Don Puglisi martire di mafia, un inedito per la Chiesa

Luca Kocci
il manifesto, 25 maggio 2013

È la prima volta che una vittima della mafia viene proclamata martire dalla Chiesa cattolica. Don Pino Puglisi, il parroco del quartiere palermitano Brancaccio ucciso il 15 settembre del 1993 dai killer dei fratelli Graviano viene beatificato oggi a Palermo, in una celebrazione presieduta dall’arcivescovo di Palermo, il card. Romeo, e dal suo predecessore, De Giorgi, uno dei tre “inquisitori” scelti a suo tempo da papa Ratzinger per indagare sul Vatileaks.

Al di là del trionfalismo che accompagnerà l’evento (previste 80mila persone), il percorso che ha portato alla beatificazione di Puglisi è stato accidentato, fino quasi ad arenarsi, come racconta anche il postulatore della causa, l’arcivescovo di Catanzaro Vincenzo Bertolone: vi erano «legittimi dubbi» sulla questione dell’assassinio in odium fidei (in odio alla fede), elemento ritenuto imprescindibile dalla Chiesa per poter parlare di martirio cristiano. I «dubbi» erano in realtà vere e proprie perplessità, se non resistenze, da parte curiale e vaticana, non tanto sulla beatificazione in sé quanto sull’opportunità di proclamare Puglisi «martire» di mafia. Perché la Chiesa cattolica deve fare i conti con almeno due profonde contraddizioni che hanno caratterizzato la storia del suo rapporto con Cosa nostra.

La prima è quella dei mafiosi che rivendicano pubblicamente la loro fede religiosa e la loro appartenenza alla Chiesa, spesso senza essere smentiti dai pastori, solitamente piuttosto disinvolti a consegnare o a negare patenti di cattolicità a seconda delle circostanze: dalla simbologia e dalla ritualità del codice mafioso mutuata dalla Chiesa, alle Bibbie trovate nelle case dei mafiosi, fino alla partecipazione dei boss in prima fila alle processioni religiose, utilizzate come occasioni per rafforzare il proprio consenso sociale e quindi il loro potere. La seconda è quella degli uomini di Chiesa che hanno intrattenuto relazioni ambigue, talvolta anche apertamente compiacenti, con i mafiosi: associare la «cosiddetta mafia» alla Chiesa «è una supposizione calunniosa messa in giro dai socialcomunisti» che, per interessi propri, «accusano la Democrazia cristiana di essere appoggiata dalla mafia», scriveva nel 1963 il cardinale di Palermo Ernesto Ruffini, respingendo così l’invito di Paolo VI a prendere iniziative contro la mafia. Meglio Cosa nostra del comunismo era l’idea di Ruffini, anche perché, pensava il cardinale, «trattasi di delinquenza comune e non di associazione a largo raggio».

Dagli anni ’90 le cose hanno iniziato lentamente a cambiare, a partire dall’anatema di papa Wojtyla nella Valle dei templi, nel ’93. E un documento della Cei sul sud d’Italia, del 2010, definisce la mafia struttura di peccato. Ma silenzi e omissioni restano. E soprattutto resta il dato di una teologia non del tutto evangelica, da cui, se invece lo fosse, i mafiosi si terrebbero a distanza: «Da una Chiesa povera e fraterna i mafiosi si autoescluderebbero da soli e anzi la considererebbero nemica», spiega al manifesto Augusto Cavadi, studioso dei rapporti fra Chiesa e mafia e autore, insieme ad altri, del recentissimo Beato fra i mafiosi. Don Puglisi: storia, metodo e teologia (Il Pozzo di Giacobbe). «Ora con questa beatificazione, la mafia non potrà più essere considerata dai cattolici un elemento del paesaggio con cui convivere ma un sistema di dominio ingiusto. Gerarchie e fedeli dovranno però uscire dalla stralunata equidistanza fra mafiosi (e amici dei mafiosi, politici in primis) e guardiani della legalità democratica, dovranno scegliere da che parte stare». E che questa nuova stagione non sia facile lo dimostrano alcune voci raccolte da Cavadi fra i preti: «Il parroco di Brancaccio era un santo e si poteva permettere certi gesti, noi siamo solo poveri preti comuni, da cui non si può pretendere il martirio. Ecco: se passa questa versione, la testimonianza di Puglisi resterà in una nicchia».

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Don Puglisi, beato tra i fedeli. Folla per il martire antimafia

Luca Kocci
il manifesto, 26 maggio 2013

In mezzo alle centomila persone che ieri mattina affollavano il prato del Foro italico sul lungomare di Palermo per partecipare alla beatificazione di don Pino Puglisi «martire» di mafia c’era uno striscione che riportava una delle frasi che il parroco di Brancaccio era solito ripetere: «Se ognuno di noi fa qualcosa, allora si può fare molto». Associata ad un altro ricorrente invito del prete palermitano, quello a scegliere «da che parte stare» – fra la giustizia e la sopraffazione, fra il coraggio e l’omertà, fra la mafia e l’antimafia –, è la sintesi più efficace del ministero pastorale, ma anche civile, di don Puglisi. E la chiave per comprendere sia le ragioni che hanno spinto decine di migliaia di persone – gruppi organizzati come gli scout, semplici fedeli e cittadini, molti da fuori Sicilia – a partecipare alla cerimonia religiosa, sia l’apprezzamento che il prete palermitano raccoglie dai non credenti e da chi si colloca fuori del tempio.

«Don Pino Puglisi non fu mai prete per mestiere», ha detto nell’omelia l’arcivescovo di Palermo, il cardinal Paolo Romeo. Non quindi «un onesto burocrate del sacro che amministra i sacramenti, insegna un po’ di catechismo e soccorre qualche famiglia in difficoltà, ponendo ai parrocchiani meno interrogativi possibili», spiega Augusto Cavadi, studioso palermitano dei rapporti fra Chiesa e mafia. Ma un prete che si impegnava nel territorio e si preoccupava dei bisogni anche materiali dei suoi parrocchiani: allora le lotte per la costruzione delle fogne, di un presidio socio-sanitario e di una scuola media a Brancaccio, quartiere feudo dei fratelli Graviano – condannati come mandanti del omicidio – lasciato nel degrado per mantenere i suoi abitanti dipendenti dai favori e dal dominio mafioso; le marce antimafia, gli scontri con i democristiani locali, i legami spezzati con i padrini in prima fila nella processione di san Gaetano, il patrono della parrocchia.

Lo ricordano i cittadini di Brancaccio che ieri erano al Foro italico: «Avevo 15 anni quando l’ho conosciuto. Mi ha colpito la sua onestà limpida ma anche il silenzio assordante delle istituzioni quando denunciava i problemi del quartiere», racconta Mimmo De Lisi, oggi assistente sociale al centro Padre nostro di Palermo. Lo sottolinea il presidente del Senato Piero Grasso, all’epoca sostituto procuratore a Palermo: «Toglieva l’aria e il territorio ai mafiosi, accogliendo i ragazzi al centro Padre nostro, organizzando iniziative contro la mafia e la droga». E ancora l’arcivescovo Romeo: «Sottraeva alla mafia del quartiere consenso, manovalanza e controllo del territorio».

Suonano stonate le parole del cardinal Bagnasco, che però non era a Palermo ma a Genova, per i funerali di un altro prete di frontiera, don Andrea Gallo: «Don Puglisi è stato ucciso in odium fidei, per odio della fede, non per anti-mafia. Per questo motivo è stato dichiarato martire. Una lettura diversa, legata solo alla lotta alla mafia, è una lettura sociologica ed è gravemente riduttiva». Ma riduttive sembrano proprio le affermazioni del presidente della Cei, preoccupato di ricollocare entro il recinto del sacro la testimonianza e l’azione di Puglisi, indiscutibilmente animata dal Vangelo ma capace di uscire dalla sacrestia. E proprio per questo apprezzata dai cattolici e da tanti non credenti. Che ieri hanno applaudito quando è stato scoperto il ritratto del parroco di Brancaccio – al momento della proclamazione della beatificazione – ma anche quando i celebranti hanno ricordato i magistrati Livatino, Falcone e Borsellino, uccisi da Cosa nostra non in odium fidei ma in odium vitae.

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L’antimafia evangelica di don Puglisi. Un libro di mons. Bertolone

Luca Kocci
Adista n. 19, 25 maggio 2013

Don Puglisi era finito nella “tana del lupo”, il quartiere Brancaccio di Palermo controllato dai fratelli Graviano. Ma il lupo, cioè Cosa nostra, aveva una “serpe in seno”: un prete libero che quotidianamente, con la sua azione pastorale, contrastava il potere mafioso. L’omicidio, allora, diventa «necessario», perché il dominio della mafia non può tollerare oppositori. Soprattutto se fanno proseliti, animati solo dalla fede nella forza del Vangelo. È questo il senso del martirio in odium fidei di don Pino Puglisi (ucciso il 15 settembre 1993, beatificato come martire il prossimo 25 maggio), raccontato ora in un libro da p. Vincenzo Bertolone (arcivescovo di Catanzaro), il quale più di tutti ha seguito da vicino l’iter verso gli onori dell’altare del prete palermitano – di cui è stato postulatore –, che anni fa sembrava essersi arenato proprio perché si faticava a riconoscere in quell’assassinio il significato profondo del martirio cristiano (La sapienza del sorriso. Il martirio di don Giuseppe Puglisi, Edizioni Paoline, Milano, 2012, pp. 154, euro 13).

Leoluca Bagarella, uno dei vertici della “cupola” di Cosa nostra, criticava i Graviano perché nel loro territorio c’era un prete «che faceva questi discorsi, che faceva le manifestazioni contro la mafia, che prendeva questi bambini, cercando di dire loro “non mettetevi con i mafiosi”, e comunque operava per cercare di levare la gente dalle mani mafiose», ricorda il pentito Antonio Calvaruso, in una testimonianza riportata nel volume. «Per Bagarella questo era uno smacco nei confronti dei Graviano, che avevano un personaggio di questo (spessore) che continuava ad adoperarsi contro la mafia, e loro praticamente lo ignoravano. Quindi i Graviano furono pure costretti a dare una risposta anche al Bagarella, che loro non si sarebbero fatti mortificare da un prete». E così avverrà: prima minacce e intimidazioni – visto che la corruzione non aveva funzionato – ma, spiega Bertolone, «dal momento che tali minacce trovano in Puglisi una inattesa resistenza, i Graviano, carichi di odio e sentendosi umiliati da un prete che esercitava semplicemente il suo ministero sacerdotale, per difendere la propria reputazione mafiosa ne decretano la morte».

Ma perché uccidere un prete e perché proprio lui, si chiede Bertolone, che analizza la congiuntura particolare in cui si trovò don Puglisi quando venne trasferito a Brancaccio all’inizio degli anni ’90: la vicinanza di uno dei capi di Cosa nostra (appunto Bagarella), la visita in Sicilia di Giovanni Paolo II che nella valle dei templi di Agrigento aveva tuonato contro la mafia, la “primavera di Palermo”, senza dimenticare «la forte presa della testimonianza cristiana del parroco di San Gaetano, i primi frutti del suo lavoro, il fascino che la sua proposta cristiana esercita sui giovani e sui bambini». Uccidendo Puglisi, allora, «si vuole mettere a tacere un avversario e intimidire la Chiesa», soprattutto da parte di chi – i mafiosi – vive una «religiosità capovolta» e si nutre di una «sacralità atea», fatta di simboli e di un codice esteriormente religioso ma intimamente antievangelico. «Non possono non aver avvertito che la vita di don Pino spingeva in direzione esattamente opposta alla loro», spiega don Cosimo Scordato, che aggiunge: «L’uccisione di don Puglisi non può non essere considerata come un’azione compiuta in odium fidei, un odio dovuto alla rabbia di dover subire in un territorio (Brancaccio), da sempre feudo della mafia (i Graviano), il progressivo distacco dei suoi abitanti, specie i più giovani, dal credo della lupara al definitivo abbraccio della croce di Cristo redentore».

Non era un “professionista dell’antimafia” don Puglisi, ma un prete del Vangelo: «Desiderava condurre la sua comunità a una vita evangelica che fosse alternativa alla mentalità e agli interessi dominanti», spiega Bertolone, riportando stralci della sentenza di appello del processo contro gli assassini del parroco palermitano. «La lotta alla mafia, come cultura e prassi antievangelica, nasceva dal desiderio di chiarificazione e di purificazione del senso religioso del popolo, per approdare ad una comunità di fede di uomini liberi». Non ci può essere nessuna compatibilità fra fede cristiana e mafia.