Le telefonate del Papa

Paolo Bonetti
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Diventano sempre più numerose e ogni volta i media le riferiscono con grande rilievo.

Sono un segno di attenzione pastorale o rispondono a una strategia mirata di persuasione che punta sulla sorpresa e sull’emozione che ogni volta questi gesti provocano e non soltanto in coloro che ne sono i diretti destinatari? Gesù, lo sappiamo, peregrinando per le strade della Galilea circondato dai suoi apostoli, rivolgeva la sua parola, senza discriminazioni sociali compresa quella di genere, a tutti coloro che incontrava, ammoniva a cambiare vita e infondeva speranza nel regno di Dio. Non era solo misericordioso, e spesso giudicava con severità coloro che non sapevano rinunciare alle lusinghe del mondo o profanavano le cose sacre. Si è soliti dire che il messaggio cristiano è un messaggio di amore e di perdono, e questa affermazione viene sovente ripetuta anche dall’attuale papa. Ma il cristianesimo è anche una dottrina religiosa tragica, il peccato grava ineluttabilmente sulla vita degli uomini, la via della salvezza è irta di difficoltà, la possibilità della perdizione eterna sempre incombente. Questa tragicità segna profondamente tutta la storia della fede cristiana: le stesse divisioni cruente che si sono consumate fra i cristiani, i loro continui cedimenti alla mondanità, le tentazioni mai scomparse, in seno alle chiese cristiane, del potere e del denaro, sembrano confermare, sul piano storico, la dottrina del peccato originale. Il sangue versato da Cristo per la cancellazione del peccato e la salvezza degli uomini in troppi casi si è rivelato vano. I credenti, nonostante la loro fede, restano schiavi del peccato, avvinghiati alle loro passioni e ai loro interessi né più né meno di coloro che non credono.

Si dirà che tutto questo fa parte ineluttabilmente della natura umana e che è vana e superba la pretesa di cancellarlo, ma allora perché la fede? Forse per l’altrettanto naturale bisogno di essere consolati e sorretti nelle angosce della vita, per il desiderio di non sentirsi soli, per la necessità, come dicono i credenti, di dare un senso alla propria vita, anche se per dare alla vita un qualche significato non occorre necessariamente affidarsi a una qualche rivelazione religiosa. Il gesuita Bergoglio, che dimostra di avere una conoscenza profonda del cuore umano, di quel “guazzabuglio” (per usare un termine manzoniano) che esso è nell’intreccio confuso delle sue emozioni e delle sue illusioni, ha deciso di lasciare le stanze solenni dei sacri palazzi per scendere nelle strade del mondo lungo le quali camminano gli uomini comuni. Lo fa usando, naturalmente, i moderni mezzi di comunicazione, dal telefono a internet, ma compie comunque gesti che sembrano apparentarlo al viandante Gesù, che non aveva però alcuna dignità sacerdotale, ma era forte soltanto del naturale carisma della sua parola. Papa Francesco si accosta con gentile premura agli uomini e alle donne sofferenti, chiama al telefono il fratello e la madre di un uomo assassinato, dice a una donna che ha subito violenza di non sentirsi sola, risponde ai quesiti che gli ha posto un giovane sconosciuto. Quando si affaccia dalla finestra dell’appartamento che egli ha scelto di non abitare nel palazzo apostolico, dice bonariamente parole di buon senso che tutti possono accogliere, anche coloro che sono lontani dalla fede e dalla chiesa di cui Francesco è il capo. Ma che ne è dell’annuncio del regno di Dio, che non può compiersi su questa terra, che ne è della escatologia cristiana, della tensione verso altre terre e altri cieli? Dico questo da non credente, che resta però perplesso di fronte a un cristianesimo ridotto (non vorrei mancare di rispetto al papa) a una specie di posta del cuore, dove c’è per tutti una parola di consolazione, di incoraggiamento e di speranza. Eppure essere cristiani, se si leggono i vangeli, è tutt’altro che facile e la via che Cristo indica a coloro che intendono seguirlo è irta di insormontabili difficoltà psicologiche, a cominciare dal comandamento di amare i propri nemici.

Bergoglio non è il falegname Gesù, è un uomo di potere che guida una ramificata organizzazione mondiale, che deve badare ogni giorno a tutelare certi interessi, a non urtare certi poteri, a muoversi con cautela al centro di una ragnatela di collaboratori e di cortigiani che ha finito col soffocare il povero Ratzinger e costringerlo alle dimissioni. Ma non solo: egli deve anche cercare di mantenere l’influenza della sua chiesa in un mondo sempre più secolarizzato che incalza il cattolicesimo con domande, in campo morale e sociale, sempre più imbarazzanti per chi si è da secoli schierato sul fronte della conservazione e del privilegio. Senza voler negare che l’ansia di riforma della chiesa che anima il papa sia davvero sincera e che certe sue affermazioni nascano dalla consapevolezza che non è più possibile percorrere vecchie strade che si sono ormai dimostrate del tutto sterili, resta però l’impressione che Bergoglio sia soprattutto, a cominciare dal modo di comunicare, miglior politico di Ratzinger, più duttile e pragmatico, meno ancorato a certe rigidità ecclesiastiche, più disponibile a dialogare con il mondo esterno. Ma che questa sua abilità politica di matrice chiaramente gesuitica sia anche il segno di un profondo rinnovamento spirituale è tutto da provare.