L’annunciatore che diviene l’annunciato. Un libro sul rapporto tra Gesù e Paolo di V.Gigante

Valerio Gigante
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Su questo tema – il rapporto cioè tra Gesù e Paolo di Tarso – capitale ed imprescindibile resta lo studio di Giuseppe Barbaglio, compianto teologo e biblista morto nel 2007. In Gesù di Nazareth e Paolo di Tarso – Confronto storico, Barbaglio evidenzia che se dal punto di vista cronologico la distanza di Paolo da Gesù era solo di pochi anni, quella sociale, culturale, teologica è invece di gran lunga più ampia di quanto si possa immaginare. E di quanto gli studi biblici e storici avessero sino a quel momento rilevato. L’uno, infatti, viveva ed attraversava i villaggi della Giudea e della Galilea; l’altro, frequentava i grandi centri dell’antichità; Gesù parlava l’aramaico, Paolo il greco, la lingua del cosmopolitismo ellenico; Gesù si esprimeva attraverso una cultura orale fatta di incontri, convivialità, opere, predicazione; Paolo dà inizio alla letteratura cristiana. È quindi ovvio, per Barbaglio, che nel raccontarlo al mondo Paolo non si sia appiattito su Gesù, anche se non se ne è distanziato al punto da ignorarne o mistificarne la figura storica.

Sulla scia di questo affascinante e complesso rapporto dialettico, determinante per capire l’origine del cristianesimo ma anche per ritrovare l’essenza stessa del messaggio di Gesù (se questo è ancora possibile…), al di là delle superfetazioni successive alla sua morte, si muove anche l’ultimo libro di don Luciano Scaccaglia, appassionato parroco-teologo di Parma, da anni animatore della comunità di S. Cristina, ma parroco anche di S. Antonio Abate.

Il suo libro (che nel titolo cita una celebre espressione del teologo evangelico Rudolf Karl Bultmann), Il rapporto tra Gesù e Paolo. L’annunciatore è diventato l’annunciato (2013, 10 euro: il volume si può richiedere direttamente alla parrocchia di S. Cristina, tel. 0521/238953; e-mail: luciano.scaccaglia@virgilio.it. I proventi finanzieranno la casa di accoglienza per immigrati che ha sede presso la parrocchia stessa), racconta il percorso che va da Dio al suo Regno tramite Gesù, ma analizza anche il rapporto tra l’insegnamento di Gesù ed il maggiore dei suoi interpreti, Paolo appunto.

Un tema che, come scrive Vito Mancuso nella prefazione al testo, «porta diritto e direi implacabilmente al problema più delicato del cristianesimo, intendendo con cristianesimo la costruzione dottrinale che a partire dall’esperienza di Gesù si è andata elaborando lungo i secoli».

«Mentre con Lutero cinque secoli fa – spiega infatti Mancuso – si produce una divisione tra Nuovo Testamento e Chiesa, a partire dalla fine del Settecento la divisione si produce all’interno dello stesso Nuovo Testamento, tra Gesù e i suoi discepoli; tra lo scopo di Gesù (rinnovare la religione di Israele) e lo scopo dei suoi discepoli (fondare una nuova religione), due prospettive giudicate tra loro radicalmente diverse». Soprattutto, secondo Mancuso (e anche secondo don Luciano), sul tema della redenzione. Paolo lo lega alla theologia crucis, ma – si chiede Mancuso – «la redenzione è veramente la modalità mediante cui Gesù di Nazareth (Yeoshua ben Yosef) concepisce la salvezza, oppure si tratta di una costruzione successiva di Paolo, poi da lui confluita in parte anche nella redazione dei Vangeli?». Anche perché nei Vangeli vi sono testi lontani dalla teologia paolina, e «che presentano una concezione diversa della salvezza, più legata alle opere liberamente poste che non a un evento esterno, e che rispecchiano una concezione più vicina a quella ebraica tradizionale, anzi, del tutto analoga a quella ebraica tradizionale», come Matteo 25,31-46. Se, insomma, per Paolo «Gesù non conta in quanto uomo libero, con le sue idee e la sua personalità, conta solo in quanto vittima, “strumento di espiazione” (hilastérion, si legge in Rm 3,25)» (e infatti Paolo «non cita quasi mai il Gesù storico»); per Gesù le cose stavano diversamente, e dal testo del Padre Nostro (altro testo che Paolo non cita mai) «si apprende che per lui l’azione di Dio verso gli uomini dipende dall’azione degli uomini verso i loro simili» (“rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”).

Mancuso (ma non è certo il primo) arriva ad ipotizzare la manipolazione stessa e l’interpolazione delle parole di Gesù con testi frutto di riflessioni successive alla sua testimonianza terrena (del resto, la ricerca delle ipsissima verba travaglia da decenni storici, filologi e teologi), come la frase riportata da Matteo 20,28, «Il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire, e per dare la vita in riscatto per molti», dove a Mancuso pare che l’ultima parte del versetto («dare la vita in riscatto per molti») sia stata messa sulla bocca di Gesù «dietro l’influsso della teologia paolina», ma che lui non l’abbia mai effettivamente pronunciata. Certo, è difficile mettere un punto fermo su questioni come l’autenticità di questa o quella espressione attribuita a Gesù (sarà mai possibile?), ma Mancuso sostiene di avere argomenti a favore della sua tesi: se Gesù avesse infatti affermato la sua volontà di dare la vita per molti, «non avrebbe senso il suo grido di abbandono con il quale morì sulla croce». Anziché dire «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato», egli avrebbe dovuto piuttosto dire «tutto è compiuto», «come appunto dirà Gesù nel quarto Vangelo, il meno plausibile dal punto di vista storico, il più distante da Yeoshua ben Yosef, il più costruito dalla tradizione successiva».

Per tutte le ragioni spiegate da Mancuso è allora particolarmente interessante lo studio condotto da don Scaccaglia, che parte dalla biografia dei due protagonisti, per accennare poi alla loro formazione culturale, passando poi alla scottante e radicale questione della relazione tra Gesù e Cristo, cioè tra il modo con cui il figlio di Giuseppe presentava se stesso e come Paolo lo presenterà poi al mondo. Con quale coerenza rispetto al Gesù storico è appunto il compito che Scaccaglia cerca di affrontare nel suo studio, assieme a quello, strettamente connesso, della salvezza-redenzione di Gesù. Nella parte finale del testo si parla dell’immagine di Dio che appare dallo studio comparato di Gesù e Paolo, della loro idea di comunità – diversa ma complementare, sostiene Scaccaglia – e dalla comunità si passa all’idea stessa di Chiesa (meglio: di ekklesía, con tutte le sfumature che nel mondo greco questa parola porta con sé), che Paolo sviluppa come societas che costituisce il corpo di Cristo, con carismi e compiti diversi, contraddistinta dalla solidarietà, anche economica, tra i suoi membri. Ancorato alle fonti ed al rigore del biblista e del teologo, don Luciano Scaccaglia – coerentemente al suo impegno pastorale – ribadisce anche la sua visione della fede intesa come realtà fortemente incarnata nelle vicende umane, di un movimento – quello iniziato da Gesù – che ha anche una prospettiva sociale e politica: «Si pone infatti dalla parte dei peccatori, degli ultimi e dei poveri, per liberarli da ogni tipo di schiavitù».