso, di Calcedonia, 451) di quieto vivere, ha registrato le prime fibrillazioni e da qualche decennio è addirittura sotto accusa, cioè soggetta a ripensamenti da parte di molti teologi. Ma se tale punto fermo aveva lo scopo di voler chiudere con autorevolezza la questione, non sarebbe stato opportuno presentare opere biblicamente più serie e soprattutto più condivise, cioè avendo tenuto conto dei risultati di analoghe ricerche già presenti nella Chiesa?

5. Ma checché ne pensi, ne dica, ne scriva Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, i vangeli dell’infanzia sono capolavori di letteratura devozionale, cioè né storia né novellistica, bensì composizioni edificanti che tramite inquadrature immaginarie mirano a illustrare la persona di Gesù partendo non dalle fonti storiche, ma dalle previsioni degli antichi profeti.

Questi, infatti, avevano annunziato a Israele, quasi a compensarlo delle tribolazioni che aveva incontrato nel suo cammino (schiavitù egiziana, esilio, continua dominazione straniera), la venuta di un protagonista sullo stampo, se non di Mosè, di uno dei discendenti di David, che avrebbe portato il popolo di Dio al successo e alla gloria.

Ma ciò non era avvenuto, infatti Israele attende ancora il messia. I primi cristiani allora, quasi tutti di provenienza giudaica, invece di cadere nello smarrimento o nella depressione, hanno cominciato a “pensare” che le promesse profetiche antiche si fossero realizzate nel loro maestro, il quale per questo si poteva considerare il vero inviato di Dio al popolo di Abramo e alle genti, il Cristo di Dio.

Ai loro occhi Gesù acquistava una nuova fisionomia e una diversa collocazione: non è più sullo stesso piano di tutti gli altri, ma si trova elevato su un piedistallo, una colonna, un trono, un altare, fino alla destra dell’Altissimo. Una delineatura che si ritrova in tutti gli autori del Nuovo Testamento, compresi i vangeli dell’infanzia.

6. In Mt 1-2 Gesù è il primo e l’ultimo dei grandi dinasti che hanno dominato la storia d’Israele, il “figlio di David”, il nato dall’almah, “giovane donna” che i LXX (la Bibbia dei LXX è una versione greca dell’Antico Testamento fatta da esperti traduttori ebrei ed iniziata ad Alessandria d’Egitto circa 250 anni prima di Cristo, ndr) traducono con parthenos e gli evangelisti con “madre” trovatasi “incinta per opera di Spirito santo”; egli è il “re dei giudei” tutelato da protagonisti angelici, mentre nell’alto del cielo il suo astro guida alla sua dimora i “saggi dell’Oriente” che vengono ad ossequiarlo e a offrirgli i loro simbolici doni.

“Tutte fantasie”, si può affermare, perché sono notizie, supposizioni che non sono confermate dal resto dei vangeli: egli non si è trovato mai dalla parte dei grandi e dei potenti e, se ovviamente può essere stato tentato da pensieri di vanagloria o sia stato sollecitato da ammiratori o amici a prendere posti di comando, non si è mai fatto convincere da tali suggestioni (Mt 4,1-11; Gv 6,15).

7. L’affermazione “concepito per opera di Spirito santo”, intesa tradizionalmente come notizia di cronaca ospedaliera, genetica o ginecologica, potrebbe essere una semplice forma di linguaggio figurato antico quanto l’uomo. Fa parte di un’abitudine comune il dire una cosa per intenderne un’altra, come quando di un uomo forte si afferma che è un leone o di una donna bella che è una stella. Allo stesso modo, di un individuo che appare in sintonia, in speciale comunione, con la divinità si sottolinea tale intimità, familiarità, affermando metaforicamente che è nato dal suo stesso Spirito, è generato da lui, è suo figlio, non perché abbia la sua fisionomia, i suoi lineamenti, ma perché ha i modi di agire del padre, i connotati di benevolenza e di amore che caratterizzano l’agire di Dio (Mt 5,48; Lc 6,30).

8. Ma del tutto singolare, straordinario o strano è il tentativo di Lc 1-2 di recuperare l’onorabilità di Gesù, che appariva contraddetta dagli umili natali e dalla sua fine ingloriosa, elevandolo liberamente verso il mondo e le istituzioni sacre. L’autore del terzo vangelo, che secondo gli ultimi studi non sembra essere un ellenista convertito bensì un giudeo-cristiano di Gerusalemme, è ancora affezionato al vecchio culto e, non rassegnandosi a vederne la fine, ha creduto o immaginato di poterne vedere la continuazione e conclusione nella persona e nel movimento di Gesù. Per raggiungere questo intento, “scopre”, cioè ipotizza (inventa) una sua parentela, tramite la madre, con una famiglia sacerdotale, quella di Zaccaria, della classe di Abdia ed Elisabetta, delle “figlie di Aronne”.

Il loro figlio (Giovanni) diventa il suo precursore e Gesù, già da neonato, anche se galileo, è presentato al Signore nel tempio di Gerusalemme, dove incontra due esponenti del vecchio regime (Simeone ed Anna) che l’accolgono con esultanza e dove, dodicenne, tornerà a farsi vedere raccogliendo il plauso dei dottori della legge che sembrano pronti a cedergli il posto!

Se prima si poteva parlare di “fantasie”, qui la parola giusta può essere solo “fandonie”, anche se è irriverente usarla vista la buona fede e la venerazione con cui l’autore ordisce il suo presunto panegirico al Cristo. Certo non è arrivato all’eccesso raggiunto nella Lettera agli ebrei (anch’essa probabilmente opera di Luca), dove Gesù, nella veste di sommo sacerdote che in verità doveva stargli più che stretta, è passato tra gli eredi di quelli che hanno a tutti i costi voluto la sua morte. Tutto si poteva dire, ma mai che Gesù fosse stato apparentato o allineato con persone sempre schierate contro di lui e il suo insegnamento.

CONCLUSIONE

I vangeli dell’infanzia hanno collegato un theologoumenon (artificio ideologico) dopo l’altro per “onorare” Gesù Cristo: la parentela con la dinastia davidica, la susseguente regalità che viene celebrata tuttora, il passaggio dalla classe operaia a quella sacerdotale e dalla condizione umana a quella divina. Il pontefice, se non con la sua competenza almeno con la sua autorità, avrebbe potuto provarsi a smontare presepi allestiti in una fase superata della storia cristiana; ha preferito invece lasciarli al loro posto tra luci oscillanti e drappeggi iridescenti, non curandosi di raccogliere il messaggio centrale che essi, nonostante tutte le loro ingenuità, pur segnalavano.

Mt 1-2, con tutta la sua propensione verso la Chiesa dei grandi (i magi), non ha dimenticato quella dei martiri che sono sempre persone innocenti, che i carnefici si chiamino Erode o Caifa. E Luca, che ha fatto mostra di tanta ingegnosità, non ha dimenticato la “Chiesa dei poveri”, chiamando alla culla di Cristo gli esclusi dal consorzio umano, i pastori di allora; non viene detto esplicitamente, ma potrebbe averveli portati per rendergli omaggio, anche se Gesù nei vangeli non ha raccomandato mai l’adulazione. Forse è più verosimile, anche se può essere solo sottinteso, che siano venuti per ringraziarlo di averli preferiti agli altri, o almeno di averli messi al loro pari.

La Chiesa ufficiale si trova a suo agio con i piccoli in festa davanti al presepio, più che con gli adulti che provano ad interrogarsi sull’identità della sua esperienza e del suo messaggio. La sicurezza del proprio posto di governo, ossia di comando, sembra valere per lei di più del rinnovamento esegetico o teologico, per cui è meglio che i cristiani rimangano infanti più che diventare grandi, capaci di riflettere, di ragionare secondo le loro capacità e le loro vedute, in una parola secondo la propria coscienza, l’unico valore che secondo il vangelo “non è mai negoziabile”.