L’amore concreto di Gesù di F.Scalia

Felice Scalia (*)
Adista Notizie n. 18/2013

Anno C – 9 giugno 2013 – X domenica del tempo ordinario: 1Re 17,17-24, Sal 29, Gal 1,11-19, Lc 7,11-17

Quando ho davanti una giovane creatura a cui nulla manca, proprio nulla, e che tuttavia si è avviluppata in una situazione senza speranza (un amore impossibile, una meta irraggiungibile, la nostalgia di un affetto perduto, le strettoie di un cura parentale al limite con l’asfissia), tanto da avere perso ogni gusto per la vita, allora quel colloquio diventa fonte in me di un malessere così profondo da “maledire” quell’incontro e volere dimenticare per sempre quegli occhi spenti. Non ci puoi far nulla contro quel “cupio dissolvi”, eppure volentieri daresti perfino gli anni che ti restano perché quelle creature avvilite riaprano gli occhi. La morte non si addice ai giovani. Mai è una soluzione.

Luca, nel brano che la liturgia oggi propone, narra un incontro simile di Gesù con la morte ed i suoi vari volti. Colui che è “la vita del mondo”, un impatto peggiore di questo con la dissoluzione non poteva averlo. Un padre scomparso precocemente, una madre precipitata ieri nell’abisso della vedovanza, ed oggi delusa, frustrata nella sua unica flebile speranza che era il figlio, un ragazzo che forse ha trovato arduo vivere e si è arreso alla morte. Certo a Gesù fu risparmiato il senso di impotenza che in casi simili attanaglia qualsiasi mortale. Disse infatti ai becchini di fermarsi, alla donna di non piangere ed al ragazzo di alzarsi: “Sono io a dirtelo!”.

Situazioni come queste sembrano costruite apposta per mettere in mostra la potenza del super-eroe (nel caso, Gesù) e la nostra mediocrità. Ma non è così. Bisogna piuttosto dire che situazioni come queste sono emblematiche della condizione umana, ci fanno comprendere chi siamo e che sentimenti ha l’Eterno di fronte al nostro dolore.
Abbiamo costruito una macabra civiltà della morte. Mettendo al centro le cose, il possesso, il denaro, il diritto della forza, abbiamo intronizzato la morte.

Siamo un po’ come quel ragazzo del vangelo che senza un padre non sapeva crescere e preferiva scendere da quel treno in corsa folle verso il nulla che gli sembrava la vita. Siamo come la vedova che per domani attende solo il peggio: solitudine assoluta, miseria, insignificanza, morte sconsolata. Un po’ rassomigliamo forse al padre del ragazzo morto, che non ha retto alla prospettiva di un mondo così poco accogliente dei poveri, chiuso ad un futuro per il suo bambino. E abbiamo pensieri simili a quelli che occupavano la mente degli accompagnatori funebri: ci attende un sepolcro spalancato.

Dio non la pensa così, non ci vuole così. Il gesto di Gesù di Nazareth di questo ci rassicura. La vita oltre ogni disperazione, il varco di luce oltre ogni muro di cemento armato, un nuovo inizio dopo la fine di tutto, tutto questo è volontà di Dio. E per dircelo a chiare lettere ha mandato il suo Figlio. Il “miracolo” è segno straordinario dell’ordinario agire di Dio nei nostri riguardi, espressione della sua feriale – diciamo così – volontà di salvezza.

Dio vuole risuscitare i morti, donare vita, stare, in ogni caso ed anche contro tutto e tutti, dalla parte della vita. E ciò non è solo «lavoro mai interrotto del Padre» (Gv 5,17), ma anche compito di ogni battezzato che vuole calcare le orme del Cristo. Compito che lo presenta al mondo come sovversivo, perché la speranza è sovversiva.

Difficile dire se noi cristiani annunziamo oggi che la morte è già sconfitta. Fa male leggere l’osservazione di David H. Lawrence: “Mettono l’accento solo sul dolore, sul sacrificio, sulla sofferenza. Non si soffermano abbastanza sulla risurrezione e sulla gioia di vivere nel presente”. Gesù non guariva la gente nel corpo come scusa per salvare l’anima. Gesù amava le persone concrete, voleva che vivessero come figli della Vita, di una vita che travalica ogni morte e che può sussistere perfino negli occhi di un malato terminale.

Risuscitando un morto, curando un corpo, ridando la vista ad un cieco, gli rivelava insieme mondi nuovi, sconosciuti, che sono al di là dell’io chiuso in se stesso e della stessa sofferenza. È questa liberazione, questo slargamento dell’io il dono più grande del Cristo. Perché solo se si è liberati si comincia ad amare. E questo solo conta.

(*) Gesuita, teologo dell’istituto Ignatianum (Me), impegnato nell’associazione “Nuovi orizzonti”