E ora comando IOR. Papa Francesco e la “riforma” della banca vaticana

Valerio Gigante
Adista Notizie n. 24 del 29/06/2013

Molti, nel parlare della nomina di mons. Battista Mario Salvatore Ricca a nuovo prelato dello Ior, hanno messo in evidenza il fatto che la sua carica è stata in passato ricoperta da figure rilevantissime ed assai controverse all’interno della Curia e dell’Istituto di Opere di Religione, come quella di mons. Donato De Bonis. Valeva però la pena di citare anche un altro predecessore di Ricca, il più recente: mons. Piero Pioppo, nominato nel 2006 come esito di uno degli ultimi atti di governo dell’allora segretario di Stato Angelo Sodano che, in procinto di lasciare la macchina vaticana nelle mani di Bertone (con cui non è mai corso grande feeling), aveva voluto mettere un proprio uomo (Pioppo era infatti all’epoca il suo segretario particolare) dentro lo Ior, per mantenere un certo potere di controllo sulla cassaforte vaticana. E sì, perché quello di “prelato dello Ior” non è affatto una carica secondaria. Nominato dalla commissione cardinalizia che ha il compito di vigilare sulle attività dell’istituto (dalla fine del 2006 presieduta appunto dal card. Bertone), funge da segretario della stessa commissione e tiene i rapporti tra essa ed il Consiglio di sovrintendenza dello Ior, il board di banchieri laici che ne seguono la gestione e che è guidato dal presidente dello stesso Ior, Ernst von Freyberg.

Il prelato dello Ior ha quindi funzioni operative dirette, ma fa parte di tutti gli organismi che contano e per statuto ha accesso a tutti i documenti bancari (e in questa veste potrà sapere molto sui circa 19mila conti correnti depositati allo Ior, ancora non tutti verificati). Nel 2010, nel pieno della lotta tra le opposte correnti dentro la Curia vaticana per il controllo dello Ior e la ridefinizione delle strategie finanziarie, Pioppo fu allontanato dal card. Bertone e nominato nunzio in Camerun e Guinea equatoriale. Da allora la carica è rimasta vacante, sino – appunto – alla nomina di mons. Ricca, che non a caso è stata annunciata dal comunicato della Sala Stampa come frutto della volontà della commissione cardinalizia di vigilanza dello Ior, di cui «il papa ha approvato la scelta». Ricca, 57 anni, era il responsabile delle case di ospitalità vaticane, compresa quindi quella di Santa Marta, dove Bergoglio risiedeva durante il Conclave e dove ha deciso di stabilirsi da papa, rifiutando l’appartamento pontificio. Lì, a Santa Marta, il papa avrebbe avuto occasione di conoscere ed apprezzare Ricca, che è un diplomatico, ha fatto il segretario di nunziatura in tanti Paesi del mondo ed è infine approdato alla Prima Sezione della Segreteria di Stato.

Uomo di fiducia del papa, quindi, ma anche esperto conoscitore della Chiesa e dei rapporti internazionali, oltre che dei meccanismi della Segreteria di Stato. In particolare della Prima Sezione, quella recentemente abbandonata per la guida della nunziatura della Colombia da un fedelissimo di Bertone, mons. Ettore Balestrero (il cui nome si dice fosse contenuto nel dossier preparato dai cardinali De Giorgi, Tomko ed Herranz per papa Benedetto XVI sugli scandali vaticani e consegnato alla fine del 2012). Ma anche quella da cui sarebbero partite le informazioni riservate che hanno dato l’avvio allo scandalo VatiLeaks (da lì proviene Claudio Scarpelletti, il tecnico informatico processato, condannato e poi graziato insieme all’assistente di camera Paolo Gabriele come gli unici responsabili della fuga di notizie). Insomma, Ricca potrebbe essere il trait d’union ideale tra il nuovo papa e i vecchi meccanismi che regolano la vita di Curia e la sua elefantiaca struttura finanziaria.

Esami in vista

Del resto, la nomina di Ricca è stata salutata dai giornali come il segno della volontà di papa Francesco di prendere in mano direttamente la questione dello Ior. E di procedere in tempi serrati ad una sua riforma (che in molti annunciano già come “rivoluzione”). La nomina di Ricca con la formula “donec aliter provideatur”, cioè “finché non si disponga diversamente” suonerebbe secondo molti commentatori come una chiara indicazione che gli organismi dirigenti dello Ior potrebbero presto non essere più quelli attuali.In ogni caso, quando la riforma verrà, non potrà che fare i conti con un colosso finanziario che ha interessi ramificati in tutto il mondo – non tutti dichiarati, non sempre confessabili – che amministra circa 7miliardi di euro, che nel 2012 ha generato profitti per 86,6 milioni di euro, dei quali 55 milioni versati direttamente nelle casse del pontefice. Così, al di là delle dichiarazioni di papa Francesco sul fatto che S. Pietro non aveva bisogno di una banca e che lo Ior è un servizio come gli altri, ma non è indispensabile, resta difficile pensare ad una rivoluzione in breve tempo. Soprattutto difficile immaginare che qualsiasi riforma possa intaccare la sostanza di interessi che hanno una enorme portata anche geopolitica, e che sono il risultato di complessi intrecci di potenti lobby e cordate finanziarie laiche ed ecclesiastiche.

Più semplice, per ora, ipotizzare una trasformazione dello Ior dallo status giuridico attuale (che ha fatto comodo a tanti, dentro e fuori le Mura Leonine) che è quello di organismo non ufficiale – e per questo motivo non tenuto a rendere pubblici i bilanci – ad ente che rientri pienamente sotto la giurisdizione diretta della Santa Sede, ad esempio attraverso la Pontificia commissione per lo Stato della Città del Vaticano (che al momento è però nelle mani di un fedelissimo di Bertone, il card. Giuseppe Bertello). Anche perché, papa Francesco a parte, all’inizio dell’autunno la Santa Sede deve presentare al Consiglio d’Europa le misure assunte per completare la procedura intrapresa da Moneyval (il comitato del Consiglio d’Europa che valuta l’aderenza agli standard internazionali antiriciclaggio dei Paesi membri) con l’obiettivo di entrare nella white list delle banche europee. Dal 9 al 14 dicembre, infatti, si terrà a Strasburgo la 43.ma assemblea plenaria di Moneyval. Il Vaticano ha chiesto di essere sottoposto a questa valutazione sin dal 2011, dopo che era entrata in vigore nello Stato di Città del Vaticano la nuova normativa antiriciclaggio. La plenaria di Moneyval, nel luglio del 2012, aveva dato un giudizio interlocutorio sulla Santa Sede (9 su 16 giudizi positivi sulle raccomandazioni key and core, quelle “chiave” e quelle “cruciali”).

A marzo Moneyval aveva accettato la proposta della stessa Santa Sede (fatta però ben prima che papa Francesco venisse eletto) di essere valutata in modo più ampio e completo di quanto previsto dalla normativa internazionale: il prossimo rapporto riguarderà dunque non solo le cosiddette Core Recommendations, ma anche tutti gli ambiti coperti da quelle che vengono chiamate Key Recommendations. Insomma, la Santa Sede sarebbe intenzionata a fornire la panoramica più completa delle misure prese nell’ultimo anno per rafforzare ulteriormente il suo assetto istituzionale nel campo della prevenzione del riciclaggio di denaro e del finanziamento del terrorismo. Prevedibile quindi che qualcosa nelle prossime settimane succeda.

La crisi avanza

Al di là del desiderio di trasparenza invocato da tanta parte della gerarchia ecclesiastica (che non si capisce però come mai abbia cominciato a risuonare intorno agli anni 2009-2010, e non invece negli anni ’70, o in quelli di Calvi, Marcinkus, De Bonis, Dardozzi, o negli anni iniziali del pontificato di Ratzinger) è chiaro che nella fase attuale lo Ior, non essendo la Santa Sede ancora riconosciuta come Paese finanziariamente affidabile all’interno dell’Unione Europea, vive tutti gli svantaggi di questa situazione di transizione. Negli ultimi anni ha perso molti partner finanziari e bancari (nel 2011 anche Unicredit, dopo che la banca aveva chiesti i dati di chi emetteva gli assegni Ior negoziati con il loro istituto), è continuamente sotto osservazione da parte degli organismi internazionale e della Banca d’Italia e ha una ridotta capacità di movimentare capitali. Al punto che la Banca d’Italia decretò a gennaio 2013 lo stop ai pagamenti tramite bancomat e carte di credito all’interno delle mura vaticane, imponendo a Deutsche Bank Italia, che aveva la gestione dei Pos (le macchinette dove “strisciare” le carte), di interrompere il servizio a causa della mancanza da parte di Deutsche Bank dell’autorizzazione necessaria per operare in Stati extra-Unione Europea, come appunto il Vaticano.

Quella vicenda (formalmente risolta già in febbraio, con l’avvicendamento tra Deutsche Bank e la svizzera Aduno) ha portato ancora con sé pesanti strascichi. Li ha raccontati Maria Antonietta Calabrò, sul Corriere della Sera (16/6), rilevando come il Vaticano abbia sempre fatto molti soldi con la vendita di francobolli e monete, specie nei periodi di “sede vacante”, che contribuiscono a dare un valore aggiunto alle emissioni. Un modo, più volte censurato da collezionisti ed economisti: se, ad esempio, l’emissione di francobolli e monete da parte del Vaticano dovesse corrispondere alle reali necessità della circolazione e della corrispondenza, le Poste Vaticane potrebbero anche chiudere; e la zecca italiana smettere di coniare per il Vaticano. In realtà la maggior parte delle monete (per non dire delle medaglie commemorative) e dei francobolli servono solo alla gioia di numismatici e filatelici (o a quella degli ecclesiastici che riescono ad intercettare le nuove emissioni prima degli altri, per poi rivenderle a prezzo maggiorato). Con questo sistema la Santa Sede rimpingua da decenni le sue casse. Ma da tempo gli ordini per i francobolli e le monete vaticane avvengono per quasi la metà on line con l’acquisto grazie all’uso delle carte di credito. E dalla fine di febbraio, quando Benedetto XVI ha reso effettive le sue dimissioni, Calabrò ha rilevato che, sebbene i pos fossero stati riattivati, erano comunque ancora non funzionanti i pagamenti online. Con gravi danni per l’acquisto di francobolli e monete, ma anche dei biglietti di musei, visite guidate, libri d’arte, ecc. Il danno per le casse vaticane è stato enorme, forse anche di decine di milioni di euro.

Scenari possibili

Più probabile che sullo Ior ci si limiti ad una serie di aggiustamenti e ad una nuova serie di nomine. Ignazio Ingrao su Panorama (16/6) fa uno scenario che appare realistico, ipotizzando che la potente lobby dei Cavalieri di Colombo, che ha avuto un peso determinante (attraverso il voto di molti cardinali del Continente americano) nell’elezione di papa Francesco, voglia prendersi la presidenza dello Ior, approfittando del fatto che la nomina di von Freyberg (che è invece il referente in Germania di un’altra potentissima lobby ecclesiastica e finanziaria, quella dei Cavalieri di Malta) sia stato nominato ai vertici dello Ior da papa Benedetto XVI quando era già dimissionario. Le polemiche sulla presidenza dei cantieri navali Blohm Voss Group che costruisce anche navi da guerra non fanno buona pubblicità a von Freyberg, né lo rendono la figura più adatta a guidare l’era pauperistico-mediatica inaugurata da Bergoglio.Fu il potente capo dei Cavalieri di Colombo è Carl Anderson, colui che con Bertone realizzò la campagna di discredito e poi il siluramento di Ettore Gotti Tedeschi dalla presidenza dello Ior. Il suo uomo di fiducia è l’avvocato californiano Jeff Lena, vicino – racconta Ingrao – all’assessore alla Segreteria di Stato, monsignor Brian Wells. Lena, rileva Panorama, è colui che nella battaglia contro Gotti Tedeschi, ha voluto con sé l’avvocato torinese Michele Briamonte, dello studio Grande Stevens, ora indagato dalla Procura di Siena e da quella di Roma per insider trading e riciclaggio.

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Dalla commissione pontificia sullo IOR non c’è da aspettarsi molto

Ludovica Eugenio
Adista Notizie n. 25 del 06/07/2013

I media hanno riportato in termini euforici la notizia della nomina, da parte di papa Francesco, della commissione di controllo dello Ior – creata per portare avanti una riforma della banca – ma in realtà non c’è molto di cui essere entusiasti: l’approccio è il solito, tradizionale approccio vaticano, consistente nel nominare membri del clero «senza alcuna esperienza nel settore in questione, cui viene chiesto di presentarsi alla fine con un rapporto». La severa critica proviene dal gesuita statunitense p. Thomas Reese, già direttore del settimanale Usa della compagnia di Gesù, America, costretto alle dimissioni da papa Ratzinger nel 2005 per la sua apertura su temi ecclesiali scottanti (v. Adista nn. 37 e 40/05) e finora docente al Woodstock Theological Center di Washington, di recente assoldato come opinionista del settimanale National Catholic Reporter.

Scusate, da questo pontificato ci aspettiamo di più», scrive Reese in un commento del 27/6. Già, perché «la commissione voluta dal papa avrebbe dovuto essere composta da persone esperte in materia bancaria, vale a dire contabili, direttori bancari, inquirenti del governo e moderatori. Quanti, in questa commissione, hanno idea di che cosa sia la contabilità forense? Per una commissione del genere servono preti. Passare al vaglio una banca non è roba da dilettanti».

Questo punto di vista, Reese ne è consapevole, è ampiamente minoritario. L’unica soluzione seria al problema dell’“opacità” della banca vaticana, secondo il gesuita, è la decisione presa a suo tempo da Benedetto XVI di far osservare allo Ior gli standard previsti dall’agenzia europea antiriciclaggio, Moneyval: «Lo scorso luglio – ricoda Reese – Moneyval ha prodotto il suo primo resoconto e ha dichiarato che “la Santa Sede ha fatto molta strada in poco tempo”. Ha certificato che il Vaticano ha soddisfatto 9 dei 16 requisiti fondamentali e ha detto ciò che andava ancora fatto. Moneyval farà un’altra revisione l’anno prossimo per vedere se il Vaticano ha fatto passi avanti. Una revisione periodica da parte di esperti esterni è l’unico modo in cui può essere garantita una riforma delle finanze vaticane». Evidentemente, quando si tratta della banca vaticana, Reese ripone «più fiducia in Moneyval che in una commissione pontificia qualsiasi».

Ma non è tutto. Sotto Ratzinger almeno sono stati fatti entrare degli esperti esterni laici. Lo scorso settembre, è stato ingaggiato come consulente in Vaticano Rene Brulhart, avvocato internazionale svizzero, vicepresidente della rete Egmont Group, che raccoglie Unità di Intelligence Finanziaria nazionali incaricate di mettere insieme e analizzare informazioni su attività finanziarie sospette. Brulhart ha già alle spalle una rigorosa pulizia del sistema bancario del Lichtenstein. Ora, nella veste di direttore dell’Authority di Intelligence finanziaria del Vaticano, Brulhart ha fatto le sue ricerche su attività sospette all’interno dello Ior e ne ha fatto rapporto alle autorità vaticane, affinché vengano presi provvedimenti penali. Nel frattempo, spiega Reese, il nuovo presidente dello Ior, Ernst von Freyberg, ha promesso di pubblicare per la prima volta un report annuale. Certo, è la conclusione del gesuita, «i problemi della banca vaticana sono ben lungi dall’essere risolti, ma sta già molto meglio di prima. È necessaria una vigilanza costante per evitare arretramenti, ma da questa commissione pontificia non aspettiamoci un granché».