Una sorpresa, non una novità

Luca Kocci
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Fumata bianca. L’arcivescovo di Buenos Aires, il gesuita Jorge Mario Bergoglio, è il 266mo papa della Chiesa cattolica romana. L’annuncio è stato dato ieri sera dalla loggia delle benedizioni della basilica di San Pietro dal protodiacono, il cardinale Jean-Louis Pierre Tauran, con il tradizionale Habemus papam, seguito dal nome in latino di Bergoglio, che ha scelto per sé il nome di Francesco.

Un’elezione che ha rovesciato le previsioni della vigilia – che davano un testa a testa fra l’arcivescovo di Milano, Angelo Scola, e quello di San Paolo, il brasiliano Odilo Pedro Scherer –, anche se il cardinale argentino, soprattutto negli ultimi giorni, aveva fatto la comparsa in alcune liste di papabili. E un’elezione densa di novità: il primo gesuita che diventa pontefice e il primo papa americano, anzi latinoamericano. «Il dovere del conclave era dare un vescovo a Roma: sembra che i miei fratelli cardinali sono andati a prenderlo quasi alla fine del mondo», ha detto Bergoglio dal balcone di San Pietro, appena eletto. Ed è il primo pontefice ad assumere il nome di Francesco. Un appellativo da molti ritenuto “scomodo”, per il riferimento a Francesco d’Assisi e per l’evidente valore programmatico: il papa che deciderà di chiamarsi Francesco vorrà riprendere il mano la profezia, mai attuata, del Concilio Vaticano II della “Chiesa povera e dei poveri”.

Si vedrà presto se Bergoglio procederà su questa strada o se la sua è stata solo una scelta popolare e mediatica, subito applaudita dai fedeli che erano in piazza. «Cominciamo questo cammino della Chiesa di Roma, vescovo e popolo insieme, di fratellanza, amore, fiducia tra noi. Preghiamo l’uno per l’altro, per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza», ha detto ancora, prima di benedire la folla, di chiedere la benedizione per sé e di ritirarsi nel palazzo apostolico. Parole semplici, da cui emergono due elementi: non si definisce «papa» ma «vescovo di Roma» – e così fa anche per Ratzinger, ricordandolo – e ripete il termine «fratellanza». Segnali che potrebbero essere il preludio ad un ridimensionamento del centralismo papale e ad un ampliamento della collegialità episcopale. Lo si capirà meglio dai primi atti del nuovo pontefice.

Ad uscire vincitore dal conclave è comunque il partito dei “pastori”, quello dei cardinali vescovi di diocesi, critici verso la curia romana e fautori di una riforma del governo centrale ma anche di una maggiore collegialità e trasparenza nella Chiesa. Gli sconfitti sono i curiali del partito “romano”, Bertone e Sodano su tutti. Bergoglio è stato eletto ieri pomeriggio, al quinto scrutinio – il primo sì è svolto martedì sera, ieri ce ne sono stati quattro, due al mattino e due al pomeriggio, fra cui quello decisivo –, uno in più di Ratzinger, che venne scelto al quarto scrutinio, con 84 voti. È assai probabile – dettagli e indiscrezioni su come sono realmente andate le cose nel conclave si sapranno, forse, nelle prossime settimane, quando qualche cardinale racconterà in forma anonima gli esiti delle votazioni – che si sia verificata una situazione di stallo fra i primi due, Scola e Scherer, e che per uscire dall’impasse sia venuto fuori il nome di Bergoglio. Che è una sorpresa ma non una novità, perché già nel conclave del 2005, quello che elesse Ratzinger, era in lizza, sempre in quota riformatori: al secondo e terzo scrutinio, infatti, incassò prima 35 e poi 40 voti (ottenendo anche quelli che al primo scrutinio erano andati a Martini), mentre Ratzinger viaggiava sui 70-72. A quel punto, visto che al tedesco mancavano 5 voti per raggiungere il quorum, Bergoglio preferì fare un passo indietro, spianando la strada a Benedetto XVI.

Nato a Buenos Aires il 17 dicembre 1936, Bergoglio (che è di origine italiana: i genitori emigrarono in Argentina dall’astigiano) è un tecnico chimico ma sceglie presto di entrare nella Compagnia di Gesù, i gesuiti, e viene ordinato prete nel 1969. Lavora sempre all’interno della Compagnia – come insegnante, formatore, provinciale dell’Argentina –, fino a quando nel 1992 Giovanni Paolo II lo nomina vescovo ausiliare di Buenos Aires, di cui diventa arcivescovo nel 1998. È cardinale dal 2001 e dal 2005 al 2011 è stato anche presidente della Conferenza episcopale argentina. Viene considerato un riformatore dal punto di vista ecclesiale, ma un conservatore sotto l’aspetto dottrinale: nel 2011, per esempio, contesta duramente la legge argentina sulle unioni omosessuali, definendola frutto della «invidia del demonio» che «vuole distruggere il piano di Dio».

È attento alle questioni sociali, ma non per questo vicino alla teologia della liberazione, che anzi ha più volte criticato. E con un passato non del tutto trasparente: alcuni, fra cui diversi preti argentini di base, lo accusano di silenzi ed omissioni nei confronti del regime militare della dittatura argentina, tra il 1976 e il 1983. A questo proposito, il giornalista argentino Horacio Verbitsky, che più volte ha analizzato il ruolo delle gerarchie ecclesiastiche nel periodo della dittatura, anche grazie a documenti riservati, rivela che quando Bergoglio era provinciale dei gesuiti per l’Argentina (dal 1973 al 1979) isolò alcuni gesuiti particolarmente vicini alla teologia della liberazione e impegnati nei movimenti che si opponevano alla dittatura, consegnandoli di fatto ai militari. Un passato che ora inevitabilmente tornerà alla luce.