La Teologia della liberazione, la Teologia del popolo, papa Bergoglio

Roberto Rivosecchi
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Papa Bergoglio, mai tenero nei confronti della Teologia della Liberazione, ne ha già scritto l’epitaffio: “Dopo il crollo del socialismo reale queste correnti di pensiero sono sprofondate nello sconcerto. Incapaci, sia di una riformulazione radicale, che di una nuova creatività”. Altri ne hanno sancito a chiare lettere la morte o comunque l’archiviazione, anche se gloriosa, quale contributo storico alla evoluzione socioculturale, non solo dei popoli latinoamericani, ma della intera umanità. In realtà, soffocata dal Vaticano di Wojtyla e Ratzinger, covava sotto la cenere. Tanto che i suoi fermenti, più vitali che mai, stanno riapparendo in sembianze diverse, più al passo coi tempi.

Se la liberazione a Medellin era vincolata agli aspetti economici e politici, oggi la riflessione teologica in chiave liberatrice coinvolge altre dimensioni e altri spazi, quale laboratorio di idee e speranze da cui le stesse chiese cristiane dell’occidente possono trarre nuova linfa. Al seguito della globalizzazione la riflessione si allarga infatti alle discriminazioni di carattere culturale, di genere, di razza, di orientamento sessuale. Ma anche all’ambiente e al pluralismo religioso. Quella teologia, che richiamava a una precisa responsabilità storica davanti alle situazioni di ingiustizia, ha prodotto a cascata tante sensibilità liberatrici che, un po’ come il nuovo Papa, dalle periferie muovono verso il centro, in qualche modo lasciando impronta di sé. Il Dio dei Cieli cala nella ecologia, nel femminismo, nei popoli indi, neri, nella evangelizzazione delle culture e soprattutto nei rapporti fra le religioni.

Ma tutto il percorso da Medellin, 1968, ad Aparecida, 2007, passando per Puebla, 1979, è sempre all’insegna della scelta preferenziale per i poveri. A Puebla però si comincia a distinguere tra analisi storico-culturale e socio strutturale, quest’ultima invisa ai benpensanti laici e religiosi per il pericolo sempre incombente della conflittualità tra le classi sociali. Ad Aparecida, ultima Conferenza generale dell’episcopato latino americano, si consuma la frattura definitiva. Della Teologia della Liberazione non si può accettare il metodo di indagine: l’approccio del “vedere-giudicare-agire”, preso a prestito dal movimento della “Jeunesse ouvrière” francese, che ispirerà la “Mater et Magistra” di Giovanni XXIII ed il movimento dei preti operai, non poteva non risultare indigesto ai signori della economia e della politica, ma anche della Chiesa, tanto più se preconciliare.

Se il “vedere”, “la povertà devastante flagello”, era comune, sul “giudicare” la povertà, che “non è frutto del caso, ma di determinate situazioni e strutture economiche, sociali e politiche”, insorgevano conflittualità, che poi diventavano insanabili nella terza fase dell’ “agire”. Tutti ritenevano i poveri soggetto teologico preminente nella azione pastorale, ma i fautori della liberazione estendevano l’”agire” alla realtà da soccorrere. Il Regno dei Cieli era di questa terra e voleva risultati immediati. Non si può pensare alla salvezza se questa non include prima una liberazione dalle contingenze materiali. I critici, maggioritari ad Aparecida, con Bergoglio in veste di relatore finale, sostenevano invece la natura pedagogica del rapporto dei poveri con Dio. Come Dio rivolge le sue attenzioni ai poveri, così la Chiesa, facendo propria la loro cultura e spiritualità e a partire dalle loro sofferenze, è impegnata ad “aiutare tutta la comunità a costruire risposte di solidarietà nella dimensione della partecipazione e della condivisione” (Paolo VI alle Caritas diocesane nel 1972).

Un Regno di Dio che teorizza una Chiesa povera per i poveri. Nella immersione totale nella povertà, al livello della affettività e dei sentimenti, non c’è tempo per una parola decisa di denuncia contro il sistema. L’impegno è a rifuggire la lotta di classe, in una dottrina sociale cattolica che deve invece conciliarsi con le presunte virtù del liberismo. C’è il pericolo che l’immersione finisca col ridursi ad un approccio verticale alla povertà, che non dà autoconsapevolezza ai diretti interessati, né va ad investigare le ragioni per la fase dell’“agire”. Il teologo della Liberazione Juan Luis Segundo riassume: la teologia uscita vincente da Aparecida risulta un fenomeno incapace di promuovere un qualsiasi cambiamento. Un ostacolo al progresso. Opinioni controverse. Un po’ come il giudizio sulle Beatitudini: “Beati i poveri..gli afflitti..gli affamati..”. Per alcuni, che lasciano tutto come sta, privilegio in vista di una ricompensa celeste. Per altri ricerca del superamento di quelle situazioni di svantaggio. Il primo caso sembra definire la religione quale “Oppio dei popoli”, il secondo come chiaro impegno a favore dell’uomo.

In Argentina questa teologia, che vede sempre e comunque i poveri come elemento teologico fondamentale, ma che rifiuta, non solo gli eccessi, ma ogni minima sembianza di analisi marxista, prenderà una caratterizzazione specifica e nazionale. Sin dal 500 a fianco del cattolicesimo controriformista e conservatore, che caratterizzava la Chiesa istituzionale, era sorto un movimento di ispirazione religiosa che si faceva carico dei bisogni popolari, vedi Indios espropriati della terra o neri importati come schiavi. Figura emblematica Bartolomè de las Casas, impegnato nella denuncia del sistema di sfruttamento, che porterà Carlo V a promulgare le “Leggi Nuove” con le quali venivano abolite le “encomiendas”, strutture organizzative agricole fondate su un sistema schiavistico-feudale. Una tradizione dunque di cattolicesimo popolare era ben radicata da sempre.

Solide basi di una Teologia, che, nel fermento rivoluzionario di un Continente oppresso e sfruttato, sulle orme del Vaticano II, non potrà che sfociare nelle istanze di “liberazione”. In Argentina però questi fermenti ed aspirazioni trovavano già la loro sublimazione nel peronismo, che, seppur in modo populista e strumentale, della emancipazione e della giustizia sociale aveva fatto da sempre il suo cavallo di battaglia. Dall’attribuire le responsabilità della difficile situazione economica interna alla invasione capitalistica straniera, nasceva la necessità della integrazione e del consenso delle masse popolari. Il popolo-nazione diventa l’antagonista dell’imperialismo delle multinazionali e della finanza internazionale.

La sua tradizione il nucleo di una prassi argentina di liberazione, sentita come esigenza nel vivere quotidiano, ma in un appello costante all’unità, da cui viene esclusa ogni critica interna antisistema. I padri della teologia argentina, quali Lucio Gera e Juan Carlos Scannone, avranno buon gioco nel richiamarsi alla religiosità comune, dove l’incontro del Verbo evangelico con la cultura popolare aveva trovato il terreno più fertile. Qui si caratterizza la “Teologia del popolo”, che, già dalla Conferenza episcopale di Medellin, prende una prospettiva propria ed originale. Non si utilizzano gli strumenti della ricerca colta, ma il senso comune, il richiamo alla saggezza popolare di cui elementi fondanti sono la fede e la reciproca comprensione affettiva.

Sulla strada dei suoi maestri, Bergoglio va più in là: quella fede e quell’amore devono essere messi al servizio di tutta la comunità e devono connotare comportamenti che creino cittadinanza. Lo sguardo della fede ci fa vedere l’altro come un concittadino, in ciò divenendo “sguardo civico”. Agire da buoni cittadini migliora la fede. Ma conseguentemente se ne può ricavare che è la fede a connotare i buoni cittadini. Dice l’allora Arcivescovo di Buenos Aires: forse abbiamo trovato il modo per superare il relativismo, la piaga dei nostri giorni causa di ogni regresso antropologico. Si può commentare: dal rifuggire il relativismo non derivano certamente contribuiti alla laicità dello Stato, le appartenenze religiose condizionando così pesantemente i confini della cittadinanza.

Sembrano ancora forti i vissuti giovanili di un peronismo che cooptava la religione in un percorso da terza via, rifiuto del comunismo e del capitalismo, e in un progetto di autonomia terzomondista, cui si rifanno tuttora certe contemporanee teorizzazioni di “Patria Grande”, quando fanno confluire i destini dei popoli sudamericani nella cattolicità. La Chiesa si compenetra nello spazio pubblico e reclama la piena autonomia nei confronti dello Stato. Ma, più che autonomia, sembra un senso di superiorità nel richiamo al diritto naturale della “Lettera ai Romani”, in cui Paolo ci ammonisce sull’origine divina del potere. Tanto che, nel conflitto con la Kirchner, a chi gli faceva notare che lei era la “Presidenta”, Bergoglio alzava la voce: “E io sono l’Arcivescovo”.

Ai tempi della dittatura quella Chiesa invece taceva, quasi evocando il realizzarsi di un intervento provvidenziale a difesa dei valori cristiani. E di recente ha di nuovo parlato a sostegno delle leggi di ”riconciliazione” con i torturatori, proposte a più riprese dai governi Alfonsin e Menem, con i quali è stata legata in un dissennato programma liberista di privatizzazioni, che ha finito col generare una grave crisi economica e col penalizzare i meno abbienti. Mentre la pastorale delle “Villas miserias” avrebbe dovuto orientare verso altre vie. Ma in Argentina le contraddizioni del peronismo hanno segnato un po’ tutti. Così tratti caratteristici della Teologia del Popolo, quali l’irenica collaborazione tra le classi e una più equa distribuzione della ricchezza, che si attenderebbe dalla presa di coscienza e dalla responsabilità sociale di chi detiene il potere, sembrano lasciti di un non troppo lontano passato “justicialista”.

Bergoglio, all’unisono con la Teologia del Popolo, conferma e consolida il primato dell’azione, che deve confluire nella cultura dell’incontro e del dialogo, anche qui strumenti al conseguimento dell’unità. Acritica o cooptata, sembra andar bene lo stesso. Il richiamo alla legge naturale e alla lotta al relativismo sostanziano sempre il suo pensiero e la sua azione pastorale. Le posizioni che ne derivano sul piano dei diritti civili e delle conquiste laiche vengono inevitabilmente a confliggere con l’evoluzione dei tempi e con i governi democratici più recenti , anche loro peronisti, ma della frangia radicale e progressista. Siamo alla difesa dei “valori non negoziabili” tanto cara alla Curia romana, con vertici da terrorismo religioso. In particolare quando, nella dichiarazione congiunta dei vescovi ad Aparecida, presidente Bergoglio, (punto 436), si arriva a vietare la Comunione a quanti, legislatori, governanti ed operatori sanitari, favoriscano l’aborto, l’eutanasia e altri gravi delitti contro la famiglia.

O quando nella lettera alle carmelitane della capitale, in occasione della proposta di legge per legalizzare le unioni omosessuali e la conseguente possibilità di adozione, si richiama l’attenzione su Santa Teresina, che frequentemente richiama l’invidia del demonio. Anche qui il demonio è pieno di invidia e si dà da fare contro il disegno di Dio che vuole una bella famiglia dalla armonia eterosessuale, come previsto da sempre in natura. Cristina Fernandez de Kirchner, attuale presidente, risponde sottolineando come non si voglia minacciare alcun ordine naturale, in quanto si sta legiferando su una realtà che esiste già ed è ben consolidata.

Al solito, corollario di questa ortodossia dottrinale non può essere che l’educazione cattolica, cui va dato sostegno, appoggio e per la quale sono stati richiesti e ottenuti i fondi necessari dal governo argentino. La regressione antropologica, causata da una civilizzazione moderna che confligge con l’evangelizzazione, deve essere superata col ripartire da certezze elementari, prima fra tutte l’educazione, questo tipo di educazione, che sa tanto di scuola privata confessionale. Per Bergoglio si tratta di una lotta senza quartiere al “Progresismo adolescente”: del colonialismo culturale della globalizzazione prendiamo, come gli adolescenti, i valori più accattivanti.

L’entusiasmo per questo tipo di progresso, che trasmette una concezione dello Stato intrisa di laicismo e relativismo, si ritorce contro i popoli e le nazioni, tutti identificati nell’identità cattolica. Occorre ritornare ai valori di una civilizzazione originaria, che si intravedono nella teologia del Popolo o nel poema epico nazionale “Martin Fierro”. Ovviamente non alla prima versione che vede il gaucho rifiutare la civiltà, ma alla seconda in cui il gaucho protagonista non è più un barbaro, ma un Martin Fierro civilizzato dai “valori”: la sedentarizzazione, la scuola, il diritto. Un quadro giuridico di riferimento che assicuri anche i suoi diritti. Ovviamente, in questo quadro giuridico per il recupero dalla barbarie, la Chiesa gioca il ruolo determinante.

Un Bergoglio dunque integralista e conservatore in dottrina e nella morale, ma anche progressista nel sociale. Dalla parte del popolo, speriamo non alla Peron. Ma, come Peron, sarà tirato per la tonaca in molteplici direzioni con esiti diversi.

Il suo progressismo sociale, il suo vero amore per i poveri, il voler condividere la povertà, ma anche le sue famose tre “p”(pazienza, perseveranza, prudenza), potranno aprire nuove prospettive in Vaticano, mentre il suo conservatorismo, ad esempio sui cosiddetti “valori non negoziabili”, potrebbe determinare staticità od involuzione. Ma c’è di più. Al di là dei clamori di consenso, con Leonardo Boff, teologo della Liberazione, a chiamare in causa la primavera, c’è un timore che percorre l’America latina delle “liberazioni”: la possibilità che il richiamo al suo conservatorismo possa dare consistenza alle strategie di ripristino di un passato non più riproponibile attraverso giunte militari, ma facilmente rianimabile all’insegna di una Chiesa tradizionalista, da sempre ostile a quelle “liberazioni”. Una specie di riedizione della vicenda Wojtyla? Dipenderà da quale parte della tonaca verrà tirato.