“Preti sposati e gay, la Chiesa è aperta a tutti”

Paolo Rodari
La repubblica, 23 agosto 2013

Intervista con Timothy Radcliffe, il ‘teologo del dissenso’, mentre escono due suoi nuovi libri: Prendi il largo (Queriniana) e Sguardi sul cristianesimo (Emp)

Prima dei princìpi il kerymga, e cioè l’annuncio del Vangelo. È il cuore della teologia di Timothy Radcliffe, maestro dell’ordine domenicano tra il 1992 e il 2001. Inglese, vive a Oxford nella Blackfriars Hall, istituzione dei domenicani dove è visiting professor il filosofo Roger Scruton. E nonostante porti avanti tesi ardite – ad esempio la possibilità di matrimonio per i sacerdoti – quando gira il mondo non viene accolto come il classico “teologo del dissenso”. Piuttosto, come uno studioso che dal cuore del cristianesimo occidentale sa pungolare la Chiesa perché si apra alla contemporaneità in modo intelligente. Prendi il largo, non a caso, è il titolo del suo ultimo lavoro pubblicato in Italia da Queriniana. Ma ha appena pubblicato per Emp anche Sguardi sul cristianesimo con Armando Matteo, e nei prossimi mesi uscirà per Editrice Missionaria Italiana un saggio sull’attualità della parola di Dio “che è anche per i manager della City”.

Padre, lei invita la Chiesa a “prendere il largo”. Fino a dove?
“Prima di decidere fino a dove, occorre domandarsi da dove partire. Spesso chi ha rinnovato la Chiesa non era sacerdote: san Benedetto, san Francesco, santa Caterina da Siena. La Chiesa può trovare nuove energie soltanto se si riconosce come comunità di battezzati. “Prendere il largo” significa riconoscere che basta il battesimo per partecipare della morte e risurrezione di Cristo. Quando venne chiesto a Wojtyla quale fu il giorno più bello della sua vita, rispose: “Il giorno in cui fui battezzato””.

Spesso la gente sente la Chiesa lontana, troppe regole, troppi precetti. È così?
“Tutti dovrebbero sentirsi a casa nella Chiesa. Gesù accoglie tutti, esattori delle tasse – i nostri banchieri di oggi – , le prostitute. Ma come può la Chiesa accogliere tutti e insieme offrire una visione morale per tutti? Papa Francesco dice che il pastore deve “sentire l’odore delle pecore”. Significa che la Chiesa deve conoscere le domande della gente dal di dentro, come se fossero sue. Per esempio, siamo in grado di offrire un’autentica parola sull’omosessualità soltanto se siamo vicini alle persone gay. L’insegnamento morale deve essere offerto all’interno di un’amicizia. Altrimenti è moralismo”.

Lei sostiene la possibilità che i preti si sposino. È una strada percorribile a Roma?
“Ci sono già molti sacerdoti cattolici sposati, ad esempio molti preti anglicani convertiti al cattolicesimo. Se il celibato è vissuto con generosità, è il segno di una bella vocazione, è un segno profondo di una vita dedicata a Dio e al suo popolo. Se, dunque, il celibato cessasse di essere la norma per i sacerdoti, si perderebbe qualcosa di meraviglioso. Ma insieme, anche un clero sposato saprebbe dare qualcosa di bello in un modo nuovo: sacerdoti che vivono il matrimonio e un’esperienza di genitorialità. I preti esistono per servire il popolo di Dio e quindi sarebbe opportuno chiedere a loro che tipo di sacerdote intendano essere”.

Diversi vescovi in udienza dal Papa gli parlano del problema dei divorziati risposati. È possibile ripensare al divieto di ricevere l’eucaristia?
“Il matrimonio è un segno della fedeltà di Dio al suo popolo in Cristo. Dobbiamo fare di tutto per sostenerlo come un impegno per la vita. Ma viviamo in una società fluida e di relazioni a breve termine. Le persone si spostano, cambiano casa, lavoro. Vivono continui cambiamenti. Spesso risulta difficile sostenere un matrimonio. Non si può giudicare nessuno. Penso che i divorziati risposati non debbano essere esclusi in modo permanente dalla comunione. Hanno bisogno della grazia del sacramento, come tutti. Nella Chiesa tante persone sono state escluse dalla comunione perché non rimasero fedeli in tempi di persecuzione. Ma talmente tanti furono gli emarginati che la disciplina dovette cambiare. Credo che anche oggi occorrerebbe cambiare”.

A ottobre arriveranno a Roma otto cardinali, presieduti da Oscar Maradiaga suo grande amico, che supporteranno il Papa nell’esercizio del governo. È una svolta epocale nel segno della collegialità?
“Per secoli la Chiesa dovette combattere contro i monarchi e gli Stati potenti per preservare la propria libertà, da Costantino fino a Napoleone e, più recentemente, con le grandi ideologie. Per questo il papato è diventato anch’esso un po’ una monarchia. Ma non possiamo rimanere prigionieri delle battaglie passate. Francesco si è presentato come un condiscepolo e come il vescovo di Roma. Vuole che il Papa operi all’interno del collegio dei vescovi. Gli otto cardinali possono aiutarlo a fare questo. Benedetto XVI ha scritto pagine splendide su come la Chiesa può diventare più trinitaria. Francesco sta cercando di indirizzare la Chiesa in quella direzione, liberandola da una struttura monarchica che non è più adeguata”.

La curia romana ha trascorso mesi non facili. Il “caso Vatileaks” ha mostrato una crisi evidente di governance. Serve una riforma?
“Abbiamo bisogno di una Chiesa meno centralizzata, con più libertà di iniziativa per le Chiese locali. Il cardinale Basile Hume, ex arcivescovo di Westminster, diceva che abbiamo bisogno di un cambiamento fondamentale nelle strutture della Chiesa. E un Vaticano servitore del Papa e dei vescovi e non il contrario”.