L’IMU alla Chiesa è un imbroglio. Che frutterà pochi spicci

Valerio Gigante
Adista Notizie n. 23 del 22/06/2013

Due recenti notizie sull’Imu che sfatano definitivamente il mito della Chiesa cattolica finalmente costretta a pagare la tassa sugli immobili.La prima è che se è vero che gli enti commerciali, anche quelli ecclesiastici, dovranno versare la prima rata Imu entro il 17 giugno, non è così per gli immobili ad uso misto (commerciale e non commerciale) che sono la maggioranza di quelli per cui la Chiesa cattolica sarebbe tenuta a pagare la nuova imposta.

Il Ministero delle Finanze ha ammesso infatti che per questa tipologia di immobili non è stato ancora in grado di calcolare le superfici calpestabili per le quali è dovuto il tributo, e quelle invece che ne sarebbero esenti, perché magari ospitano una cappella, un oratorio, locali per ritiri spirituali, ecc. Il conguaglio è quindi rinviato al 2014, contestualmente al versamento della prima rata dovuta per l’anno 2014.La seconda notizia è in realtà una non-notizia, dal momento che alcuni – Adista compresa – lo sostenevano da tempo.

Ora però ad affermarlo sono in molti: anche quando la Chiesa pagherà, il gettito complessivo dell’Imu non subirà variazioni sostanziali rispetto agli attuali 4 miliardi di euro. Inizialmente il gettito atteso dalla Chiesa era stato stimato in 2 miliardi di euro, poi l’Anci (l’associazione che riunisce i comuni italiani) aveva indicato una cifra tra i 500 e i 700 milioni; più recentemente la commissione del Tesoro sull’erosione fiscale ha stimato in 100 milioni di euro circa il possibile gettito proveniente dalla tassazione degli immobili ecclesiastici e del no-profit.

Nel momento in cui si cercano disperatamente soluzioni che evitino l’aumento di un punto percentuale di Iva (che darebbe un gettito corrispondente più o meno proprio a quei due miliardi che si attendevano dalla Chiesa), non si tratta, è evidente, di una buona non-notizia.Tutto iniziò a novembre 2011, con il decreto legge cosiddetto “Salva Italia”. Già in quella sede, il governo aveva previsto il congelamento delle rendite catastali per gli immobili di “classe B”, cioè quelli in cui sono compresi collegi, conventi, oratori e seminari, oltre agli uffici pubblici, gli ospedali, le scuole, biblioteche, i musei.

Anche per gli immobili sui quali la Chiesa già pagava l’Ici ci sarebbe quindi stato un forte sconto: avrebbe continuato a pagare, ma senza subire gli effetti di quegli aumenti che invece avrebbero riguardato tutti gli altri immobili. Con la legge n. 44/2012 (che convertiva in legge il cosiddetto “decreto liberalizzazioni”) vennero introdotte diverse modifiche alla normativa di due mesi prima. Tra esse, anche quella che chiariva che l’esenzione dal pagamento dell’Imu riguardava gli immobili nei quali si svolgesse «in modo esclusivo un’attività non commerciale», oppure «limitata alla sola frazione di unità» nella quale l’attività fosse di natura non commerciale. Una modifica che esentava i centri di accoglienza per i senza dimora e le mense per i poveri, ma obbligava a pagare l’imposta gli ex conventi trasformati in alberghi oppure i ristoranti per i pellegrini.

Per individuare i criteri attuativi delle nuove norme, il governo delegò il Ministero dell’Economia a varare un apposito regolamento (quello di cui Mario Monti ha più volte sostenuto, specie in campagna elettorale, di non saper nulla, non essendo di sua competenza). Questo “regolamento” avrebbe dovuto recepire le indicazioni del Consiglio di Stato, che chiedeva al governo di rispettare le norme europee senza concedere indebiti aiuti statali agli enti ecclesiastici. Il testo, emanato il 19 novembre 2012, è andato però in tutt’altra direzione. Stabilisce infatti che gli enti assistenziali e sanitari (non accreditati o convenzionati con lo Stato e gli enti locali) diventano “non commerciali” ed esenti dalla tassa, se le prestazioni «sono svolte a titolo gratuito ovvero dietro versamento di corrispettivi di importo simbolico e, comunque, non superiore alla metà dei corrispettivi medi previsti per analoghe attività svolte con modalità concorrenziali nello stesso ambito territoriale».

Una cifra difficile da stabilire (anche perché non si capisce cosa esattamente significhi l’“ambito territoriale”, in cui si dovrebbe misurare la media dei “prezzi”).Risultato: per alberghi, ostelli, asili e scuole, società sportive e cliniche private è sufficiente dimostrare di offrire servizi a “metà dei corrispettivi medi” dei loro concorrenti “profit”. Per gli alberghi (come i tanti conventi trasformati in strutture ricettive) è prevista addirittura un’ulteriore agevolazione: pagano l’Imu solo per i periodi dell’anno in cui effettivamente svolgono attività commerciale. Per contestare un’eventuale dichiarazione infedele, i comuni hanno cinque anni di tempo, ammesso che siano in grado di verificarla.

C’è poi un capitolo particolare dedicato alle scuole private (in larghissima parte cattoliche): esse sono esentate dall’Imu se ottemperano a tutte quelle condizioni senza le quali non possono essere definite “paritarie” (avere cioè un regolamento che garantisce la non discriminazione degli alunni e l’accoglienza dei portatori di handicap; applicare il contratto nazionale al personale docente e non docente; pubblicare il bilancio) e se l’«attività è svolta dietro versamento di corrispettivi tali da coprire solamente una frazione del costo effettivo del servizio, tenuto anche conto dell’assenza di relazione con lo stesso».In pratica, le scuole private non pagano l’Imu se la retta copre i costi e non genera utili.

Ma il fatto che i ricavi non superino i costi pone oggettivamente le scuole cattoliche su un piano diverso rispetto alle altre attività commerciali: un’azienda che avesse il bilancio in rosso non per questo sarebbe infatti esentata dall’imposta.La Chiesa sì. Senza contare che i contributi statali, regionali e comunali versati ogni anno alle scuole private falsano ancora di più i conti. Mettendo fuori dal mercato le attività commerciali della Chiesa. E, soprattutto, fuori dalle regole della concorrenza.