Questione linguistica?

Alberto Signori
www.riforma.it

Spesso da queste pagine si è affrontato il disorientamento che alcuni possono provare – in materia di spiritualità – nell’approdare alle chiese riformate provenendo dal cattolicesimo e/o da una variegata gamma di esperienze, abitudini e soprattutto motivazioni, sia personali sia, anche se non sempre, familiari. Talvolta ci si è concentrati su un piano più soggettivo, come con il concetto tutto emotivo della «mancanza» (cfr. «Mi manca tanto quella spiritualità… », in Riforma del 23 aprile 2010). Forse, però, è possibile affrontare lo stesso tema anche da punti di vista più oggettivi, a esempio tentando un parallelo tra fede e spiritualità da un lato, lingua e cultura dall’altro.

Tralasciando le ragioni (sostanziali) che spingerebbero le persone in questione a compiere quella determinata transizione, soffermiamoci per un istante a sondare lo strato superficiale delle loro pratiche (formali) di fede: quando un adulto diventa protestante, dopo aver praticato, appunto, la fede per molti anni secondo regole e usi consolidati e correlati a un’altra cultura (nella nostra ipotesi, quella cattolica), all’inizio non riscontra forse le stesse difficoltà che esperiamo tutti quando impariamo una nuova lingua? In altre parole, la conversione di un adulto non è una questione anche linguistica?

La drammaturga Agota Kristof (1935-2011) è nata in Ungheria ma dopo esserne fuggita nel ‘56 ha scritto tutte le sue opere in francese, una lingua cui approda solo da adulta. L’ungherese è la sua lingua materna, la lingua della Heimat: «All’inizio non c’era che una sola lingua. Gli oggetti, le cose, i sentimenti, i colori, i sogni, le lettere, i libri, i giornali erano quella lingua» (A. Kristof, L’analfabeta), ma il francese è la lingua della letteratura, una lingua non scelta ma «imposta dal caso, dalle circostanze», che rappresenta una sfida: «so che non riuscirò mai a scrivere come scrivono gli scrittori francesi di nascita. Ma scriverò come meglio potrò».

Senza soffermarsi troppo su questo excursus, però, e sapendo che abbracciare una nuova confessione da adulti è, invece, una questione di chiamata, di scelta e non casuale (a differenza della lingua francese nella biografia della Kristof), si può affermare che il dilemma posto, forse, rimane simile: come rapportarsi in lingua «protestante» con Dio se la propria lingua madre è un’altra, ad esempio il «cattolico»?

Tutti noi, apprendendo un nuovo idioma, ci siamo sentiti frustrati di fronte a concetti propri della nostra lingua madre difficilmente esprimibili. Ma se nella nuova lingua a mancare fossero degli interi costrutti o delle intere funzioni linguistiche? E se fosse così per molti dei cattolici che in età adulta decidono di abbracciare il protestantesimo e si ritrovano a fare i conti con una spiritualità che oltre a generare un po’ di mancanza crea anche delle eventuali disfunzioni linguistiche? E se significanti e significati non fossero più allineati? Quanto può emergere, naturalmente, non sarebbe vero per tutti gli ex-cattolici, ma forse per alcuni di loro.

Ciò premesso, a esempio, soffermiamoci su tre aspetti formali (ma a mio avviso rilevanti, sul piano simbolico, per la religiosità cattolica): la preghiera ripetitiva, l’uso diverso del corpo nella preghiera (anche in ginocchio) e l’esistenza per essa di uno spazio principe (la chiesa). Sono questi alcuni degli elementi che forse potrebbero marcare maggiormente queste possibili disfunzioni. Nell’immaginario protestante, infatti, la ripetizione di preghiere è una vuota prassi meccanica, l’inginocchiarsi è scomparso, mentre considerare la chiesa come il luogo di preghiera per eccellenza può essere visto come retaggio di quella «superstizione» che la considera uno spazio sacro. Ma per il protestante acquisito, nato cattolico, un Padre Nostro ripetuto più volte (come anche la Didaché prescrive, tre volte al giorno) può essere un modo come un altro per dialogare con Dio, l’inginocchiarsi è anche un modo per raccogliersi in preghiera con maggiore intensità, mentre la chiesa sempre aperta dove pregare, forse, è uno spazio non sacro, ma prezioso, nel cuore della città, riparato dai rumori dove è più facile ascoltare quello che il Signore vuole dirci (si veda a questo proposito l’esperienza dell’Espace Fusterie della chiesa protestante di Ginevra).

Per quanto riguarda la preghiera, a esempio, la mediazione sembra meno problematica del previsto. Se le differenze stratificatesi nei secoli tra cattolici e protestanti sono difficilmente colmabili, Lutero (Il Padre Nostro spiegato ai semplici laici) – pur sostenendo che l’opposizione da fare è tra preghiera spirituale e verace da una parte, preghiera meccanica e apparente dall’altra – già non chiudeva totalmente alla preghiera ripetitiva, parlando di quella esteriore ma fatta «con la meditazione del cuore: allora si passa dall’esteriore all’interiore. Anzi, la verità interiore erompe e risplende nell’apparenza esteriore».

Possiamo allora liquidare come «retaggio del passato» ciò che per fratelli provenienti da altre culture è un costrutto ben ancorato a un sistema simbolico consolidato? Come tenere presenti gli eventuali fabbisogni degli ex-cattolici – così numerosi nelle nostre comunità – che deriverebbero da questo insieme di segni e simboli? Come far convivere – qualora se ne sentisse la necessità – modalità che siano profondamente protestanti ma familiari al tempo stesso con altre più ortodosse? Con quali strumenti?

Certo è che se rivolgiamo lo sguardo al patrimonio comune (e sostanziale: a esempio, la Scrittura, il credo Niceno-Costantinopolitano, contributi teologici comuni) alle due culture di riferimento, ci rendiamo conto che, invece, le differenze di cui parliamo – e da tenere comunque in considerazione – sembrano quelle non tra due lingue vere e proprie, ma tra semplici linguaggi o meglio ancora tra inflessioni, cadenze, accenti di diversa provenienza. E che ben ancorati a Cristo e alla Scrittura, le distanze scompaiono. Oltre ogni coloritura di accento.