La storia e la teologia estiva di Scalfari

Paolo Naso, coordinatore della Commissione studi della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI)
Nev-notizie evangeliche 34/13

Dispiace e preoccupa che uno dei quotidiani più autorevoli e noti all’estero qual è La Repubblica, e per di più a firma del suo fondatore nonché decano dei giornalisti italiani, concluda un articolo dedicato a papa Bergoglio e alle novità di cui si fa portatore con poche righe che lasciano interdetti.

Nel corpo dell’articolo di Eugenio Scalfari (“Le domande di un non credente al papa gesuita chiamato Francesco” del 7 agosto), egli afferma che “non c’è mai stato un papa che abbia inalberato il vessillo della povertà, non c’è mai stato un papa che non abbia gestito il potere, che non abbia difeso, rafforzato, amato il potere “, per concludere che un papa che predica la Chiesa povera è “un miracolo che fa bene al mondo”.

E pertanto – questa la profezia di Scalfari – “non ci sarà un Francesco II”. In effetti i primi mesi di Bergoglio in Vaticano hanno destato più di qualche sorpresa e non stupisce che molti non credenti come Scalfari mostrino interesse, curiosità e persino ammirazione per un papa che insiste nel definirsi “vescovo di Roma”, che abita in una foresteria, che sa rinunciare al giudizio – “se uno è gay e cerca il Signore, chi sono io per giudicarlo? – che sa pregare con un pastore pentecostale sia in Brasile che in Vaticano, dove questa essenziale pratica ecumenica sembra essere assai più difficile e problematica.

Quello che non capiamo è perché un non credente debba preoccuparsi che “una Chiesa povera, che bandisca il potere e smantelli gli strumenti di potere” diventi “irrilevante”, come – è sempre lo Scalfari pensiero – è “accaduto con Lutero” e le “sette luterane” che “continuano a moltiplicarsi”. Il rispetto che si deve a un’icona del giornalismo non può impedirci di dire che si tratta di affermazioni incoerenti, prive di un minimo di fondamento e segnate da un linguaggio grossolano e del tutto improprio per una testata come La Repubblica.

“Sette luterane” è espressione impronunciabile, figlia di una cultura controriformista, preconciliare e del tutto estranea alla sociologia religiosa di oggi. E poi, come si tiene il giudizio sulla irrilevanza del luteranesimo che avrebbe bandito il potere – giudizio azzardato e supponente che non regge alla più superficiale lettura dei testi del padre della Riforma – col fatto che le “sette luterane sono migliaia e continuano a moltiplicarsi”?

Il problema è logico, non teologico, ed è sconcertante che un raffinato intellettuale si abbandoni a affermazioni così grossier che si possono – a fatica – concedere sotto l’ombrellone ma che suonano intollerabili sulle colonne di un giornale che tanto peso ha nella costruzione dell’opinione pubblica italiana e di quella “laica” in particolare. Un incidente di percorso? Una frase dal sen fuggita? Una “provocazione culturale”, come si ama dire oggi? Niente di tutto questo, a nostro modesto avviso.

Quella di Scalfari è affermazione che esprime perfettamente l’habitus intellettuale di gran parte della cultura “laica” italiana: una cultura che, proprio perché non conosce Lutero e tanto meno Calvino – se non per la mediazione che ne ha fatto la polemica cattolica anti protestante preconciliare – identifica la Chiesa cattolica con il cristianesimo, confonde il potere ecclesiastico con la missione evangelica, ignora che la laicità è compatibile con la fede e aborrisce una pratica cristiana costruita sulla responsabilità individuale del credente piuttosto che sul principio di autorità.

La discussione non è accademica né ideologica: non comprendere il ruolo della Riforma nella modernità significa non comprendere fino in fondo il portato della modernità, il nuovo orizzonte di libertà che essa ha aperto a chi crede, a chi non crede, a chi crede in termini non convenzionali. La debolezza radicale della cultura laica italiana è in questa aporia cognitiva che ha poche eccezioni. Lo stato dell’etica e della res publica italica dicono chiaramente quali ne siano gli effetti

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Le domande di un non credente al papa gesuita chiamato Francesco

Eugenio Scalfari
La repubblica, 7 agosto 2013

Papa Francesco è stato eletto al soglio petrino da pochissimi mesi ma continua a dare scandalo ogni giorno. Per come veste, per dove abita, per quello che dice, per quello che decide. Scandalo, ma benefico, tonificante, innovativo.

Con i giornalisti parla poco, anzi non parla affatto, il circo mediatico non fa per lui, non è nei suoi gusti, ma il suo dialogo con la gente è continuo, collettivo e individuale, ascolta, domanda, risponde, arriva nei luoghi più disparati ed ha sempre un testo da leggere tra le mani ma subito lo butta via. Improvvisa senza sforzo alcuno a cielo aperto o in una chiesa, in una capanna di pescatori o sulla spiaggia di Copacabana, nel salone delle udienze o dalla “papamobile” che fende dolcemente la folla dei fedeli.

È buono come Papa Giovanni, affascina la gente come Wojtyla, è cresciuto tra i gesuiti, ha scelto di chiamarsi Francesco perché vuole la Chiesa del poverello di Assisi. Infine: è candido come una colomba ma furbo come una volpe. Tutti ne scrivono, tutti lo guardano ammirati e tutti, presbiteri e laici, uomini e donne, giovani e vecchi, credenti e non credenti aspettano di vedere che cosa farà il giorno dopo.
Di politica non si occupa, non l’ha mai fatto né in Argentina da vescovo né dal Vaticano da papa. Criticò Videla sistematicamente, ma non per l’orribile dittatura da lui instaurata ma perché non provvedeva ad aiutare i poveri, i deboli, i bisognosi. Alla fine il governo, per liberarsi di quella voce fastidiosa, mise a sua disposizione una struttura assistenziale fino a quel momento inerte e lui abbandonò la
sua diocesi ad un vicario e cominciò a battere tutto il paese come un missionario, ma non per convertire bensì per aiutare, educare, infondere speranza e carità.

Due mesi fa ha pubblicato un’enciclica sulla fede, un testo già scritto dal suo predecessore con il quale convive senza alcun imbarazzo a poche centinaia di metri di distanza. Ha ritoccato in pochi punti quel testo e l’ha firmato e reso pubblico.

L’enciclica è alquanto innovativa rispetto ad altre sullo stesso tema emesse dai suoi predecessori. La novità sta nel fatto che non si occupa del rapporto tra fede e ragione. Non esclude affatto che quel rapporto ci sia, ma a lui (e a Benedetto XVI) interessa la grazia che promana dal Signore e scende sui fedeli. La grazia coincide con la fede e la fede con la carità, l’amore per il prossimo, che è il solo modo – attenzione: il solo modo – di amare il Signore. Si sente il profumo intellettuale di Agostino. Più di Agostino che di Paolo. Ma qui andiamo già nel difficile. Si dovrebbe pensare che siano tre i Santi di riferimento per l’attuale Vescovo di Roma (che insiste molto su questa qualifica che accompagna e addirittura precede il titolo pontificale): Agostino, Ignazio, Francesco.

Ma è quest’ultimo che dà al Papa che ne ha preso il nome il connotato più evidente e da lui sottolineato in ogni occasione. Vuole una Chiesa povera che predichi il valore della povertà; una Chiesa militante e missionaria, una Chiesa pastorale, una Chiesa costruita a somiglianza di un Dio misericordioso, che non giudica ma perdona, che cerchi la pecora smarrita, che accolga il figliol prodigo.

Certo, la Chiesa cattolica è anche un’istituzione, ma l’istituzione, come la vede Francesco, è una struttura di servizio, come l’intendenza di un esercito rispetto alle truppe combattenti. L’intendenza segue, non precede. E così siano l’istituzione, la Curia, la Segreteria di Stato, la Banca, il Governatorato del Vaticano, le Congregazioni, i Nunzi e i Tribunali, tutta l’immensa e immensamente complessa architettura che tiene in piedi da duemila anni la Chiesa, Sposa di Cristo.

Questo, finora, è stato il volto della Chiesa. La pastoralità? Certo, un bene prezioso. La Chiesa predicante? La Chiesa missionaria? La Chiesa povera? Certo, la vera sostanza che l’istituzione contiene come un gioiello prezioso dentro una scatola d’acciaio.

Ma attenzione: per duemila anni la Chiesa ha parlato, ha deciso, ha agito come istituzione. Non c’è mai stato un papa che abbia inalberato il vessillo della povertà, non c’è mai stato un papa che non abbia gestito il potere, che non abbia difeso, rafforzato, amato il potere, non c’è mai stato un papa che abbia sentito come proprio il pensiero e il comportamento del poverello di Assisi. E non c’è mai stata, se non nei casi di debolezza e di agitazione, una Chiesa orizzontale invece che verticale. In duemila anni di storia la chiesa cattolica ha indetto 21 Concili ecumenici, per lo più addensati tra il III e il V secolo dell’era cristiana e tra il IX e il XIII. Dal Concilio di Trento passarono più di trecent’anni fino al Vaticano I preceduto dal Sillabo e poi ne passarono ottanta fino al Vaticano II.

I Sinodi sono stati ovviamente molto più numerosi, ma tutti indetti e guidati dalla Curia e dal Papa.

Il cardinale Martini (vedi caso anch’egli gesuita) voleva accanto al magistero del Papa la struttura orizzontale dei Concili e dei Sinodi dei vescovi, delle Conferenze episcopali e della pastoralità. Non fu amato a Roma, come Bergoglio nel conclave che terminò con l’elezione di Ratzinger.

Bergoglio ama anche lui la struttura orizzontale. La sua missione contiene insomma due scandalose novità: la Chiesa povera di Francesco, la Chiesa orizzontale di Martini. E una terza: un Dio che non giudica ma perdona. Non c’è dannazione, non c’è Inferno. Forse Purgatorio? Sicuramente pentimento come condizione per il perdono. «Chi sono io per giudicare i gay o i divorziati che cercano Dio?» così Bergoglio.

Vorrei però a questo punto porgli qualche domanda. Non credo risponderà, ma qui ed oggi non sono un giornalista, sono un non credente che è da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth, figlio di Maria e di Giuseppe, ebreo della stirpe di David. Ho una cultura illuminista e non cerco Dio. Penso che Dio sia un’invenzione consolatoria e affascinate della mente degli uomini.
Ebbene, è in questa veste che mi permetto di porre a Papa Francesco qualche domanda e di aggiungere qualche mia riflessione.
Prima domanda: se una persona non ha fede né la cerca, ma commette quello che per la Chiesa è un peccato, sarà perdonato dal Dio cristiano?

Seconda domanda: il credente crede nella verità rivelata, il non credente pensa che non esista alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma una serie di verità relative e soggettive. Questo modo di pensare per la Chiesa è un errore o un peccato?

Terza domanda: Papa Francesco ha detto durante il suo viaggio in Brasile che anche la nostra specie perirà come tutte le cose che hanno un inizio e una fine. Anch’io penso allo stesso modo, ma penso anche che con la scomparsa della nostra specie scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio e che quindi, quando la nostra specie scomparirà, allora scomparirà anche Dio perché nessuno sarà più in grado di pensarlo. Il Papa ha certamente una sua risposta a questo tema e a me piacerebbe molto conoscerla.

Ed ora una riflessione. Credo che il Papa, che predica la Chiesa povera, sia un miracolo che fa bene al mondo. Ma credo anche che non ci sarà un Francesco II. Una Chiesa povera, che bandisca il potere e smantelli gli strumenti di potere, diventerebbe irrilevante. È accaduto con Lutero ed oggi le sette luterane sono

migliaia e continuano a moltiplicarsi. Non hanno impedito la laicizzazione anzi ne hanno favorito l’espansione. La Chiesa cattolica, piena di difetti e di peccati, ha resistito ed è anzi forte perché non ha rinunciato al potere. Ai non credenti come me Francesco piace molto, anzi moltissimo, come pure Francesco d’Assisi e Gesù di Nazareth. Ma non credo che Gesù sarebbe diventato Cristo senza un San Paolo.

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Le risposte di un protestante a Eugenio Scalfari

Peter Ciaccio
www.vociprotestanti.it, 8 agosto 2013

Stimato fondatore di Repubblica, dottor Eugenio Scalfari,

ho letto con sorpresa la sua lettera a papa Francesco, lettera che contiene nell’ultima parte domande interessanti da parte di un non credente a un credente. Pur non essendo io né il papa né cattolico, ma pastore delle chiese valdesi e metodiste in servizio a Palermo, raccolgo la sfida di risponderle.

Prima domanda: se una persona non ha fede né la cerca, ma commette quello che per la Chiesa è un peccato, sarà perdonato dal Dio cristiano?

Il peccato non è un atto sbagliato o l’omissione di un atto giusto, ma il loro presupposto. Ecco perché il solo desiderio di peccare (Esodo 20,17) rivela il nostro status di peccatori. Il peccato è il muro che separa il Creatore dalle sue creature e queste ultime tra loro: l’unico in grado di abbatterlo è Gesù Cristo. Come la risurrezione di Cristo non è stato un privilegio riservato al classico “figlio di papà”, così la sua azione riconciliatrice non riguarda solo i cristiani. La differenza tra chi crede e chi non crede in questo è nella consapevolezza del dono ricevuto. La rivoluzione di Lutero fu nel rispondere alla domanda “Come vado in Paradiso?” con “Tu in Paradiso ci sei già!” Chiaramente c’è una tensione escatologica tra il qui e ora e il non ancora, ma il punto importante è che la comunità cristiana non è un club di servizi esclusivi. Dunque la risposta diretta alla prima domanda è: sì.

Seconda domanda: il credente crede nella verità rivelata, il non credente pensa che non esista alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma una serie di verità relative e soggettive. Questo modo di pensare per la Chiesa è un errore o un peccato?

La verità rivelata in cui crede il cristiano contiene al suo interno una sola verità assoluta: Dio si fa conoscere nella relazione. Tutto il resto, le cosiddette verità assolute (l’onnipotenza, l’onniscienza, la misericordia, l’amore, la Trinità, l’Incarnazione) sono in realtà relative, perché derivano dalla scelta relazionale di Dio di farsi conoscere. Non è detto che il non credente non abbia verità assolute, ma comprendo la sua domanda in senso autobiografico, vale a dire che è lei a non avere una verità assoluta, ma una serie di verità relative e soggettive. Questa è però una condizione molto simile a quella del credente. Anche il credente (faccio anch’io l’autobiografico qui: io) vive di verità relative e soggettive, di realtà empirica e di stupore di fronte alle manifestazioni più radicali dell’irrazionalità umana. La differenza è che il credente (sempre io) vive la speranza della riconciliazione con il tutto e della sconfitta di quella che Francesco d’Assisi chiamava Sora Morte, ma che Paolo di Tarso chiamava “l’ultimo nemico che sarà sconfitto”. Chiamare questa differenza “errore” o “peccato” sarebbe un bell’atto di presunzione, in particolare da parte di chi dichiara di non sapere con il proprio ragionamento, ma attraverso una rivelazione. Dunque la risposta diretta alla seconda domanda è: no.

Terza domanda: Papa Francesco ha detto durante il suo viaggio in Brasile che anche la nostra specie perirà come tutte le cose che hanno un inizio e una fine. Anch’io penso allo stesso modo, ma penso anche che con la scomparsa della nostra specie scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio e che quindi, quando la nostra specie scomparirà, allora scomparirà anche Dio perché nessuno sarà più in grado di pensarlo. Il Papa ha certamente una sua risposta a questo tema e a me piacerebbe molto conoscerla.

Inizio con una battuta: un cristiano è un ateo che viene “disturbato” da Dio. Il cristiano non può concepire Dio e non è in grado di pensarlo al di fuori della sua rivelazione. Certo, c’è il vecchio con la barba e il triangolo con l’occhio; questi però non sono Dio, ma la proiezione di propri pensieri, desideri, ragionamenti. Nel libro di Giobbe, Dio si rivela nel turbine (“Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l’occhio mio ti ha visto”, 42,5) e in Marco in un povero uomo crocifisso ormai morto (15,39). Il Dio pensato da Giobbe e dal centurione di fronte alla croce scompare al cospetto della rivelazione. Quando scomparirà la specie umana, scompariranno anche le proiezioni umane di Dio. E, in un certo senso, scomparirà anche Dio, ma non per i motivi che lei adduce, ma perché il Dio delle Scritture ebraiche e cristiane è relazionale. Cosa facesse Dio prima del “principio” descrittoci nel primo versetto della Genesi, non ci è dato saperlo. Possiamo speculare che, a Creazione avvenuta (in qualunque forma essa si sia svolta: sappiamo bene che la Genesi è un racconto eziologico e non un trattato di biochimica), Dio si è trovato ad essere diverso da prima, perché quando scegli di relazionarti con qualcuno, non puoi non cambiare. Concludendo con una battuta: con o senza l’essere umano, non è lo stesso Dio. La risposta diretta alla terza domanda è: no, Dio non scomparirà, ma probabilmente cambierà.

E ora conceda anche a me una riflessione e una domanda.

Non posso tacere di essere rimasto stupito e anche un po’ deluso dalla sua riflessione finale su Chiesa e potere, in particolare nel passaggio sulle “sette [sic] luterane” e sul rapporto tra le chiese protestanti e la nascita e diffusione del pensiero laico occidentale. Non posso pensare che lei, che fieramente e audacemente si definisce un illuminista, non sappia cosa abbia significato la Riforma protestante nella definizione dell’identità dell’Uomo di Gutenberg, nella teorizzazione e affermazione del pluralismo, nella separazione tra potenza di Dio testimoniata (e non esercitata) dalle chiese e potere laico. Chiaramente si tratta di un rapporto complesso, non di diretta figliolanza.

Tuttavia, alla luce di questa storia importante, le domando: perché un intellettuale italiano, che si definisce laico, illuminista, cittadino del mondo, deve sempre considerare suo interlocutore privilegiato la Chiesa cattolica romana?
Avrei delle risposte da dare al posto suo, ma sono frutto del mio ragionamento e delle mie proiezioni. Gradirei però una sua rivelazione.

Cordiali saluti,
pastore Peter Ciaccio, Palermo

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In seguito all’articolo di Peter Ciaccio su Voci Protestanti, pubblichiamo la risposta di Eugenio Scalfari, e un’ulteriore replica del pastore valdese
www.vociprotestanti.it, 11 agosto 2013

Gentile Peter Ciaccio,

ho letto con molta attenzione la sua lettera che è a dir poco densa di riflessioni, risposte, domande. Per quanto riguarda la sua pubblicazione sul nostro giornale, la cosa non dipende ovviamente da me. Ho trasmesso al direttore Ezio Mauro e a chi attualmente lo sostituisce (perché lui è ancora per alcuni giorni in vacanza fuori d’Italia) il testo della sua lettera. Non le nascondo che è piuttosto lunga per un giornale quotidiano; a me farebbe piacere vederla pubblicata ma ripeto la decisione non spetta a me. A me spetta però rispondere seppur brevemente al suo documento.

Le risposte a me e la domanda che lei conclusivamente mi rivolge sono lo stesso nodo che divide il pensiero di un non credente da quello di un credente. Premetto per miglior comprensione (ma nel mio articolo c’è scritto) che io sono profondamente affascinato da molti anni dalla predicazione di Cristo quale ci viene trasmessa dai Vangeli (unico documento storico che possediamo in materia), sebbene essi differiscano notevolmente uno dall’altro. In particolare quello di Marco differisce notevolmente da Matteo e da Luca e quello di Giovanni da tutti gli altri. Faccio notare che sia Marco che Giovanni non dicono assolutamente nulla su Gesù di Nazareth per quanto riguarda i trent’anni vissuti prima dell’inizio della predicazione, sebbene anch’essi affermino che si tratta del figlio di Dio anche se da noi conosciuto come uomo che vive i dolori, le gioie, le paure e i desideri degli uomini.

In realtà di tratta di uno sradicato, se visto come uomo, il quale esce da casa a trent’anni e non ci torma mai più fino alla morte abbandonando madre, padre e fratelli e amandoli solo nella misura in cui loro (la madre in particolare) abbandonano anch’essi la loro casa e lo seguono per tre anni fino alla morte. Faccio notare che è uno sradicato nel senso alto del termine il quale chiede amore per sé e abbandono totale di ogni altro rapporto familiare. Ammetterà che è un sentimento assai difficile da definire, posto che di un uomo stiamo parlando.

Le pongo io una domanda che nell’articolo non ho formulato perché mi sembrava alquanto blasfema. Gesù assunse su di sé la colpevolezza di tutti gli uomini e predicò l’amore di tutti verso tutti come l’unico modo per amare Dio, ma aggiunse a questo che gli uomini potevano conoscere Dio soltanto passando attraverso di lui, Cristo: era lui che trasmetteva al Padre l’amore degli uomini come sarebbe stato lui a celebrare il giudizio universale. Ma poiché la Chiesa da lui commissionata a Pietro era la sua Sposa, sarebbe stata la sua Sposa, incaricata di “sciogliere e legare”, ad effettuare la prima intermediazione, non scordando quella di Maria e quella finale di Cristo. Questo è il percorso della Chiesa, che Lutero distrusse con le sue famose tesi che prevedevano il rapporto diretto del cristiano con Dio Padre.

Indipendentemente da questa complessa architettura che i protestanti semplificarono al massimo, resta il fatto che il movimento protestante si è diviso in una infinita quantità di sette le quali hanno certamente una capacità predicatoria e missionaria ma ognuna delle quali procede per conto proprio e con piccole o grandi varianti rispetto alle altre.

Quando Gesù assunse su di sé la colpevolezza di tutti con lo scopo di recuperare l’alleanza tra le creature e il creatore, questa salvazione si sarebbe effettuata soltanto nella misura in cui l’amore per sé diventasse secondario rispetto all’amore per gli altri. Il miracolo Gesù lo fece e non fu la resurrezione ma la crocifissione. Tuttavia non lo fece affatto nei confronti degli uomini che era venuto a salvare e a ripristinare la famosa alleanza. Sono passati duemila anni da allora. Lei è pastore valdese. Le risulta che nell’umanità che conosciamo dopo duemila anni da allora l’amore per sé sia diminuito e quello per gli altri aumentato?

La ringrazio per quanto mi ha scritto. Di queste cose, come forse lei sa, io ho parlato piu volte e a lungo con Carlo Maria Martini. L’ultimo colloquio avvenne quando le sue parole venivano tradotte da un giovane sacerdote che decifrava i suoi movimenti labiali. Insomma stava morendo. Ma lui capì quello che io dicevo e poiché posi a lui le stesse domande che ho posto al Papa, la sua risposta fu “non tocca a me giudicare”.

Lei viceversa mi risponde con dei no di cui non capisco bene il significato e quanto al fatto che Dio continui ad esistere anche se non sarà più pensato antropomorficamente come noi facciamo, lei dice che sarà vissuto in qualche altro modo da noi non immaginabile. Sarà vissuto da un topo, da una formica e forse da una gazzella. Sicché è perfettamente giusto dire che il Dio che noi pensiamo sarà morto. Per quanto mi riguarda non è mai nato perché è una consolatoria invenzione della nostra mente.

Un cordiale saluto.
Eugenio Scalfari

Gentile Eugenio Scalfari,

La ringrazio dell’attenzione posta alla mia risposta. L’attenzione che lei rivolge alla figura di Gesù e le conclusioni laiche che trae dalla lettura attenta dei Vangeli mi stimolano a continuare nel dialogo. In particolare mi ha colpito l’immagine dello sradicato. Alla Facoltà Valdese di Teologia studiavamo il ruolo di “outsider” narrativamente ricoperto spesso da Gesù e trovo che “sradicato” renda bene il concetto.

Prima di arrivare alla domanda che mi pone, vorrei chiarire il passaggio sulle “sette”. Appartengo a una minoranza sin da bambino, con tutte le scomodità del caso: giustificare a scuola la propria diversità, spiegare cose che nessun altro era chiamato a spiegare. Fortunatamente i miei figli sono nati in un’Italia più plurale, grazie all’immigrazione di cristiani ortodossi e islamici. Ad ogni modo, da grandi si apprezza la possibilità avuta di crescere in una minoranza, in qualche maniera ci si sente più preparati ad affrontare la vita e, forse, non le avrei scritto se non fossi cresciuto così. Restano tuttavia delle ferite, dei termini che non vanno proprio giù e, per i protestanti, il peggiore credo sia “setta”. È vero che siamo frammentati in diverse chiese. Tuttavia, questa è una caratteristica anche del cattolicesimo: in Italia quando parliamo della “Chiesa” viene in mente un monolito fatto di dogmi e gerarchia. In realtà il cattolicesimo è molto più variopinto di quanto non si pensi e ci sono anime che hanno tra loro un atteggiamento invero settario: non si parlano, non collaborano, hanno diversi partner ecumenici, non si incontrano. Detto questo, la parola “setta” in ambito religioso è dispregiativo, come l’inglese “cult”: le sette sono gruppi che vivono separati dal mondo, spesso in balia di un leader carismatico che fa le veci di Dio. Penso ai Davidiani della tragedia di Waco o agli adepti dell’Heavensgate che si suicidarono convinti che un’astronave aliena fosse pronta a portare le loro anime in un mondo migliore. Ora, se un giornalista della BBC definisse “cult” la chiesa cattolica, in Gran Bretagna sarebbe uno scandalo. In Italia invece non è un problema parlare di sette protestanti. Per carità, non è l’anomalia italiana più grave, ma è interessante notare che neanche la chiesa cattolica, che pur ci non riconosce piena ecclesialità, osi chiamarci “setta”.
Sul ruolo della Chiesa di Cristo, abbiamo una diversa comprensione dei relativi passi del Nuovo Testamento. Cristo non commissiona la Chiesa a Pietro, ma la fonda sulla sua fede. Quale fede? La fede in Cristo («Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»). Sul potere delle chiavi (quello di sciogliere e legare) noi protestanti contestiamo alla Chiesa cattolica di averlo trasformato in un potere secolare. Lutero infatti teneva in gran conto il potere di sciogliere e legare e sosteneva che fosse dato ad ogni cristiano che ascoltava la confessione del fratello. Il protestantesimo in seguito ha abbandonato la pratica della confessione privata. Tuttavia non ha distrutto il ruolo della Chiesa, ma lo ha trasformato: la Chiesa non è mediatrice. L’unico mediatore è Cristo. La Chiesa è l’assemblea dei credenti, la Communio Sanctorum.

Ma arrivo alla domanda. La domanda che mi pone è difficilissima. Se «nell’umanità che conosciamo dopo duemila anni da allora l’amore per sé sia diminuito e quello per gli altri aumentato?» In altre parole, mi chiede se il cristianesimo sia servito a migliorare il mondo. Non lo so. Non è scomparso certamente l’amore egoista, quello alla base della violenza, descritto da Oscar Wilde nel carcere dov’era stato sepolto dalla sua patria omofoba: «Yet each man kills the thing he loves» («Eppure ogni uomo uccide la cosa che ama»). Ci sono però esperienze laiche che hanno migliorato il mondo. Penso, ad esempio, a ciò che caratterizza maggiormente la nostra epoca, quella che Rita Levi Montalcini definì la più importante invenzione del XX secolo: Internet. I suoi inventori, Tim Berners-Lee e Vint Cerf, decisero di non brevettarlo, ma di regalarlo al mondo. Certo, hanno ricevuto onore e gloria, ma, da un punto di vista egoistico, è nulla rispetto ai soldi che avrebbero potuto accumulare. Fatto apparentemente non collegato: nel 2006 un’influenza aviaria stava decimando la fonte di sostenamento di milioni di africani. Una ricercatrice italiana, Ilaria Capua, isola il virus e decide di non brevettare la sua scoperta, come suggerito dall’OMS, ma di condividerla in rete per trovare prima il rimedio: prima viene la vita delle persone coinvolte, non i soldi e il prestigio. E sappiamo quanto poco sono remunerati i ricercatori italiani. Da un gesto di amore ne è nato un altro. La scelta dei fondatori del Web ha creato le condizioni per un’altra scelta nobile.
In altre parole, l’amore per il prossimo nasce dall’amore per il prossimo. Pertanto lo stesso si può dire di chi ha scelto di amare il prossimo a discapito del proprio tornaconto proprio in virtù del gesto supremo di Cristo. L’amore nasce dall’amore.
Certo, parliamo di amore in senso laico, umanista. E va anche bene così. Ho trovato interessante che mi abbia chiesto dell’amore, parlando di Dio. Per Ingmar Bergman il silenzio di Dio era dato dall’incapacità degli esseri umani di amarsi.

In conclusione, non ho l’ambizione di convincerla che Dio non sia una consolatoria invenzione della nostra mente. Immagino che neanche il grande Carlo Maria Martini avesse questa ambizione. Però mi stimola l’aggettivo “consolatoria”. Di fronte a un lutto recente ho trovato molta consolazione nella fede e nell’amore di chi mi circondava, ma non avevo mai pensato alla fede come consolatoria, quanto piuttosto come fonte di speranza. Per un (quasi) giovane come me è importante sperare che ci sarà un futuro possibilmente migliore. L’Italia sembra un paese senza futuro, avvitato su se stesso. La fede è in parte consolatoria: lo dice anche il Catechismo di Heidelberg. Per quanto mi riguarda, però, non è illusoria. È motore di vita, è dono di una prospettiva, la prospettiva dell’eternità. In uno dei suoi discorsi più famosi, Martin Luther King disse di ritrovarsi come Mosè: non avrebbe calpestato la Terra promessa, non avrebbe visto la fine delle discriminazioni razziali in America, ma allo stesso tempo Dio lo aveva fatto salire sulla cima della montagna e gliel’aveva mostrata. Il pastore King ha trovato certamente consolazione. Ma non si era illuso.

Con profonda stima,
Peter Ciaccio