Quello scontro infinito fra laicismo e clericalismo

Salvatore Rizza
Adista Segni nuovi n. 11/2013

Il clericalismo e il laicismo hanno una storia che viene da lontano e non godono di buona fama.

La Chiesa e lo Stato si contendono il potere fin dai tempi antichi. Tolta la parentesi della laicità di Cristo del «date a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che di Cesare» e della Lettera a Diogneto – nella quale si decideva quale fosse il campo dei cristiani senza invadere il campo degli altri –, trono e altare hanno attraversato una perenne contesa.

Tutto è iniziato nel IV secolo, dopo le donazioni alla Chiesa di Costantino e di Teodosio, e da lì ha preso il via la continua lotta fra laicismo e clericalismo, con alterne vicende: ora la vittoria della Chiesa, ora quella dello Stato, i due poteri che si contendevano l’esercizio della potestà sulla società invadendo l’uno il campo dell’altro e lasciando in mezzo la società a stare dall’una o dall’altra parte. Nel Medioevo è stato predominante il dominio della Chiesa che ha creato e consolidato le sue strutture.

Poi è arrivato il tempo in cui si è affermato il primato dell’essere umano e la sua autonomia dal potere ecclesiastico: con Cartesio, Locke, Hobbes ed altri sono emersi quei diritti, soprattutto la libertà, che avrebbero fatto della persona il “centro della Terra”. Poi è iniziata l’epoca delle guerre di religione, fino alla Pace di Westfalia (1648), quando sembrava che con la divisione dei poteri fosse iniziata un’era di pace.

L’avvento dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese ha sconvolto l’ordine delle cose e decretato la fine di ogni forma di autorità, compresa quella della Chiesa. La laïcité francese sembrava dominare la situazione. Ma durò poco: ciascuno Stato realizzò, a modo suo, una forma di laicità che sopravvive fino ad oggi. Da allora si parla di società civile come terzo, o primo, soggetto nei confronti dello Stato e della Chiesa. Essi, lo Stato e la Chiesa, sono finalizzati alla società, nel senso che l’uno deve attendere al bene comune e l’altra deve perseguire la salvezza eterna: il campo dell’uno e dell’altra sono separati e non è consentito di superare i reciproci confini.

Ma la storia del laicismo e del clericalismo continua anche oggi, quando assistiamo ad un confronto dagli esiti incerti. Habermas ritiene che il discorso religioso debba tradursi nei termini della ragione pubblica e che solo a queste condizioni possa avere quello spazio che garantisce l’emergere di quei valori che, insieme a quelli non religiosi, assicurano la civile convivenza. Taylor, per parte sua, ritiene che i valori religiosi debbano essere proclamati senza bisogno di una traduzione e vadano confrontati con quelli non religiosi.

Che la religione non possa essere esclusa, né debba esserlo, dalla sfera pubblica: la fede e le credenze sono parte sia del linguaggio religiosamente connotato che di quello non religioso. Habermas e Taylor si muovono su uno sfondo in parte comune: il primo punta su una società civile nell’ambito della quale, assumendo un linguaggio neutrale, possono confrontarsi; l’altro pensa che sia la religione sia i gruppi non religiosi sarebbero in tal modo snaturati.

Nelle nostre società liberali e democratiche, la separazione tra sfera religiosa e sfera civile sembra attenuarsi, perché non hanno saputo trovare ascolto né le esigenze dell’una né quelle dell’altra. All’interno della diatriba tra religiosi e non-religiosi, si lascia che i due gruppi si ignorino o si sbranino: i laicisti, così chiamati per distinguerli dai credenti, pretendono l’esclusione del discorso religioso dalla discussione pubblica; i religiosi invece ne esigono il riconoscimento.

Il clericalismo sembra imperversare all’interno della Chiesa stessa e nei confronti dello Stato. Si assiste ad una presenza invasiva da parte di vescovi e preti nelle cose che riguardano lo Stato e la sua amministrazione; e ad una presenza di laici che, a nome e per conto dei chierici, prendono le parti dei vescovi e dei preti. La laicità ci appare la soluzione che potrebbe mettere finalmente pace fra le due fazioni: in una società veramente democratica avrebbero ugualmente cittadinanza.

*Università Roma Tre