Per un nuovo modo di essere cristiani. Il mistero della Chiesa alla luce del pluralismo religioso

Claudia Fanti
Adista Documenti, n. 14 del 13/04/2013

È una delle grandi sfide a cui la teologia mondiale è chiamata a dare urgentemente risposta, un imperativo etico e una priorità irrinunciabile nell’elaborazione di un’agenda di lavoro per una teologia planetaria liberatrice: ma il tema del pluralismo religioso è, di sicuro, anche un campo minato per un teologo, come hanno sperimentato tutti coloro – da p. Tissa Balasuriya al belga p. Jacques Dupuis, dal gesuita statunitense p. Roger Haight al galiziano Andrés Torres Queiruga – che in vario modo sono impegnati su questioni relative all’unicità salvifica di Cristo, alla funzione della Chiesa nel piano di salvezza, al valore salvifico delle altre religioni.

Non è sfuggito al vigile occhio dell’ex Sant’Uffizio, nel 2005, e della Commissione dottrinale della Conferenza episcopale statunitense, nel 2007, neppure il teologo p. Peter Phan, vietnamita emigrato negli Usa nel 1975 e attualmente docente alla Georgetown University a Washington, dove ricopre la cattedra intitolata a Ignacio Ellacuría di Dottrina sociale cattolica (v. Adista n. 89/07).

Invitato a partecipare, dal 2 al 5 ottobre scorso, al XIII Simposio Internazionale dell’Instituto Humanitas Unisinos (l’Università gesuita del Vale do Rio dos Sinos, a São Leopoldo, nel Rio Grande do Sul; www.ihu.unisinos.br), sul tema “Chiesa, cultura e società: la semantica del Mistero della Chiesa nel contesto delle nuove grammatiche della civiltà tecnoscientifica”, il teologo si è soffermato sull’impatto che il pluralismo religioso esercita «sul modo in cui comprendiamo e viviamo il mistero della Chiesa attualmente», evidenziando come un autentico rispetto per l’alterità di tutte le religioni passi per il riconoscimento del fatto che «religioni diverse propongono scopi diversi e che ogni religione è presumibilmente il “migliore” cammino per raggiungere l’obiettivo che si propone», senza dunque presupporre «che questi scopi siano semplicemente versioni diverse della stessa cosa, cioè della salvezza ad opera di Dio in Cristo e del potere dello Spirito Santo».

E proprio alla luce della diversità e del pluralismo delle religioni, Phan pone l’accento sulla necessità di un’ecclesiologia il cui nucleo «sia “rivolto al di fuori” e “centrato nell’altro”, in un dialogo umile con altre tradizioni religiose», richiamandosi in ciò alle esperienze e agli insegnamenti della Chiesa cattolica asiatica. Per concludere, in perfetta sintonia, su questo punto, con un altro teologo statunitense, Paul Knitter (v. Adista n. 98/11), che «essere religiosi, oggi, significa necessariamente essere inter-religiosi».

Di seguito, in una nostra traduzione dal portoghese, ampi stralci dell’intervento del teologo di origine vietnamita, pubblicato sul numero 75 dei Quaderni di Teologia Pubblica dell’Instituto Humanitas Unisinos.

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L’ECCLESIOLOGIA NELLA PROSPETTIVA INTERRELIGIOSA

Peter C. Phan

Sono stato invitato a riflettere sull’eventuale impatto del pluralismo religioso sul modo in cui comprendiamo e viviamo il mistero della Chiesa attualmente e, in caso positivo, su come ciò avvenga. Formulandolo nei termini della nostra conferenza (“Chiesa, cultura e società: la semantica del mistero della Chiesa nel contesto delle nuove grammatiche della civiltà tecnoscientifica”), la diversità religiosa è un segno, o parola, o morfema, o significante della nostra “linguistica” teologica sulla Chiesa. La prima parte di questa linguistica è la semantica, il compito è sviluppare il significato e le sfide della diversità religiosa per la Chiesa. Qui il fenomeno sociale della diversità religiosa diventa pluralismo religioso, una ideologia che mette in discussione la rivendicazione cristiana di Gesù Cristo come salvatore vero, unico e universale dell’umanità e della Chiesa come sacramento unico, universale e necessario della salvezza. Così, il pluralismo religioso costituisce un problema teologico, forse il problema attualmente più controverso per la teologia cristiana. La nostra domanda successiva è se tale semantica del pluralismo religioso esiga una nuova grammatica e una nuova sintassi teologica, con un nuovo insieme di princìpi e processi che regolino la nostra costruzione di un’ecclesiologia appropriata alla nostra epoca di diversità e pluralismo religioso. Infine, giacché la teologia ha a che vedere con la fede e la sua prassi, dobbiamo analizzare se questa nuova semantica, grammatica e sintassi ecclesiologica implichi una nuova pragmatica, cioè un nuovo modo di essere Chiesa nel mondo. (…).

La semantica del pluralismo religioso contemporaneo

Il fatto che il cristianesimo abbia sempre vissuto in mezzo alla diversità religiosa è un’ovvietà storica. Ai suoi primordi, il cristianesimo era in profondo e costante contatto con altre religioni, particolarmente l’ebraismo (…), le religioni misteriche egizie e greco-romane, il culto dell’imperatore e la religione domestica della Roma imperiale, il zoroastrismo della Persia, i culti della fertilità di Canaan e della Fenicia, ecc. Inizialmente, questo incontro interreligioso fu amichevole e benefico; di fatto, molti furono gli apporti ricevuti dal cristianesimo dalle religioni rivali, specialmente dall’ebraismo, al momento dello sviluppo della sua liturgia, della sua teologia e delle sue strutture organizzative. Ma in breve, quando il cristianesimo iniziò a definirsi in contrapposizione ad altre religioni, e soprattutto dopo aver acquisito lo status dell’unica religione lecita dell’Impero Romano, il suo atteggiamento tanto teologico quanto pratico nei confronti delle altre religioni si trasformò in pungente polemica e in condanna (…). Con la proscrizione del culto pagano da parte dell’imperatore Teodosio (379-395) e il fatto che gli ebrei continuassero ad essere una minoranza, il cristianesimo non ebbe un concorrente serio fino all’ascesa dell’islam nel VII secolo. Per quanto le relazioni tra le cosiddette “religioni abramitiche” o “popoli del libro” fossero, molte volte, segnate dalla violenza e dall’odio (…), si sono registrati casi significativi di tolleranza religiosa e di convivenza, per esempio nell’Iberia dei mori, dall’inizio dell’VIII secolo fino alla conclusione della riconquista cristiana alla fine del XV secolo, o la pratica del millet dell’Impero ottomano, che permetteva a ogni gruppo religioso minoritario (dhimmi) di governare i propri membri in accordo al proprio sistema giuridico. (…).

Teologia della salvezza esclusivista

Tuttavia, dal punto di vista teologico la questione è ben diversa. A dispetto dei tentativi di comprensione empatica di religioni non cristiane, specialmente dell’islam, come quelli di Niccolò Cusano (1401-1464), il quale ammetteva la possibilità di una religio in varietate rituum [una religione nella varietà di riti] (De pace fidei e Cribatio Alchorani), l’atteggiamento predominante della Chiesa cattolica nei confronti delle religioni non cristiane fino al Vaticano II (1962-1965) era completamente negativo, quando non di esplicita condanna.
Il suo esclusivismo è espresso nel modo più vigoroso nel Decreto per i Giacobiti del Concilio di Firenze (1442), in cui la massima extra ecclesiam nulla salus [fuori dalla Chiesa non c’è salvezza], di Fulgenzio di Ruspe (476-533), viene applicata non solo agli scismatici e agli eretici, ma anche ai “pagani”, compresi i musulmani e gli ebrei e, dopo il XVI secolo, ai seguaci delle religioni non cristiane dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa, che, come veniva detto, erano tutti destinati all’inferno. Tuttavia, alla luce della volontà di Dio di salvare tutte le persone, della presenza universale della grazia e del principio che Dio non nega la grazia alle persone che fanno ciò che è loro possibile (facienti quod in se est Deus non denegat gratiam) e che il potere di Dio non è vincolato ai sacramenti (Deus suam potentiam sacramentis non alligavit), a partire dal Medioevo si sono delineate varie teorie per spiegare come i “pagani” potessero salvarsi anche a prescindere dalla fede esplicita in Cristo e senza battesimo, come quelle, per esempio, del battesimo di desiderio e dell’ignoranza invincibile. Tra i missionari, l’atteggiamento è stato, con poche eccezioni, di ostilità nei confronti della diversità religiosa. Anche coloro che avevano simpatia per le religioni indigene, in maggioranza gesuiti, come Alessandro Valignano (1539-1606), Matteo Ricci (1552-1610), Roberto de Nobili (1577-1656) e Alexandre de Rhodes (1591-1660) in Asia, si attenevano, malgrado i loro lodevoli sforzi in relazione a quella che oggi si definisce inculturazione, alla convinzione che le religioni non cristiane fossero corrotte da superstizioni e immoralità e la Chiesa fosse l’unica arca della salvezza.

L’atteggiamento inclusivista del vaticano II

In generale si riconosce che il Concilio Vaticano II ha segnato un’evoluzione – alcuni direbbero una rivoluzione – significativa nell’atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti delle religioni non cristiane e della teologia della salvezza ad essa legata. È di importanza vitale distinguere tra l’insegnamento del Concilio in relazione ai non cristiani come individui e l’insegnamento sulle religioni non cristiane come istituzioni collettive.
In relazione ai non cristiani, che il Concilio definisce come «quelli che non hanno ancora ricevuto il Vangelo», il Vaticano II afferma, prima di tutto, che essi «in vari modi sono ordinati [ordinantur] al popolo di Dio». Il Concilio passa ad elencare cinque gruppi di non cristiani, apparentemente in ordine decrescente rispetto alla relazione con la Chiesa: ebrei, musulmani, coloro «che cercano il Dio ignoto nelle ombre e sotto le immagini», quelli che «cercano sinceramente Dio» e «coloro che non sono ancora arrivati alla chiara cognizione e riconoscimento di Dio». Il Concilio riafferma la possibilità di salvezza per tutti questi non cristiani, per quanto sempre attraverso la grazia di Cristo e in qualche tipo di relazione con la Chiesa, e con varie condizioni (per esempio, quella dell’“ignoranza invincibile” e quella di vivere una buona vita morale secondo la propria coscienza).
Si osservi come il fondamentale paragrafo 16 della Lumen Gentium si concentri sui non cristiani come individui, per quanto, nel farlo, è chiaro che si riferisca, pur se indirettamente, alle loro religioni, specialmente in relazione ad ebrei e musulmani. Rispetto alle religioni non cristiane come tali, Lumen Gentium dice semplicemente che, attraverso le attività missionarie della Chiesa, «quanto di buono si trova seminato nel cuore e nella mente degli uomini o nei riti e culture proprie dei popoli», non solo non va perduto, ma è «purificato, elevato e perfezionato a gloria di Dio, confusione del demonio e felicità dell’uomo».
L’insegnamento più pieno del Vaticano II sulle religioni non cristiane in quanto religioni si trova nella Dichiarazione sulla relazione della Chiesa con le Religioni non cristiane (Nostra Aetate). Il Concilio (…) dichiara che la Chiesa cattolica «nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini». Oltre al rispetto sincero, il Vaticano II esorta i cattolici «affinché, con prudenza e carità, per mezzo del dialogo e della collaborazione con i seguaci delle altre religioni, sempre rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali che si trovano in essi».
In termini di teologia delle religioni, la posizione del Vaticano II rappresenta quello che viene definito come paradigma inclusivista, il cui principale rappresentante è Karl Rahner (con la sua teoria dei “cristiani anonimi”), in contrapposizione ai paradigmi esclusivista e pluralista, il primo adottato dalla stessa Chiesa cattolica per quasi due millenni prima del Vaticano II, e il secondo portato avanti dal teologo presbiteriano John Hick. Attualmente il paradigma inclusivista sembra favorito dal magistero romano, in quanto riafferma l’universalità di Cristo come salvatore e la necessità della Chiesa come sacramento di salvezza, nello stesso momento in cui riconosce la presenza di «elementi di verità e di grazia» in altre religioni ed evita la tendenza relativista del paradigma pluralista.

La sfida post-moderna del pluralismo religioso

Non c’è dubbio che, dopo secoli di esclusivismo teologico e persino di violenza contro gli adepti di altre religioni (specialmente contro ebrei e musulmani), l’atteggiamento del Vaticano II nei confronti delle religioni non cristiane e, conseguentemente, della diversità religiosa, rappresentato particolarmente in Nostra Aetate, ha segnato un enorme passo avanti. Oltre a ciò, diversi documenti post-conciliari (…) reiterano esplicitamente la possibilità della salvezza dei non cristiani come individui e procedono anche nel tentativo di riconoscere la presenza dello Spirito Santo in religioni non cristiane, mostrandosi di conseguenza favorevoli alla riaffermazione del loro ruolo positivo nella storia della salvezza. (…).
Riguardo alle tre teologie delle religioni su esposte, tutte condividono, a dispetto delle loro ovvie differenze, tre presupposti di base relativi alla religione: 1) tutte le religioni mirano alla Realtà trascendente ultima chiamata Dio; 2) lo scopo della religione è la salvezza; e 3) deve esserci un mediatore (per esempio una persona, un libro o una comunità) tra la Realtà ultima e noi. In verità, non c’è molta differenza tra esclusivismo e inclusivismo, perché quest’ultimo ritiene comunque che vi sia solo una religione vera e che gli “elementi di verità e di grazia” presenti nelle altre religioni siano in qualche modo – misteriosamente – derivati da questa unica religione vera. D’altro lato, il paradigma pluralista non è realmente pluralista, giacché presuppone questo concetto – essenzialmente occidentale – di religione e lo impone ad altre religioni. È chiaro che questi presupposti non si applicano a tutte le religioni. Alcune non sono teiste; altre non cercano una salvezza trascendente; altre ancora non sostengono la necessità di un mediatore o di una mediazione divini o di altro tipo. (…).
Oltre a ciò, in tutti e tre i paradigmi, una religione particolare usa i propri criteri di validità e di verità come modelli per valutare la validità e la verità di altre religioni. (…). Così, il Vaticano II non ha considerato e riaffermato (…) pienamente il valore positivo delle religioni non cristiane in sé e per sé, piuttosto che nella loro relazione putativa con Cristo e con la Chiesa e nella loro derivazione da questi. La ragione essenziale di questa incapacità è che tutti questi documenti giudicano le religioni non cristiane a partire dalle prospettive teologiche di Cristo e del cristianesimo e, più precisamente, dall’alto delle proprie rivendicazioni dell’universalità, singolarità, superiorità e normatività di Cristo e della Chiesa.
Per rispettare genuinamente l’alterità di tutte le religioni, sarebbe più esatto dire che religioni diverse propongono scopi diversi e che ogni religione è presumibilmente il “migliore” cammino per raggiungere l’obiettivo che si propone. Invece di parlare di “salvezza” in termini astratti e come scopo ultimo di tutte le religioni, dobbiamo esaminare gli scopi concreti proposti da ciascuna di esse e vedere come sono compiuti. Non possiamo presupporre che questi scopi siano semplicemente versioni diverse della stessa cosa, cioè della salvezza ad opera di Dio in Cristo e del potere dello Spirito Santo. Un esame attento di questi scopi diversi potrà rivelare differenze genuine, alcune irriconciliabili, così come profonde somiglianze, paralleli e forse persino identità tra di esse. Tutti questi scopi possono apparire come singolari e potranno essere, o essere stati, rivendicati come tali, o come superiori a tutti, o come universali dai propri seguaci (i cristiani hanno fatto certamente questo). (…).

Sintassi per il pluralismo religioso: una nuova ecclesiologia

La teologia della Chiesa recente ha evidenziato, molte volte, come l’ecclesiologia della comunione sia uno dei grandi contributi del Vaticano II, specialmente nella Lumen Gentium e nella Gaudium et Spes. Per quanto ciò sia vero, è necessario riconoscere che l’ecclesiologia della comunione (…) è stata riscattata principalmente nel contesto della relazione gerarchica tra la “Chiesa universale” e le “Chiese locali” (…) e della struttura sacramentale, specialmente eucaristica, della Chiesa.
Non si deve, è chiaro, negare la validità di questo approccio, ma è vitale che, nell’ecclesiologia della comunione, la Chiesa sia intesa essenzialmente come il segno della realizzazione, nella storia umana, della comunione eterna nella Trinità e come lo strumento di questa realizzazione. (…). La questione pratica, insomma, è come la Chiesa possa essere effetivamente un sacramento efficace e credibile del Dio trinitario in un luogo e in un tempo specifico.
Ovviamente, la risposta a tale domanda (…) deve essere elaborata costantemente alla luce dei segni dei tempi. La diversità e il pluralismo delle religioni rappresentano uno di questi segni. Per far fronte a tali sfide, l’ecclesiologia della comunione del Concilio Vaticano II, per quanto ricca e progressista possa essere, è a mio giudizio troppo limitata e rivolta al proprio interno, persino autoreferenziale, per mostrarsi all’altezza del compito. Quello che attualmente si rende necessario è una grammatica e una sintassi teologiche il cui centro sia “rivolto al di fuori” e “centrato nell’altro”, in un dialogo umile con altre tradizioni religiose.
Per elaborare tale ecclesiologia, ricorrerò alle esperienze e agli insegnamenti della Chiesa cattolica asiatica, considerando che l’Asia è probabilmente il continente in cui la diversità religiosa è presente in misura maggiore.

Chiesa regnocentrica

Una delle caratteristiche curiose dei documenti del magistero e dei testi teologici asiatici sulla Chiesa è l’assenza costante di questioni chiesastiche. Questa mancanza di interesse per gli aspetti istituzionali della Chiesa (…) deriva da ciò che potrebbe essere definita “kenosis ecclesiologica”, un passaggio da una Chiesa ad intra a una Chiesa ad extra, dall’autopreservazione e autoespansione alla missione e al servizio del mondo. Tale dislocamento si basa sulla convinzione teologica che nel cuore della fede e della prassi cristiane non si incontrano la Chiesa e tutti i suoi elementi istituzionali e giuridici, ma il Regno del Dio uno e trino. È solo dando testimonianza del regno di Dio e ponendosi al suo servizio tra tutti i popoli dell’Asia che la Chiesa diventerà veramente asiatica, non aumentando il numero dei suoi membri né ampliando la propria influenza sociopolitica, . (…).
La teologia asiatica recente ha insistito con forza su questa “kenosis ecclesiologica”. Tale conversione dall’“io ecclesiale” all’“altro religioso” si è svolta nell’arco di trent’anni, dalla fondazione della Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche (FABC) nel 1970 all’Assemblea speciale del Sinodo dei vescovi per l’Asia (o “Sinodo Asiatico”), tenutasi a Roma dal 19 aprile al 4 maggio del 1998. (…). Come il sole attorno al quale girano la Terra e gli altri pianeti, il regno di Dio è il centro attorno al quale tutto gira nella Chiesa e al quale tutto è subordinato. (…). Ora, tutto quello che la Chiesa è e tutto quello che essa fa sono definiti dal Regno di Dio e non viceversa. L’unica ragione dell’esistenza della Chiesa è servire il regno di Dio, cioè aiutare a produrre ciò che è stato comunemente designato come “valori del Regno”. Sono questi valori che la Chiesa deve promuovere e non la propria autoesaltazione, reputazione o sopravvivenza istituzionale. Ogni legge e ogni politica della Chiesa deve passare per il test decisivo che verifica se esse promuovono o meno il regno di Dio. (…). La Chiesa non è fine a se stessa; la sua ragione d’essere è servire il Regno di Dio (….); è, senza giri di parole, un mezzo per un fine.

Liberazione, inculturazione e dialogo inter-religioso

Una Chiesa regnocentrica è, per sua natura, una Chiesa missionaria, impegnata nella promozione dei valori del Regno predicato da Gesù. Ma di che valori si tratta? O, più precisamente, cosa rappresenta il regno di Dio? Per quanto Gesù usasse con frequenza il simbolo del regno di Dio, non ne ha dato una definizione chiara. Il significato del regno di Dio e i valori che egli proclama sono impliciti nelle parabole, nei miracoli di Gesù e, al di sopra di tutto, nel suo ministero, nella sua morte e nella sua resurrezione. In fin dei conti, il Regno di Dio è venuto in e con Gesù, che è, egli stesso, l’autobasileia tou theou (Regno di Dio). Insomma, il regno di Dio non è altro che la presenza salvifica di Dio in Gesù attraverso il potere dello Spirito Santo, una presenza che produce perdono gratuito e riconciliazione e ristabilisce la giustizia e la pace universali tra Dio e l’umanità, tra gli stessi esseri umani e tra l’umanità e il cosmo.
Nei contesti economici, culturali e religiosi dell’Asia, i vescovi e i teologi asiatici propongono che la missione della Chiesa di realizzare i valori del Regno assuma la forma di un dialogo triplice. La ragione di tale modalità dialogica è la presenza in Asia di molte religioni e culture. Vivendo in tali ambienti culturali e religiosi, i cristiani, che rappresentano una ristretta minoranza, devono entrare in dialogo con altri credenti, in un atteggiamento di rispetto e di amicizia, a volte in vista della sopravvivenza fisica. Considerando tale pluralismo religioso, è perfettamente naturale che il dialogo sia il mezzo preferenziale di proclamazione. (…).
In termini di aree in cui il dialogo deve essere realizzato, la FABC ne suggerisce tre: il dialogo con il popolo asiatico, specialmente con i poveri, quello con le sue culture e quello con le sue religioni. In altre parole, i tre compiti essenziali delle Chiese asiatiche sono la liberazione, l’inculturazione e il dialogo inter-religioso. È vitale osservare che per la FABC non si tratta di tre attività della Chiesa distinte e separate, ma di tre dimensioni intrecciate della sua missione unica di evangelizzazione. Come spiega concisamente la VII Assemblea Plenaria della FABC, «(…). L’inculturazione, il dialogo, la giustizia e l’opzione per i poveri sono aspetti di tutto ciò che facciamo».

Gli otto movimenti delle chiese asiatiche

Tale necessità di essere Chiesa locale che vive in mutua comunione è stata ribadita dalla VII Assemblea Plenaria della FABC (realizzata a Samphran, in Thailandia, dal 3 al 12 gennaio del 2000). (…). Lanciando uno sguardo retrospettivo su più di un quarto di secolo della sua vita e delle sue attività, la FABC riassume la sua «visione asiatica di una Chiesa rinnovata», composta da otto movimenti che costituiscono una specie di ecclesiologia asiatica:
1. Un movimento verso una Chiesa dei poveri e dei giovani.
2. Un movimento verso una «Chiesa veramente locale», «incarnata in un popolo, indigena e inculturata».
3. Un movimento verso l’interiorità profonda.
4. Un movimento verso una comunità autentica di fede.
5. Un movimento verso un’evangelizzazione integrale attiva.
6. Un movimento verso l’affermazione di uomini e donne.
7. Un movimento verso il coinvolgimento attivo nella creazione di vita e nel servizio ad essa.
8. Un movimento verso il dialogo triplice con altre religioni, con i poveri e con le culture, una Chiesa «in dialogo con le grandi tradizioni religiose dei nostri popoli».
Questi otto movimenti descrivono sinteticamente il nuovo modo di essere Chiesa in Asia. Puntano, essenzialmente, a trasformare le Chiese in Asia in Chiese dell’Asia. (…). Questa necessità di inculturazione nella missione di amore e servizio della Chiesa, in accordo con la VII Assemblea Plenaria della FABC, è diventata ancora più urgente alla luce delle sfide che si pongono al cristianesimo in Asia nel prossimo millennio, come la crescente emarginazione ed esclusione di tante persone da parte della globalizzazione, il fondamentalismo diffuso, la dittatura e la corruzione governativa, la distruzione ecologica e la militarizzazione crescente. (…). Per far fronte pienamente a tali sfide, la FABC crede che sia urgente promuovere l’“asiaticità” della Chiesa, vista come «dono speciale che il mondo sta aspettando». «Ciò vuol dire che la Chiesa deve essere una materializzazione della visione e dei valori di vita asiatici, specialmente l’interiorità, l’armonia, un approccio olistico e includente ogni area della vita».

Ecclesiologia dell’armonia

(…). In questo contesto, suggerisco che l’ecclesiologia della comunione venga modificata e ampliata da quella che si può chiamare “ecclesiologia dialogica” o, per usare un termine tipicamente asiatico, “armonia”.
Nel 1995, la Commissione di consulenza teologica della FABC (…) ha prodotto un lungo documento intitolato “Prospettive cristiane asiatiche sull’armonia”. (…). La parte centrale del documento si sofferma sul concetto di armonia (cap. 3), con le sue implicazioni per l’ecclesiologia (cap. 4), e delinea una spiritualità dell’armonia (cap. 5). È interessante che, sviluppando il concetto di armonia, il documento inizi con l’analisi delle culture e delle religioni asiatiche, e solo dopo si soffermi sulla Bibbia. Esso presenta una visione generale di come le principali religioni asiatiche – l’induismo, il buddismo, l’islam e le tradizioni religiose cinesi (confucianesimo, taoismo e buddismo chan) – intendono l’armonia. A partire dalla Bibbia, il documento recupera il tema dell’«armonia originale nella creazione», della «disarmonia causata dal peccato» e della «restaurazione dell’armonia in Cristo», proclamando Cristo come «il Servo Sofferente dell’armonia» e la Chiesa come «sacramento dell’armonia». La sua conclusione generale è la seguente: «C’è un approccio asiatico alla realtà, una sua comprensione asiatica che è profondamente organica, cioè una visione del mondo in base a cui il tutto, l’unità, è la somma totale della rete di relazioni e dell’interazione delle varie parti. Non c’è parte che non sia in relazione con tutte le altre, e tutte le parti insieme costituiscono il tutto. Le parti sono intese in termini di dipendenza mutua. I nostri sforzi per risolvere la disarmonia e promuovere l’integralità della vita devono attingere alle nostre risorse culturali e religiose asiatiche, che troveranno risonanza tra le persone e parleranno loro più efficacemente».
Quanto alle implicazioni per l’ecclesiologia, (…) «lo Spirito divino che dona la vita opera al di là delle comunità cristiane, in tutto ciò che è buono e vero in altre religioni e tradizioni religiose. L’apertura allo Spirito lì presente arricchirà fortemente la nostra stessa vita di fede». (…). Infine, per raggiungere l’armonia con se stessi, con gli altri esseri umani, con la creazione e con Dio si rende necessaria «una spiritualità dell’armonia». Questa include una condanna profetica «del male in tutte le sue varie forme», «un atteggiamento e un’azione di trasformazione per produrre un cambiamento nella società contemporanea» e «una vita profonda di preghiera».
In conclusione, il documento esorta allo sviluppo di «una cristologia cosmica dell’armonia. Solo sulla base di tale cristologia la teologia della Chiesa andrà oltre le sue preoccupazioni istituzionali per intendere la Chiesa essenzialmente come una Chiesa centrifuga, aperta alla totalità dell’universo e presente nell’universo e per esso (ecclesiologia cosmica)».

Pragmatica per il pluralismo religioso: un nuovo modo di essere chiesa

Il dialogo (…) esige dai cristiani un modo nuovo di vivere la propria fede in relazione all’universo della diversità e del pluralismo religiosi. (…). Citerò qui solo due delle molte caratteristiche relative al dialogo inter-religioso.

Dialogo interculturale e inter-religioso

In primo luogo, il dialogo inter-religioso non può essere separato dal dialogo interculturale e viceversa.
Le frontiere tra cultura e religione, così chiaramente delineate nella modernità, specialmente con la separazione tra Chiesa e Stato, sono diventate ancora una volta estremamente porose e flessibili nella post-modernità. (…).
Alcuni tentativi recenti di separare i due – sotto il pretesto che la religione ha a che fare con la fede, che non può essere messa tra parentesi nel dialogo senza diventare vittima della “dittatura del relativismo”, mentre la cultura riguarda questioni sociopolitiche, che possono essere sottoposte a un negoziato in vista del bene comune – sono ingiustificati tanto teologicamente quanto praticamente. (…).
In secondo luogo, grazie al dialogo inter-religioso, i muri che separano una religione dall’altra stanno cadendo rapidamente in termini tanto sociali quanto esistenziali. Le persone non vivono più in una bolla religiosa in cui le rivendicazioni di singolarità e superiorità della propria religione su tutte le altre possano esser fatte a cuor leggero. Uno dei più interessanti fenomeni religiosi della nostra epoca è quello dell’appartenenza multipla. Ciò non deve esser visto semplicemente come dilettantismo autonomo di tipo New Age o come religione self-service, in cui la persona sceglie e consuma ciò che conviene alle proprie necessità religiose e al proprio gusto personale. (…). Neppure punta ad amalgamare religioni diverse in una religione globale.
Nell’appartenenza religiosa multipla, l’impegno e la pratica di fede nella propria tradizione religiosa non sono abbandonate a favore di un’altra tradizione religiosa (come nel caso dei “convertiti”). Si tratta, al contrario, del frutto maturo del dialogo intra-religioso e inter-religioso in cui la vita religiosa della persona è approfondita e arricchita dagli insegnamenti e dalle pratiche di un’altra religione.
Naturalmente c’è una “conversione”, ma (…) si tratta di una trasformazione spirituale che produce (…) una più stretta identificazione di sé con gli altri e con l’Altro. L’identità religiosa non è qualcosa di definito e fisso, ma un processo fluido, senza frontiere e in evoluzione, che modella ed è modellato dalla cultura e dalla religione, in cui il dialogo inter-religioso svolge un ruolo chiave.

La spiritualità del dialogo inter-religioso: un nuovo modo di essere cristiani

(…) Quel che è in gioco non è altro che una nuova spiritualità, o un nuovo modo di essere cristiani. Nel suo libro recente (The Im-possibility of Inter-religious Dialogue), Catherine Cornille elenca cinque aspetti: umiltà, impegno, interconnessione/solidarietà, empatia e ospitalità. È chiaro che tali virtù non sono nuove, potendosi incontrare in qualunque lista di virtù raccomandate ai cristiani dagli autori del Nuovo Testamento (…). Ad essere nuovi, tuttavia, sono i destinatari di queste pratiche virtuose, ossia gli Altri religiosi, che per secoli il cristianesimo aveva condannato all’inferno. (…). Per quanto l’appartenenza istituzionale e l’impegno e radicamento personali in una tradizione religiosa o Chiesa specifica continuino ad essere essenziali, c’è una profonda coscienza di una connessione spirituale transculturale e transreligiosa, e persino globale, e della possibilità, e anche necessità, di una spiritualità globale. Come scrive Wayne Teasdale, «l’interspiritualità (…) onora la totalità della percezione spirituale umana, che sia o meno centrata in Dio. Lasciare fuori una qualunque esperienza spirituale significa impoverire l’umanità. Tutto deve essere incluso, tutto ciò che sia, cioè, autentico e genuino, che sorga dalla tensione verso il divino, in qualunque modo lo si conosca o lo si concepisca». (…).
Insomma, stiamo vivendo ora in un mondo in cui rivendicazioni di esclusività, singolarità e universalità dei fondatori della propria religione o della propria religione non possono più essere espresse senza tenere in considerazione le stesse rivendicazioni avanzate da altre religioni. I seguaci di altri sistemi religiosi sono ora gli Altri che non si possono e non si devono omogeneizzare, addomesticare, colonizzare, emarginare, demonizzare. Sono, questo sì, i volti con cui entriamo in un dialogo aperto, rispettoso e umile, per condividere con loro quello in cui crediamo e per ricevere i loro insegnamenti. Essere religiosi, oggi, significa necessariamente essere inter-religiosi.