Se il Papa critica il capitalismo (e la sinistra no)

Francesco Peloso
www.micromega.net

Cosa succede se una delle più antiche istituzioni globali della storia, la Chiesa cattolica, attraverso la sua più alta autorità critica le virtù e i presunti benefici del capitalismo mondializzato? La prima reazione dell’opinione pubblica, quasi automatica, è quella di declassare gli interventi del Papa in materia economica e sociale a tradizionale attenzione ai poveri, vale a dire pensieri caritatevoli pronunciati da un leader spirituale. Insomma nulla di nuovo. In quest’atteggiamento c’è ovviamente un po’ di distrazione e di conformismo, eppure si scorge anche qualcos’altro: un certo fastidio verso interventi – in questo caso del Pontefice ma altrove lo stesso effetto è causato da un economista deciso a rompere certi tabù – che provano a rimettere in discussione le fondamenta del modello di sviluppo nel quale siamo immersi e che a quanto pare non ha costruito la felicità per tutti.

A circa tre mesi dalla sua elezione, Francesco ha articolato una linea di intervento pastorale in cui spicca la questione della ‘riscrittura’ del sistema di governo del mondo a cominciare dagli squilibri determinati dalla crisi finanziaria degli ultimi anni. Alcuni punti critici sono stati in particolare sottolineati dal Papa argentino: in primo luogo la sudditanza della politica alla finanza e la necessità di rovesciare i rapporti di forza fra questi due fattori, quindi Bergoglio ha descritto la solidarietà non solo come forma episodica di carità – le mense per i poveri, l’accoglienza ecc. – ma quale strumento di governo delle società contemporanee; il Papa ha inoltre rimesso al centro del pensiero e dell’attenzione della Chiesa la povertà quale fenomeno globale, ha rivolto poi il suo j’accuse alla società dei consumi e alla cultura dello ‘scarto’, quello alimentare in primo luogo, che diventa però anche – su scala più ampia – lo ‘scarto’ dell’umano, la persona che diventa rifiuto in quanto espulsa dai processi produttivi e di consumo. Papa Francesco ha naturalmente costruito questi ragionamenti all’interno di una visione cristiana, cioè ha operato una critica al modello di sviluppo in basa alla quale la nostra umanità viene recuperata dal rapporto con Dio, vissuta attraverso un principio di fratellanza d’ispirazione cristiana, che non è più visione solo consolatoria, ma modello sociale alternativo in grado di cambiare i rapporti nell’economia e nelle società rendendoli più giusti.

Si annuncia già un’enciclica dedicata agli ultimi, ai poveri, vedremo che accadrà. Ma di certo l’elezione del papa argentino ha comportato un repentino cambiamento nel linguaggio e nelle priorità della Chiesa universale. D’altro canto questa è la seconda parte del mandato che il Papa ha ricevuto quando è stato eletto lo scorso 13 marzo al quinto scrutinio del conclave. Se in primo luogo ,cioè, l’alleanza di cardinali nord e sud americani, con asiatici e africani insieme a un parte degli europei continentali e ad alcuni italiani, lo ha spinto al Soglio di Pietro con il progetto di riformare la Curia, la sua burocrazia antica e polverosa, di ridimensionare gli apparati e rendere trasparente la gestione finanziaria, la seconda parte della sua missione è quella di riportare la Chiesa al centro della storia.

“Se in tante parti del mondo – ha detto il Papa nel corso dell’udienza generale del 5 giugno di fronte a decine di migliaia di persone – ci sono bambini che non hanno da mangiare, quella non è notizia, sembra normale. Non può essere così! Eppure queste cose entrano nella normalità: che alcune persone senza tetto muoiano di freddo per la strada non fa notizia. Al contrario, un abbassamento di dieci punti nelle borse di alcune città, costituisce una tragedia. Uno che muore non è una notizia, ma se si abbassano di dieci punti le borse è una tragedia! Così le persone vengono scartate, come se fossero rifiuti. Questa “cultura dello scarto” tende a diventare mentalità comune, che contagia tutti”.

“Oggi è il denaro che comanda”, ha aggiunto. E ancora davanti a un gruppo di ambasciatori lo scorso 16 maggio, in un intervento che era stato annunciato dal Vaticano come “importante”, ha dato una lettura anche più programmatica delle stesse questioni: “La crisi mondiale che tocca la finanza e l’economia sembra mettere in luce le loro deformità e soprattutto la grave carenza della loro prospettiva antropologica, che riduce l’uomo a una sola delle sue esigenze: il consumo. E peggio ancora, oggi l’essere umano è considerato egli stesso come un bene di consumo che si può usare e poi gettare. Abbiamo incominciato questa cultura dello scarto”. “Questa deriva – spiegava – si riscontra a livello individuale e sociale; e viene favorita! In un tale contesto, la solidarietà, che è il tesoro dei poveri, è spesso considerata controproducente, contraria alla razionalità finanziaria ed economica. Mentre il reddito di una minoranza cresce in maniera esponenziale, quello della maggioranza si indebolisce”. “Questo squilibrio – affermava il Papa – deriva da ideologie che promuovono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria, negando così il diritto di controllo agli Stati pur incaricati di provvedere al bene comune. Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone unilateralmente e senza rimedio possibile le sue leggi e le sue regole”. Non solo: “l’indebitamento e il credito allontanano i Paesi dalla loro economia reale ed i cittadini dal loro potere d’acquisto reale. A ciò si aggiungono, oltretutto, una corruzione tentacolare e un’evasione fiscale egoista che hanno assunto dimensioni mondiali. La volontà di potenza e di possesso è diventata senza limiti”.

Vanno chiarite alcune cose. Non è una visione banalmente pauperistica quella proposta da Bergoglio – in un altro intervento ha parlato di una solidarietà cui non viene concessa cittadinanza sociale – e di certo qualsiasi messa in discussione del modello di sviluppo inevitabilmente ha a che vedere con la questione del livello dei consumi e della ricchezza. Allo stesso tempo è possibile intravedere alcuni tratti biografici dell’attuale pontefice dietro tali affermazioni. L’attenzione a non ostentare beni e oggetti lussuosi, una permanenza lunga nella capitale argentina e la frequentazione delle periferie più povere, l’appartenenza giovanile al peronismo come fenomeno politico che si rivolgeva al popolo e alle sua condizione prima di trascendere nel culto del suo leader, una certa sobrietà gesuitica, l’idea che la Chiesa per essere popolare deve stare in mezzo alla gente normale e agli emarginati. Non è un rivoluzionario Bergoglio, né ha fatto parte delle correnti più progressiste della Chiesa, e tuttavia il suo magistero s’inserisce in quella rinnovata attenzione alla dottrina sociale scaturita dagli anni del Concilio e dalle esperienza della Chiesa latinoamericana.

Nelle tematiche sollevate da Bergoglio c’è dunque anche l’allarme per una crisi interna: la consapevolezza, cioè, che se la Chiesa avesse proseguito sulla strada ideologica e intransigente dei soli principi bioetici, della lotta politica tutta europea e occidentale sui temi della ‘vita’ – dall’embrione all’eutanasia lasciando per strada tutto quello che c’è in mezzo – sarebbe entrata in una stagione di crisi drammatica perdendo definitivamente ogni presa e peso specifico nei continenti che oggi sono al centro della trasformazione storica. Bergoglio certo non abbandonerà del tutto il fronte bioetico, ma il baricentro del suo magistero e quindi della Chiesa, è stato ormai collocato radicalmente altrove. Per altro apporterà comunque alcune modifiche anche ai temi ‘eticamente sensibili’ eliminando le intransigenze più acute; ne sono un segnale le prime aperture al riconoscimento delle unioni civili omosessuali diverse dal matrimonio.

E’ dunque in questo contesto che il papato riscopre la forza di un progetto profetico che osa parlare senza timore di rovesciamento degli ordini mondiali del potere in nome di un’altra immagine dell’uomo, è un riappropriarsi della sacralità dell’umano non più fondata sull’integralismo confessionale ma sul bisogno di giustizia. Una simile prospettiva di fede dovrebbe intercettare, lungo questo crinale, le forze culturali e politiche in grado di confrontarsi su simili questioni. Tuttavia sembra che fino ad ora questo non sia avvenuto. In pratica l’approccio di Bergoglio sta mettendo anche a nudo l’incapacità della sinistra – in primo luogo per quel che ci riguarda italiana ed europea – di dire l’indicibile, e cioè che il capitalismo del XXI secolo ha prodotto una crisi verticale e drammatica della condizioni di vita dei popoli alle più diverse latitudini. Non si tratta tanto di ripetere antichi ritornelli come ‘meno mercato più Stato’, ma appunto di cambiare le priorità del modello di sviluppo, la qualità delle produzioni e dei consumi, passando dal livello di questi ultimi, e di affrontare il tema delle diseguaglianze sociali e dei redditi, per approdare al modello critico coniato dal Papa della società dello ‘scarto’, della società cioè che produce rifiuti e rifiuta le eccedenze, anche umane (per questo, ancora, Bergoglio parla della disoccupazione come di una forma dilagante del povertà moderna).

Si tratta di un lungo elenco di questioni inevaso dalle classi dirigenti. Per altro il magistero del Papa ha preso largamente in contropiede anche ciò che resta del cattolicesimo politico organizzato che non pare aver colto il radicale cambiamento di registro avvenuto in un lasso di tempo tanto breve. Mentre insomma il ‘vescovo di Roma’ dice queste cose i cattolici europei sono impegnati in una campagna in difesa dell’embrione dal titolo piuttosto improbabile: l’embrione “uno di noi”. Se certo la Santa Sede tornerà pure a parlare di embrioni, sembra però che la sua attenzione si sia spostata in questi mesi sugli esseri umani per così dire adulti. A ben vedere, insomma, nemmeno il mondo cattolico italiano ha fino ad ora compreso la novità dell’elezione del primo papa non europeo della storia, della sua provenienza dal sud dell’America e del Pianeta, cosa che comporta non tanto la ‘scoperta’ della povertà – sarebbe invero un po’ tardiva – ma soprattutto l’assunzione di un punto di vista diverso sulla storia che non richiede paternalismo ma una ‘ricomprensione’ secondo un’altra visuale del mondo globalizzato di questi anni.

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Papa Francesco e la Terza Repubblica: il “preambolo” che modifica i rapporti tra Stato e Chiesa

Piero Schiavazzi
Huffington Post, 25 maggio 2013

Al primo appuntamento con la CEI, Francesco ha lasciato l’Italia. Come suo padre ottantacinque anni fa, quando salpò da Genova alla volta dell’Argentina.
Mentre il Papa giovedì si rivolgeva ai vescovi, riuniti attorno a lui sotto la cupola di Michelangelo, la barca di Pietro prendeva il largo verso i confini del mondo, mollando gli ormeggi e la zavorra della provincia italica. Abbandonando la penisola per abbracciare il pianeta, nell’era della globalizzazione.

Ci voleva un figlio di emigrati per infondere nella Chiesa la consapevolezza che l’Italia non costituisce l’ultima spiaggia: l’estremo ridotto contro legislazioni secolarizzanti e nuovi costumi di vita, che ogni giorno guadagnano terreno, cingendo d’assedio il cuore della cristianità.

Con il “collirio della memoria”, riprendendo una suggestiva immagine del suo discorso, Francesco ha depurato il punto di vista che faceva della politica italiana una priorità del Pontefice, Primate d’Italia, e un primato della curia, suo quartier generale.

In attesa che il Comitato dei Quaranta riformi le istituzioni, Bergoglio ha nel frattempo rivoluzionato i rapporti fra Stato e Chiesa: per lui la Terza Repubblica è già cominciata.

Il Papa è ricorso a un “preambolo” dell’ultima ora, come nei congressi democristiani di un tempo e come un tratto di evidenziatore, affermando il principio e subito rimarcandolo, affinché risultasse chiaro a tutti.

“Il dialogo con le istituzioni culturali, sociali, politiche – ha detto ai vescovi italiani al termine della loro assemblea generale – è un compito vostro e non è facile. La Conferenza episcopale vada avanti con questo dialogo. È cosa vostra. Avanti!”

Le parole del Pontefice prendono implicitamente quanto inequivocabilmente a riferimento, nel lessico e nell’intento di voltare pagina, la lettera del 25 marzo 2007 con cui il Segretario di Stato Tarcisio Bertone, scrivendo al Presidente della CEI Angelo Bagnasco, aveva invece avocato a sé “i rapporti con le istituzioni politiche, assicurando la cordiale collaborazione e la rispettosa guida della Santa Sede, nonché mia personale”.

Si chiude dunque l’epoca in cui le liturgie della politica nostrana venivano officiate in curia, nella duplice osservanza, e alternanza, del rito ruiniano e bertoniano.

Il primo ha finito per estendere alla conferenza episcopale la delega del Cardinale Vicario, a scapito della missione diocesana.
Il secondo ha rischiato di concentrare sull’Italia l’attenzione del Segretario di Stato, a danno della visione universale.

La sovraesposizione dell’Italia trova legittimo fondamento e piedistallo nella sua specificità, richiamata da Giovanni Paolo II nella celebre lettera ai vescovi del 1994, all’alba della seconda Repubblica e alla vigilia delle prime elezioni con il metodo maggioritario: “All’Italia, in conformità alla sua storia, è affidato in modo speciale il compito di difendere per tutta l’ Europa il patrimonio religioso e culturale innestato a Roma dagli apostoli Pietro e Paolo”.

Una missione e una responsabilità che dodici anni dopo con Ratzinger, nel discorso al convegno di Verona, si allargano addirittura al mondo intero: “L’Italia costituisce un terreno assai favorevole per la testimonianza cristiana…Se sapremo farlo, la Chiesa in Italia renderà un grande servizio non solo a questa Nazione, ma anche all’Europa e al mondo”.

Tale specificità italiana nella lettura di Bergoglio, che è figlio della stessa terra e tradizione, non viene meno ma non deve nemmeno indurre a enfatizzare il ruolo della politica e dei suoi esiti elettorali, come se da essi dipendessero in ultima istanza le sorti della nuova evangelizzazione.

Di fronte al pericolo di un abbaglio, Francesco nella preghiera finale ha perciò chiesto di purificare “gli occhi dei Pastori con il collirio della memoria”, tornando alla freschezza delle origini.

Convocando intorno alla tomba di Pietro l’intero episcopato, al termine dell’assise annuale, ha trasformato la professione di fede in un suo personale atto di fiducia nei vescovi della penisola e nelle loro leadership, composte da porpore che sono entrate numerose quanto divise in conclave, per uscirne come sappiamo sconfitte e ridimensionate.

Toccherà ad Angelo Bagnasco, che nel profilo e nel tratto ricorda un Enrico Letta con due decadi in più, cogliere l’opportunità della svolta e raccogliere un consenso di “larghe intese” tra i confratelli, presentandosi all’appuntamento con le istituzioni non solo con l’ambizione di guidarle, ma con la disposizione “a camminare in mezzo e dietro al gregge, capaci di ascoltare il silenzioso racconto di chi soffre e di sostenere il passo di chi teme di non farcela”.