Bergoglio lava più bianco. La rivoluzione a parole di papa Francesco di V.Gigante

Valerio Gigante
www.micromega.net

I fatidici 100 giorni sono trascorsi, l’enciclica a “quattro mani” (ma con una sola una firma) è uscita, la visita a Lampedusa è terminata. E mentre il viaggio in Brasile è in svolgimento, giornali e riviste si sono già ampiamente scatenati nel tracciare un primo bilancio del pontificato di Francesco. Quello che maggiormente sorprende in questa prima fase di permanenza alla guida della Chiesa di José Mario Bergoglio è il coro pressoché unanime di consensi che l’ex arcivescovo di Buenos Aires sta raccogliendo, da destra a sinistra, nel mondo cattolico come in quello laico.

Se si escludono i soliti mugugni dell’estrema destra cattolica, tutti, dai progressisti ai conservatori, dai laici ai cattolici, dagli esperti di cose vaticane fino alle persone che chiacchierano al bar, considerano questo papa una sorta di straordinario miracolo, il grande riformatore che rinnoverà completamente la Chiesa e le sue strutture. Sull’Espresso tempo fa Sandro Magister ha parlato dell’«incantesimo di papa Francesco», della sua capacità, cioè, di mietere unanimi, entusiastici consensi. Ed in effetti non c’è gesto o parola di questo pontefice che non venga amplificata a dismisura, definita un evento di portata storica, una novità assoluta, una rivoluzione, una “svolta epocale”. Di fronte a tale enorme entusiasmo, proporre una lettura critica, o anche solo dubitativa del pontificato di papa Francesco appare difficile, se non impossibile.

Eppure è proprio del mestiere del giornalista andare nelle pieghe dei fatti, dei personaggi, analizzare le dinamiche per rilevare le contraddizioni ed i nodi eventualmente irrisolti e portarli poi all’attenzione ed alla riflessione di chi legge, piuttosto che limitarsi ad amplificare – non sempre con il doveroso distacco che dovrebbe caratterizzare la professione – ciò che è già sotto gli occhi di tutti. Così, se è comprensibile – seppure non giustificabile – che i giornali cattolici abbiano si siano prodotti in entusiastici “osanna” e peana nei confronti di Bergoglio, assai meno lo è che lo abbia fatto la stampa laica, che dovrebbe avere sui fatti religiosi un occhio un tantino più disincantato, se non proprio vigile e critico.

Lavoro per un settimanale, Adista, che da anni svolge una funzione di informazione-controinformazione su Chiesa e politica, un osservatorio laico sui fatti religiosi che ha sempre costituito un punto di riferimento per chi, da una prospettiva progressista, credente ma senza essere clericale o “chiesastica”, è impegnato per un rinnovamento profondo delle strutture ecclesiastiche e dei rapporti tra la Chiesa ed il potere mondano. I nostri lettori sono stati quindi abituati ad un approccio assolutamente non apologetico nei confronti dei pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Sulle nostre pagine abbiamo pubblicato tanti documenti di teologi e vescovi che criticavano la teologia tradizionalista e la pastorale conservatrice dei due ultimi papi, l’indulgenza nei confronti di governi discutibili quando non esecrabili, i legami del Vaticano e dello Ior con i poteri economico-finanziari, gli intrecci tra gli uomini di Curia e le lobby intra ed extra ecclesiastiche. Ma quando abbiamo scritto del passato di Bergoglio all’epoca della dittatura in Argentina, quando abbiamo messo in evidenza le contraddizioni dei suoi primi atti di governo, in diversi ci hanno scritto delusi ed a volte indignati. Quasi avessimo “tradito” quel sogno di rivoluzione ecclesiale, di francescanesimo realizzato che per anni avevano coltivato e che ora volevano vedere incarnato nella figura di Bergoglio. E noi a sporcare questo idillio, per fare i bastian contrari a tutti i costi, cercare il pelo nell’uovo, insinuare sempre e comunque che il potere è brutto e cattivo.

In realtà non si tratta di avere un pre-giudizio, sul papa o su chiunque altro. È anzi comprensibile il clima di entusiasmo e speranza che le prime parole ed i primi gesti di Bergoglio hanno suscitato in tanti credenti. Ma a chi scrive non compete essere supporter di nessuno, men che meno di chi ha un ruolo istituzionale, connesso ad un potere e ad una capacità di enorme influenza sulle masse.

E allora, prima di entrare nel merito dell’attuale pontificato, vale forse la pena spendere qualche parola per capire il perché di un così diffuso e clamoroso successo del papa presso l’opinione pubblica. Certo, va fatta la necessaria tara all’entusiasmo che sempre accompagna l’elezione di un papa. Ma i mesi passano, e le udienze del mercoledì restano affollatissime, le colonne dei giornali piene delle parole e dei gesti del papa, la simpatia ed il calore che lo accompagnano Bergoglio sono visibili, palpabili. C’è, insomma, dell’altro oltre al fascino per la novità venuta “quasi dalla fine del mondo”.

Una prima spiegazione sta forse nel linguaggio di papa Francesco. Si tratta nella maggior parte dei casi di discorsi a braccio, che danno l’impressione di evitare formalismi e cerimoniali tipici di una gerarchia ingessata ed incapace di mettersi in sintonia con le folle cattoliche, ma cui pure papa Raztinger era assai affezionato come forma di sacralizzazione del suo ministero. Il papa attuale comunica invece con un linguaggio alla portata di tutti, dice frasi di piccola filosofia spicciola, utilizza un’oratoria colloquiale, imperniata su immagini o metafore di immediata presa comunicativa.

Al di là dell’apparente immediatezza e spontaneità, quella di Bergoglio pare in realtà una retorica assolutamente non improvvisata ed anzi molto studiata. Le metafore e le immagini utilizzate sono di notevole impatto ed efficacia comunicativa. Come quando papa Francesco parla di «Chiesa babysitter» (17 aprile) per stigmatizzare una Chiesa che solo «cura il bambino per farlo addormentare», invece che agire come una madre con i suoi figli; o di “Dio spray” (18 aprile) per mettere in guardia dall’idea di un Dio non cristianamente connotato, che va bene per ogni situazione (salvo poi partecipare alla kermesse per eccellenza del “Dio spray”: quella Giornata Mondiale della Gioventù che continua a riempire le piazze di effimeri entusiasmi mentre le chiese ed i seminari continuano a svuotarsi); o quella dei “cristiani satelliti”, usata il 20 aprile per bollare quei cristiani che si fanno dettare la condotta dal “senso comune” e dalla “prudenza mondana”, invece che da Gesù. Nell’omelia del Giovedì Santo, ha esortato i pastori della Chiesa, vescovi e preti, a prendere «l’odore delle pecore».

Da tutti questi esempi, oltre la grande abilità comunicativa, emerge uno sfondo teologico ed ecclesiale molto diverso da quello che aveva connotato il pontificato di Ratzinger. I pastori sono pastori e le pecore sono, appunto, gregge da guidare, il cristianesimo deve evitare ogni sincretismo religioso ed indulgenza nei confronti della cultura contemporanea, la secolarizzazione, i suoi valori, il suo relativismo vanno combattuti senza esitazione. Il diavolo esiste (e il papa lo cita in continuazione) e si annida nelle pieghe della realtà che ci circonda. Insomma, nella sostanza, non sembra essere cambiato molto rispetto a Benedetto XVI.

Semmai, rispetto al papa-teologo, l’immaginario religioso di Bergoglio è intriso di un devozionismo molto tradizionale e popolare, simile a quello tardo ottocentesco (un periodo non a caso in cui la Chiesa cercava di recuperare terreno presso le masse, “distratte” da anarchia, socialismo, scientismo, materialismo) fatto di madonnine oleografiche, di Gesù zuccherosi, indulgenze plenarie (nuovamente concessa a tutti i partecipanti alla Gmg brasiliana) e fervorini contro il demonio. E di una Chiesa che resta l’unica solida guida per i credenti e l’unico strumento di salvezza. Il 12 aprile, ad esempio, parlando alla pontificia commissione biblica, papa Francesco ha ribadito che “l’interpretazione delle Sacre Scritture non può essere soltanto uno sforzo scientifico individuale, ma dev’essere sempre confrontata, inserita e autenticata dalla tradizione vivente della Chiesa”. Il 22 aprile, in un’altra omelia mattutina, ha detto con forza che Gesù è «l’unica porta» per entrare nel Regno di Dio e «tutti gli altri sentieri sono ingannevoli, non sono veri, sono falsi». Il giorno dopo, nell’omelia della messa con i cardinali nella Cappella Paolina per la festa di S. Giorgio, ha detto che «l’identità cristiana è un’appartenenza alla Chiesa, perché trovare Gesù fuori della Chiesa non è possibile».

Per non parlare dell’enciclica Lumen fidei, scritta in gran parte da Ratzinger, ma firmata da Francesco: un testo costruito nella contrapposizione tra fede cristiana e mondo moderno, nella polemica contro il relativismo, finalizzata ad ancorare la ricerca teologica all’obbedienza al Magistero. Insomma, il testo che doveva essere insieme il testamento spirituale di Ratzinger e il programma pastorale di Bergoglio, finisce per rivelare, come ha sottolineato Vito Mancuso su Repubblica (6/7) «al di là di differenze contingenti, la totale consonanza dottrinale con papa Benedetto sulle cose fondamentali quali la fede e la morale». Altrimenti l’enciclica poteva restare nel cassetto (non fu così per quella di Pio XI sul nazismo e l’antisemitismo, che il successore, XII, si guardò bene dal pubblicare?), oppure l’enciclica poteva portare (con un gesto certamente inedito, ma che da un papa come Francesco ci si poteva anche attendere) la doppia firma, quella del papa regnante e quella del vescovo emerito di Roma.

Anche sul versante delle donne, non pare che da papa Francesco ci sia da attendersi grandi sorprese: «Siate madri, non zitelle», ha detto Francesco alle 800 suore convocate all’assemblea dell’Unione delle superiori generali l’8 maggio scorso. La castità, ha spiegato, deve essere «feconda», generatrice, come insegna la figura di Maria Madre. «Che cosa sarebbe la Chiesa senza di voi? Le mancherebbe maternità, affetto, tenerezza, intuizione di madre!». Insomma, le suore come indispensabili procreatrici spirituali, curatrici di corpi e anime altrui. Dal punto di vista teologico, la semplice riedizione del ruolo materno celebrato attraverso la figura della mamma acrobata che concilia casa e lavoro. Ma che non deve rinunciare all’accudimento dei figli come funzione che ne caratterizza la dimensione “naturale”, oltre che sociale.

Cambia la forma, non la sostanza

Insomma, alla fine di questa rapida analisi si può concludere che se i contenuti di papa Francesco non sono diversi dai suoi predecessori, il modo di comunicarli quello sì, è radicalmente diverso.
In questa sua enorme capacità comunicativa Bergoglio appare simile al Wojtyla pope-star, quello che agitava la mani, ritmava i canti assieme ai giovani che assiepavano gli stadi delle Gmg, parlava in romanesco al clero romano, celebrava messe negli stadi e faceva continui bagni di folla. Ma a differenza di quest’ultimo l’attuale pontefice ha un’arma in più: riesce ad avere un rapporto quasi personale con la folla. Bergoglio ha iniziato la sera stessa della sua elezione, salutando con un semplice «buonasera», chiedendo alla folla di benedirlo (così almeno hanno detto tv e giornali: in realtà, in modo assai meno rivoluzionario, ha semplicemente chiesto ai fedeli di pregare affinché Dio facesse scendere sul papa la sua benedizione, prima che fosse il papa stesso ad impartire la sua, Urbi et Orbi), presentandosi semplicemente come il «vescovo di Roma» (poi però se si va a guardare sull’Annuario Pontificio pubblicato due mesi dopo i titoli tradizionalmente attribuiti capo della Chiesa cattolica ci sono tutti: «Successore del Principe degli Apostoli, Sommo Pontefice della Chiesa universale, Primate d’Italia, Arcivescovo e Metropolita della Provincia Romana, Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, Servo dei Servi di Dio»).

Al “Regina Coeli” di domenica 21 aprile, ha risposto alla folla che lo acclamava: «Grazie tante per il saluto, ma anche salutate Gesù. Gridate ‘Gesù’ forte!». Con la conseguenza che il grido “Gesù, Gesù” si è levato immediato ed altissimo da piazza San Pietro. Più in generale, quando è in mezzo alla gente, sembra capace di un rapporto diretto ed immediato con le persone. Anche all’interno di eventi collettivi, sembra cioè capace di interloquire con i singoli, ad avere una parola, un abbraccio, un gesto particolare per ciascuno. Rompe l’anonimato dei raduni di massa con piccoli e accurati “fuori programma” (conversazioni, battute, gesti di quotidianità, carezze, abbracci) che danno la sensazione di un papa che individua e cerca proprio te, in mezzo a tanti. E questo colpisce indubbiamente molto i fedeli. Ma anche i media che continuamente rilanciano le immagini del papa vicino ad un malato, con in braccio un bimbo, che parla di aspetti quotidiani della vita con qualcuno dei fedeli che riesce ad avvicinarlo, che parte per il Brasile con una borsa in mano (fatto di per sé insignificante, ma che i media di tutto il mondo hanno trasformato in un evento), che augura “buon pranzo” alla fine dell’Angelus domenicale. Che saluta, sorride e gesticola come una persona qualunque.

Denunce a perdere

Quando invece parla, i temi affrontati dai discorsi di papa Francesco sono ispirati a concetti molto generici: la misericordia, il perdono, i poveri, le “periferie”, gli esclusi dal sistema, i poteri finanziari che schiacciano la dignità umana, l’amore e l’egoismo (una delle frasi più ricorrenti del papa è «non fatevi rubare la speranze»: l’espressione – la cui vaghezza è evidente a tutti – si ritrova anche nell’enciclica Lumen fidei). Mancano sempre i nomi, le circostanze, i responsabili. Cioè tutti quegli elementi che contribuirebbero a dare forza e profezia alle parole di un vescovo, quello di Roma in particolare. E questo vale anche per la visita del papa a Lampedusa, dove alla grande attenzione per le vittime non ha fatto da pendant quella nei confronti dei loro “carnefici”, cioè delle leggi e delle scelte governative italiane ed europee (legge Turco-Napolitano, legge Bossi-fini, respingimenti, sostegno a dittatori e autocrati nordafricani ed asiatici di ogni tipo, guerre e sfruttamento economico), che hanno consentito che il Mediterraneo divenisse un cimitero di disperati.

Ma ad un papa non spetta fare questo tipo di denunce, si dirà. Giusto, se questo valesse anche per i temi su cui la Chiesa è sempre intervenuta direttamente e pesantemente nella vita politica, lanciando su questioni come i matrimoni gay, la fecondazione assistita, i “diritti” dell’embrione, il divorzio breve, l’aborto, l’eutanasia, ed il testamento biologico anatemi e scomuniche di ogni tipo. Lo stesso Bergoglio, quando era arcivescovo di Buenos Aires ha parlato di aborto ed eutanasia come di «crimini abominevoli», dei movimenti pro-choice come di organizzazioni che promuovono una «cultura della morte»; si è opposto alla distribuzione gratuita di contraccettivi nel suo Paese, all’insegnamento dell’educazione sessuale nelle scuole, all’adozione da parte di coppie omosessuali, alla legge che nel 2010 fu varata dal governo per legalizzare i matrimoni gay, definita un provvedimento «ispirato dall’invidia del diavolo», «un attacco devastante ai piani di Dio», divenendo il punto di riferimento delle manifestazioni a favore della famiglia e del matrimonio tra uomo e donna che si susseguirono tra la primavera e l’estate del 2010.

In quei casi le denunce furono circostanziate e puntuali.. Sui poveri, gli sfruttati, i derelitti, i perseguitati, invece, solo generiche critiche al “sistema” che produce marginalità e disperazione.
Eppure nella storia della Chiesa è accaduto spesso che preti e vescovi denunciassero i meccanismi reali di esclusione e miseria. Senza voler citare il caso di Romero, finito vittima di un sicario al soldo del leader del partito nazionalista conservatore Roberto D’Aubuisson, e ucciso mentre celebrava messa, si potrebbe citare il recente caso del vescovo di Nola, mons. Beniamino Depalma, che si è apertamente e concretamente dalla parte di chi sta lottando per i propri diritti sindacali, presentandosi lo scorso 15 giugno davanti ai cancelli dello stabilimento di Pomigliano d’Arco (Napoli), in occasione della protesta contro due sabati di recupero lavorativo, susciti la dure reazione dei dirigenti della Fiat, che hanno sostenuto che il vescovo si è collocato «dalla parte dei violenti e prevaricatori».

Senza nomi e cognomi, i discorsi restano, inevitabilmente, delle prediche buoniste e ireniche, che muovono e commuovono le coscienze, ma che hanno scarsa o nessuna incidenza nelle dinamiche dei processi reali. E infatti, non risulta al momento che nessuno dei “poteri forti” chiamati quasi quotidianamente in causa da Bergoglio abbia mai veramente reagito in alle generiche critiche papali, a parte qualche infastidita ed estemporanea dichiarazione di pochi leghisti ed esponenti del centrodestra dopo la visita papale a Lampedusa. Senza fare nomi o accuse ai politici o ai governanti, poteva il papa decidere di stanziare una parte dell’8 per mille (più di quella misera parte – circa il 20% – attualmente destinata dalla Chiesa alle opere di carità) a favore dei migranti e delle strutture che si occupano di loro? Poteva mettere a disposizione una minima parte dell’immenso (circa un quinto degli edifici esistenti, solo in Italia) patrimonio immobiliare italiano che la Chiesa possiede per l’accoglienza di una parte di questi disperati? Poteva, e senza grandi difficoltà, ma non l’ha fatto.

Più in generale, il papa che paga il conto dell’albergo dove ha alloggiato per il Conclave, che ha deciso di rinunciare all’appartamento papale, che gira senza l’auto blindata e che si richiama continuamente alla sobrietà ed alla povertà come condizione indispensabile per la Chiesa, poteva – solo per restare in ambito italiano (il dramma di Lampedusa si consuma infatti nel nostro Paese) – chiedere di rinegoziare il Concordato o almeno qualcuno dei privilegi di cui gode la Chiesa (che dal 1999 non paga allo Stato italiano nemmeno la fornitura di acqua, che ammonta a circa 5milioni di metri cubi l’anno) come l’ampia esenzione dal pagamento dell’Imu; il pagamento a carico dei contribuenti dei docenti di religione cattolica, dei cappellani militari, delle carceri, ospedalieri; l’8 per mille garantito anche per quella parte di gettito che proviene dalle quote non espresse (cioè da coloro che non hanno barrato alcuna casella nella dichiarazione dei redditi, ma i cui soldi vengono ugualmente ripartiti tra lo Stato e le confessioni religiose in maniere proporzionale alle quote espresse); contributi statali alle scuole cattoliche ed all’editoria cattolica; finanziamenti pubblici a parrocchie, oratori e scuole materne; esenzioni per Ires e canone tv; benefits per lo Stato della Città del Vaticano ed i suoi cittadini, ecc. ecc.?

Più in generale, allargando la questione dalla Chiesa italiana a quella universale, poteva il papa decidere di utilizzare una piccola parte dei 55milioni di euro che ogni anni lo Ior stanzia a favore del bilancio della Santa Sede a favore di poveri e migranti, o di utilizzare a questo scopo una parte dei proventi delle speculazioni finanziarie su valute, azioni ed obbligazioni che da diversi anni tengono in attivo i conti della Santa Sede?Il papa poteva farlo. Ma, almeno finora, non l’ha fatto.

La “rivoluzione” a parole

Certo, questo papa – contrariamente al suo predecessore – è stato finora attentissimo a non lanciarsi in anatemi espliciti contro la modernità, la secolarizzazione, le coppie di fatto, la ricerca scientifica, l’Europa scristianizzata. A tentare di accontentare tutti, annunciando la canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II (e anche quella del successore di Escrivà de Balaguer alla guida dell’Opus Dei, Álvaro del Portillo…). Ma la linea della Chiesa, come dimostra l’enciclica Lumen fidei, resta la stessa. Ed anche per quanto riguarda la necessaria riforma dell’istituzione ecclesiastica, da molti invocata ed implicitamente promessa dall’avvento di un papa dal nome così impegnativo, per ora è accaduto poco o nulla.

La Curia è sempre lì, in testa il segretario di Stato. Se qualcosa cambierà allo Ior sarà per le pressioni che da anni la comunità internazionale sta facendo sul Vaticano affinché si adegui agli standard europei sull’antiriciclaggio (e che se hanno consentito finora enormi vantaggi stanno però restringendo sempre più il campo dei partner bancari a cui il Vaticano può affidarsi, come il caso del blocco del servizio bancomat gestito da Deutsche Bank all’interno delle Mura Leonine all’inizio del 2013 ha dimostrato). Anche sul campo dottrinario nulla sembra profilarsi di particolarmente nuovo all’orizzonte. Il 15 aprile, il papa ha confermato la linea severa della congregazione per la dottrina della fede nel trattare il caso delle suore degli Stati Uniti riunite nella Leadership Conference of Women Religious, messe sotto inchiesta dal Vaticano per la loro pastorale troppo liberal.

Tutti ricordano il caso del cardinale scozzese Keith Patrick O’Brien, arcivescovo emerito di St. Andrews ed Edinburgo, che aveva ammesso le sue responsabilità nello scandalo sulle molestie sessuali che lo aveva coinvolto e che per questo motivo era stato indotto dalle pressioni dell’opinione pubblica a rinunciare a partecipare al Conclave. Ebbene, a metà maggio il papa ha condannato O’Brien – udite udite – ad un esilio di qualche mese del cardinale in un luogo di preghiera e di penitenza. Come ha scritto Francesco Merlo su Repubblica (17/5) «sembra un rimbrotto burbero, una tirata d’orecchie complice che solo in Italia è ruffianamente raccontata come un giro di vite papale, una tolleranza zero della Chiesa verso gli abusi sessuali dei sacerdoti». Un provvedimento simile a quello preso da Ratzinger nei confronti del fondatore dei Legionari di Cristo Maciel, indotto nel 2006 a ritirarsi dalle sue cariche all’interno della sua potente congregazione ed a fare penitenza. Niente scomuniche allora, niente nel caso di O’Brien. E niente dimissioni – per l’uno come per l’altro – dallo stato clericale. Nonostante i gravissimi crimini.

Ma dal punto di vista del marketing, anche sul fronte pedofilia il papa si è mosso benissimo. E mentre della risibile punizione ad O’Brien nessuna o quasi ha detto nulla, tutti hanno parlato all’inizio di luglio della «rivoluzione nella legislazione vaticana», «l’ennesimo strappo di papa Francesco»: in pratica, l’abolizione dell’ergastolo (quanti ergastolani ci sono nella Città del Vaticano?), la ridefinizione, con relativo inasprimento di pene, di alcuni reati come la vendita di minori, la prostituzione minorile, la violenza sessuale su minori, gli atti sessuali su minore, la pedopornografia, la detenzione di materiale pornografico, arruolamento di minore. Più altre norme per chi attenta alla sicurezza, agli interessi fondamentali o al patrimonio della Santa Sede, modificate in relazione alla Convenzione delle Nazioni Unite del 2003 contro la corruzione. Tutti provvedimenti che riguardano ovviamente solo i delitti commessi nella Città del Vaticano o negli uffici di Curia (oltre alle nunziature ed al personale diplomatico) e che sono peraltro in parte adeguamenti alle Convenzioni internazionali richiesti proprio da quell’organismo, Moneyval, dal quale ormai da diversi anni il Vaticano si aspetta di poter essere ammesso nella white list dei Paesi finanziariamente “virtuosi”.

La collegialità del potere

Ma, si potrebbe eccepire, questo papa sta lavorando per fare della Chiesa una istituzione più collegiale. In questo senso andrebbe la nomina degli otto cardinali come suoi «super-consulenti» per assisterlo nel governo della Chiesa e nel progetto di riforma della Curia romana, definita unanimemente una «svolta epocale», una «rivoluzione», anche da diversi studiosi ed osservatori di questioni ecclesiastiche e di storia della Chiesa. Se lo storico Giuseppe Ruggieri ha già chiarito che la nomina di consiglieri per la riforma della Curia «riprende un istituto tradizionale della Chiesa» risalente «già al primo millennio» e tutt’ora esistente nella Chiesa ortodossa orientale (intervistato dall’Ansa il 13 aprile scorso), ancora non sono del tutto chiare le reali competenze dei cardinali nominati e sui poteri che il nuovo organismo potrà effettivamente esercitare, al di là del suo ruolo consultivo. Inoltre diversi commentatori hanno fatto notare che il nuovo organismo, che pure il papa ha voluto rappresentativo dei cinque continenti, è però composto di soli cardinali, senza preti, vescovi, laici e donne (nemmeno se suore).

Infine la biografia degli ecclesiastici nominati da Bergoglio non sono certo inattaccabili. Dal cardinale Oscar Andres Rodríguez Maradiaga (peraltro grande amico di Bergoglio) che ha sostenuto il golpe che nel giugno 2009 portò alla deposizione del presidente dell’Honduras Manuel Zelaya, al cardinale “bertoniano di ferro” Giuseppe Bertello. C’è poi il segretario della commissione mons. Marcello Semeraro, al centro di molte polemiche nella sua diocesi, quella di Albano, come nel 2007, quando tre suore missionarie di Santa Gemma, inviate dalla loro superiora nella diocesi retta da Semeraro per essere impiegate nei servizi della catechesi e della pastorale giovanile nella parrocchia dei Santi Pietro e Paolo di Aprilia, furono da lui cacciate per non aver accettato di fare da colf a due anziani sacerdoti presenti nella parrocchia (800 euro al mese, da dividere in tre…). E poi c’è la storia di p. Marco Agostini, prete pedofilo nei confronti del quale nel maggio 2006 la Procura di Velletri – che aveva appena ottenuto dal Gip la misura cautelare – chiese alla Curia di poter avere le informazioni raccolte dalle autorità ecclesiastiche. Semeraro disse no, appellandosi all’articolo 4 comma 4 del Concordato, secondo il quale gli ecclesiastici non sono tenuti a dare a magistrati o ad altra autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministero. Non c’era obbligo, ma nemmeno divieto. Eppure Semeraro preferì non collaborare.

Membro della commissione è inoltre il cileno Francisco Javier Errázuriz Ossa che nel 2006 celebrò i funerali religiosi di Pinochet («Che Dio lo perdoni e tenga conto di ciò che ha fatto di buono», disse) e propose al governo, nel 2010, l’indulto generalizzato, in nome del “perdono cristiano”, per i militari sostenitori della dittatura. E che fu anche accusato di avere cercato di insabbiare le indagini su uno dei casi di violenza sessuale più tristemente conosciuti in Cile, quello su James Hamilton, che ha subìto abusi sessuali per oltre venti anni da parte di p. Fernando Karadima, prete con un forte carisma presso i giovani dell’élite di Santiago del Cile. Last but not least, l’australiano George Pell, arcivescovo di Sydney, ultraconservatore, tra i cardinali che hanno scelto di celebrare la messa con rito tridentino, implicato tra l’altro nella vicenda di un prete della diocesi di Ballarat, 120 chilometri ad ovest di Melbourne, Gerald Francis Ridsdale, condannato a 19 anni di carcere per aver abusato di decine di bambini. Quando il 27 maggio 1993, il tribunale di Melbourne aprì un processo a carico di Ridsdale per aggressione sessuale ai danni di nove ragazzi, il prete venne accompagnato in tribunale e sostenuto proprio da George Pell, che nel frattempo era divenuto vescovo ausiliare di Melbourne. «Ho vissuto con lui – disse Pell nel 1996, dopo la condanna definitiva – ma sulla sua condotta non circolava nemmeno un sospetto». Tuttavia, il processo del 1994 provò che Ridsdale era stato inviato dai suoi superiori da uno psicologo già nel 1971, e che era stato spostato da una parrocchia all’altra a causa delle denunce arrivate in Curia.

Almeno dal punto di vista delle varietà delle presenze, la Commissione sullo ior (3 ecclesiastici e 2 laici, fra cui una donna) e quella sulla finanza vaticana (1 ecclesiastico e 7 laici, fra cui una donna), recentemente istituite dal papa, parrebbero meglio rappresentare la pluralità della Chiesa. Salvo che la composizione delle commissioni – come sottolinea anche Ignazio Ingrao su Panorama (27/6) rispecchia proprio quei conflitti intestini all’interno delle lobby economico finanziarie interne alla Chiesa che dovrebbero essere l’oggetto della riforma papale: la Pontificia Commissione sullo Ior vede infatti al suo interno una componente statunitense (con l’assessore monsignor Peter Brian Wells e la professoressa Mary Ann Glendon) che sostiene i Cavalieri di Colombo (di cui è massima espressione è Carl Anderson cavaliere supremo dei Cavalieri di Colombo, nel board dello Ior e principale artefice della defenestrazione dell’ex presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi) e una francese (rappresentata in Commissione dal cardinale Jean-Louis Tauran, che invece sostiene i Cavalieri di Malta (dei cui interessi è massimo garante l’attuale presidente dello Ior, Ernst von Freyberg). Insieme a loro, con il ruolo di coordinatore (è colui che fisicamente si recherà allo Ior per l’acquisizione di documenti) anche il vescovo spagnolo Juan Ignacio Arrieta Ochoa de Chinchetru, membro dell’Opus Dei. Di area Opus Dei sono anche Francesca Immacolata Chaouqui e Lucio Angel Vallejo Balda, membri della commissione di inchiesta sulle finanze vaticane.

Provvisorie conclusioni

Va bene, si potrebbe infine obiettare, ma questo papa che va a Lampedusa e parla dei poveri sarà pur sempre meglio di chi lo ha preceduto, vestito di ermellino e chiuso nella sua impenetrabile fortezza teologica, sempre pronto a lanciare strali contro chi a suo avviso assedia la cittadella fortificata della fede. È vero, se non fosse che – fino a prova contraria sempre possibile, seppure improbabile –pauperismo e «francescanesimo a puntate» (come in una canzone di De André) sembrano più funzionali ad una gigantesca operazione di marketing piuttosto che ad una reale riforma delle strutture della Chiesa.

Insomma, per l’emorragia di fedeli (nei Paesi dove esistono sistemi diversi dall’8 per mille, ciò corrisponde a minori introiti per le Chiese nazionali), di offerte (il bilancio vaticano lamenta da tre esercizi il calo a livello mondiale dell’Obolo di S. Pietro, le offerte che in tutto il mondo si raccolgono in favore della carità del papa, il 29 giugno), di vocazioni, di credibilità, l’arrivo di papa Francesco ha costituito finora un’ottima operazione. Per i divorziati risposati, i gay credenti, i laici, le donne, per tutti coloro che si battono per una maggiore collegialità nella Chiesa, per la libertà di parola e di opinione, di ricerca teologica e di azione pastorale, per coloro che desiderano una riforma che cambi strutture e classe dirigente, ecco, per tutti loro certamente un po’ meno.

(24 luglio 2013)