Valori non negoziabili. Il potere come dominio

Bruno Bellerate *
Adista Segni nuovi n. 17/2013

Valori non negoziabili. Spesso e in vari contesti si è sentita, da più parti, specie ecclesiastiche, questa espressione collegata e in contrasto con il “relativismo”, bersaglio preferito di Benedetto XVI. Da un punto di vista storico, pur con tutte le precauzioni e distinzioni, soprattutto il “relativismo” è di casa, data la limitatezza umana. E “i valori non negoziabili”?

A parte una ponderata condivisione o meno di tali valori, nella prospettiva di una revisione e disciplinarizzazione dei comportamenti, assai spesso inammissibili, mi pare che l’esigenza di non “negoziabilità” sia frutto di una sbagliata impostazione educativa, poggiante prevalentemente sui divieti, anziché su una libera elezione. Ma proprio quell’appoggio non dà garanzie. Infatti è esperienza comune, fin da bambini, che il “vietato” è oggetto di desiderio e di scelta. I nostri avi ne avevano cercato una spiegazione, addossandone la responsabilità al peccato, diventato “originale”, di Adamo ed Eva: certo non è così.

Dal punto di vista individuale, il bambino, quasi dalla nascita, è persuaso e abituato ad obbedire e non si ha una prova definitiva di tale obbedienza, se non c’è la possibilità di verificarla sul contrario. È l’essere umano che ha bisogno di tali controprove (non Dio, come vorrebbe la sua antropomorfizzazione nel giardino dell’Eden), dato che non può valutare se non sulla base di ciò che vede e dunque della condotta che, d’altronde, è più facile oggetto di induzione, che una libera scelta. A tal fine, si sono pure introdotti, a poco a poco, nel processo educativo, i premi e i castighi: ben lontani perciò da un agire divino non antropomorfizzato.

L’istituzione ecclesiastica ha preceduto, più che seguito, questa metodologia educativa, posta sotto il controllo della paura, anziché dell’amore, e quindi è venuta moltiplicando i “divieti”, forse, più che le stesse prescrizioni. E in tale contesto, mi pare si collochino anche i “valori non negoziabili”.

Nel discorso, ciò che sorprende di più, è che non è tanto l’oggetto del divieto ciò che attira, quanto il suo attributo di vietato. Il proibire, d’altronde, suppone, senza dubbio, un potere, non certo un potere-servizio, ma il potere-dominio, il potere-sopruso, anche se favorito da tradizioni o leggi, più o meno, arbitrarie. È facile esemplificare: tipico il caso di tutto ciò che concerne il sesso, nel cattolicesimo in particolare. Di fatto, con frequenza, si trasgrediscono tali divieti, fin da ragazzi: per lo più, per contagiosa induzione da parte di smaliziati. Lo si fa e basta. Non per il piacere che, da adulti, se ne potrebbe ricavare, ma, all’età, inesistente o quasi; non per altri fini speciali, ponderati o no; ma, al più, per il “gusto” (talora, persino assente) del trasgredire, come per anticipare la propria adultità, quando molti divieti vengono meno; o, magari, anche solo per non restare ed apparire “ingenui”, oggetti di derisione.

A mio avviso quindi, altra è la strada da seguire (non quella delle proibizioni!), nel processo educativo, indispensabile per l’essere umano, che è in crescita e al quale, di conseguenza, torna anche utile l’esperienza di altri, che hanno già percorso quel cammino. L’esperienza, però, è personale e non trasferibile, non si può dunque tradurla in fonte di divieti, come spesso si fa, ma serve soltanto a titolo conoscitivo e quindi per un arricchimento delle possibilità di opzione e, in seguito, d’azione, anche per quel soggetto.

Importante, al contrario, e direi imprescindibile stimolare il bambino, fin da piccolo, alla scelta, guidarlo, per quel che è possibile e lecito, in essa, in modo da promuoverne la libertà, svincolata dai divieti e in progressiva e responsabile crescita. A questo punto, il vietato non interesserebbe più e le proprie opzioni sarebbero dettate da ben altri motivi, individuali e sociali. Allora, cioè, acquistano significato e valore le motivazioni, che portano ad un’efficace crescita in “umanità”, quali la corresponsabilità, la condivisione, la cooperazione, la solidarietà, che rendono il soggetto e lo fanno sentire membro effettivo di una comunità, cui dà, come tutti, giorno per giorno, il suo contributo, deciso solidalmente, ma non per ciò ripetitivo e immutabile.

Solo in questa prospettiva acquistano forza e propulsione i “valori” condivisi che, non per questo si possono dire “non negoziabili”, sia perché, con il tempo, si possono modificare, se così richiede la vita e le circostanze in cui ci si muove, sia perché il loro pregio dipende non dall’immodificabilità, ma dalla libera e comune accettazione.

“Valori non negoziabili” è dunque, a mio avviso, un’espressione da evitare anziché da proclamare e pubblicizzare.

(*) Ex salesiano, pedagogista. È stato docente in diverse università italiane