La rivoluzione del papa è pastorale, non teologica

Domenico Rosati
l’Unità, 27-05-2013

Dell’incontro, il primo, di papa Francesco con i vescovi italiani, le cronache hanno segnalato l’avvenuta «restituzione» alla Cei di quel ruolo di soggetto politico che le era stato, almeno in parte, sottratto dalla Segreteria di Stato al momento dell’avvicendamento Ruini-Bagnasco. Il fatto è indubbiamente rimarchevole ai fini della definizione degli equilibri e dei rapporti nel nuovo pontificato, se non altro perché il Papa mostra di non volersi lasciar coinvolgere in prima persona dalle intricate vicende della realtà italiana. È un atteggiamento che riversa sul corpo rappresentativo dei vescovi l’onere di sviluppare una riflessione approfondita sugli orientamenti e le scelte dell’ultimo periodo, caratterizzato dall’investimento sull’impresa-Monti, con gli esiti culturali ed elettorali che tutti conoscono.

Sarà stato forse perché certe «competenze» non erano state ancora attribuite, ma non può sfuggire la circostanza per cui nella pur densa prolusione del cardinale presidente all’Assemblea del 20 maggio neppure un accenno d’analisi è stato abbozzato su quel che i vescovi si attendevano dai cattolici – «grembo di futuro» s’era detto – e su quel che realisticamente andrebbe registrato alla luce dell’esito del voto; e non solo. Ma se lo svolgimento del tema politico viene ad essere necessariamente rinviato ad altra occasione (e si spera con un approccio di pensiero che tenga conto di tutti i fattori in campo), il discorso che il vescovo di Roma ha rivolto ai suoi colleghi di tutta Italia si presenta come un segnale di grande rilievo sia per il significato ecclesiale sia per le implicazioni pratiche che comporta anche, se ben si guarda, nei suoi risvolti sociali.

Il cuore del messaggio è il «mestiere del pastore» nel senso evangelico del termine. Se ne possono ricavare due impressioni. La prima è quella di un’esortazione generale, fuori tempo e luogo; l’altra è quella di un richiamo puntuale alle condizioni in cui qui in Italia operano i pastori. I quali, in questa seconda versione che pare la più appropriata, si sono sentiti richiamare all’obbligo di «vegliare» non solo sulle comunità loro affidate ma anche su loro stessi, per non diventare «un funzionario, un chierico di stato preoccupato più di sé, dell’organizzazione delle strutture, che del vero bene del popolo di Dio». È questo il concetto che il Papa venuto «dalla fine del mondo» si è fatto dell’aria di Roma e dintorni? E che effetto produce una parola così diretta in quanti hanno ricevuto la responsabilità di «camminare innanzi al gregge» con «sana celerità apostolica» e, dunque, di svolgere una funzione di guida? Attenzione però: «Per rendere riconoscibile la nostra voce» sia da quanti sono nella fede cattolica sia da quanti sono ad essa estranei, «bisogna anche – precisa Francesco – disporsi a camminare in mezzo e dietro al gregge» per «ascoltare il silenzioso racconto di chi soffre e di sostenere il passo di chi teme di non farcela».Non solo guidare, dunque, ma anche condividere per essere in grado di «rialzare, rassicurare, infondere speranza».

La circostanza del discorso era quella di una professione di fede svolta in forma collettiva con i vescovi, e dunque centrata sul rapporto con Dio. Papa Francesco però ha svolto il tema facendo leva sul rapporto col prossimo, puntando più che sulla perfezione della dottrina sul valore della testimonianza.

La Chiesa è credibile se c’è coerenza tra quel che dice e quel che fa. Ed è qui che si avverte lo scarto che c’è tra una fede cristiana presunta e certificata una volta per tutte e la valutazione quotidiana degli atteggiamenti e dei comportamenti come misura del giudizio e della autenticità. Per chi è abituato, da generazioni per non dire ab aeterno, alle formule giuridico-teologiche che pervadono gran parte del magistero, un Papa che parla di vangelo può persino costituire un problema.

Il progetto di Chiesa di Jorge Bergoglio è appena abbozzato, ma dai primi segnali se ne colgono la portata e le implicazioni. Quello del linguaggio è solo un corollario dell’idea di «Chiesa povera per i poveri» che ormai si legge in mille titoli, ma che una sequenza rende meglio di altre: un uomo vestito di bianco, preceduto da una croce, che a piedi attraversa la navata di S. Pietro e sale sull’altare della Confessione, senza un applauso, un «viva il Papa». Sedie gestatorie, incensi e flabelli rimasti in magazzino. E parole senza orpelli che esprimono domande: «Chi siamo, fratelli, di fronte a Dio? Quali sono le nostre prove? Che cosa ci sta dicendo Dio attraverso di esse? Su che cosa ci stiamo appoggiando per superarle?». E risposte non automatiche ma da trovare insieme, «a clero e popolo» avrebbe detto il Rosmini. Dove popolo è risorsa di buona volontà.