Giovane, moderato, attento ai paesi emergenti: profilo del nuovo Segretario di stato

Valerio Gigante
Adista Notizie n. 31 del 14/09/2013

Al netto delle solite, abusate parole, come “rivoluzione”, termine utilizzato dal Corriere della Sera del 31 agosto scorso e da molti altri organi di stampa e radiotelevisivi; e facendo anche la tara ai pezzi encomiastici con cui gli stessi giornali che avevano esaltato nel 2006 il nuovo corso inaugurato dalla nomina di Bertone ne salutano oggi con soddisfazione l’uscita di scena, la nomina di mons. Pietro Parolin a nuovo segretario di Stato rappresenta certamente una novità, ed insieme un cambio di strategia, nella politica vaticana.

Che Bertone lasciasse era pacifico. Lo aveva già deciso il Conclave, bocciando Scherer e Scola e trovando un accordo che superasse il vecchio sistema di potere vaticano; lo aveva deciso la consuetudine, secondo la quale il nuovo papa prima o poi sceglie un nuovo segretario di Stato (Ratzinger ci aveva messo poco più di un anno per sostituire Sodano con Bertone); lo avevano deciso gli scandali che avevano caratterizzato questi ultimi anni di storia ecclesiastica, per ultimo il cosiddetto Vatileaks; lo aveva deciso l’anagrafe stessa: Bertone compirà infatti a dicembre 79 anni. Gli ecclesiastici vanno in pensione a 75, Ratzinger aveva prorogato senza porre un termine preciso il mandato del cardinale salesiano. Poi però il vecchio papa aveva lasciato la cattedra di Pietro. E da quel momento tutti sapevano che il cambio della guardia ai vertici della diplomazia vaticana sarebbe stato imminente, anche perché Francesco ha da diverso tempo nel think tank dei cardinali che compongono il suo “consiglio della corona” (che si riuniscono a Santa Marta e non in Vaticano) e non in Bertone, il suo costante punto di riferimento per quanto riguarda i più importanti affari di Chiesa. E se l’ormai ex segretario di Stato inizialmente sperava di raggiungere almeno gli 80 anni, recentemente aveva abbassato l’asticella delle sue ambizioni a 79. Ma se l’uscita di scena di Bertone era certa, meno facile è comprendere le ragioni profonde che hanno fatto cadere la scelta del successore su Parolin.

Andiamo con ordine. Che il nuovo segretario di Stato sarebbe stato italiano lo dicevano gli equilibri di Curia. Un altro papa straniero dopo Wojtyla e Ratzinger (i loro pontificati, messi assieme, fanno un totale di ben 35 anni), nel caso di Francesco nemmeno europeo, non poteva che essere affiancato da un italiano a capo della diplomazia. Questo pare fosse anche parte dell’accordo raggiunto tra i cardinali elettori italiani e quelli del continente americano per far convergere il loro voto sull’arcivescovo di Buenos Aires, abbandonando le ipotesi Scola e Scherer.Ma il nome di Parolin, quello non era scontato. Qualcuno pensava che la scelta potesse ricadere ad esempio sul candidato dato in pole position: Giuseppe Bertello, presidente del governatorato della Santa Sede che deve la sua carriera in Vaticano al patronage di Bertone, ma che negli ultimi anni si era anche saputo distinguere dalle scelte del suo mentore. Qualcun altro puntava sul sostituto per gli Affari Generali, mons. Angelo Maria Becciu, o sull’attuale prefetto della Congregazione dei Vescovi, Marc Ouellet. Ma si trattava di nomi di Curia, su cui difficilmente poteva cadere la scelta del papa, se egli intendeva comunicare all’esterno un segnale di forte discontinuità e cambiamento. Per questo, nelle ultime settimane le voci su una possibile nomina di Parolin si erano fatte più insistenti. Anche perché il neo segretario di Stato aveva diverse carte a suo favore. Viene dalla carriera diplomatica e questo, dopo la parentesi di Bertone (inviso anche per la totale assenza di esperienza in questo campo), fa apparire la sua scelta un rassicurante ritorno al passato, oltre che un segnale di discontinuità rispetto alla stagione appena conclusa. Ma Parolin, pur non avendo fatto parte dell’attuale sistema di potere vaticano, non è nemmeno un homo novus. Allievo di Casaroli e Silvestrini, è infatti molto legato al predecessore di Bertone, il cardinale Angelo Sodano, che nel 2002, lo volle in Segreteria di Stato come sottosegretario per i Rapporti con gli Stati, una sorta di “viceministro” degli Esteri vaticano. La sua nomina indicherebbe che la “vecchia guardia” vaticana, la cosiddetta ala “diplomatica” della Curia ha alla fine prevalso. Anche perché all’epoca del suo insediamento, Bertone aveva preferito Ettore Balestrero (poi coinvolto nello scandalo Vatileaks e trasferito pochi mesi fa a fare il nunzio in Colombia) a Parolin come braccio destro. La fazione anti-bertoniana della Curia si è fatta forza anche dell’alleanza con i gruppi che maggiormente sostengono una riforma delle finanze vaticane, dell’amministrazione della Città del Vaticano e una piena adesione dello Ior alla normativa internazionale in materia di antiriciclaggio. Insomma, non il partito filo-Usa, quello collegato alla potentissima lobby dei Cavalieri di Colombo, molto cresciuto in Vaticano negli ultimi anni; piuttosto, la cordata di prelati più vicini all’establishment economico-finanziario europeo, ed a realtà ecclesiali come i Cavalieri di Malta e l’Opus Dei. A Parolin, infatti, il papa ha affidato anche il compito di seguire i lavori della Pontificia Commissione sull’organizzazione della struttura economico-amministrativa della Santa Sede da lui istituita per «proseguire – queste le parole di Bergoglio – nell’opera di introduzione di riforme nelle istituzioni vaticane, finalizzata a una semplificazione e razionalizzazione degli organismi esistenti e a una più attenta programmazione delle attività economiche di tutte le amministrazioni vaticane».

Inoltre Parolin, 58 anni, è anche piuttosto giovane per l’incarico che è chiamato a ricoprire. Un altro elemento che all’esterno viene percepito come segnale di grande rinnovamento, specie se confrontato con la gerontocrazia che da anni regge la Chiesa. Più giovane di Parolin solo Eugenio Pacelli, che ottenne l’incarico di Segretario di Stato, sotto Pio XI, a soli 53 anni. Ma correva l’anno 1930. Altro elemento che ha certamente giocato a favore di Parolin, il fatto che egli unisca alla sua italianità una esperienza lunga e significativa in America Latina, in particolare gli ultimi quattro anni, trascorsi come nunzio in Venezuela. I suoi rapporti con la presidenza Chávez (mai burrascosi) hanno avuto come risultato il miglioramento dei rapporti tra Stato e Chiesa all’interno del Paese. Proprio nella funzione di nunzio Bergoglio avrebbe apprezzato le doti di Parolin, che avrebbe avuto modo di conoscere nel corso dei frequenti contatti tra gli episcopati sudamericani e le nunziature presenti nei Paesi del Cono Sur. Last but not least, Parolin era poi stato caldeggiato al papa da uno dei cardinali più vicini a Bergoglio, l’arcivescovo di Tegucigalpa Óscar Rodríguez Maradiaga (simpatizzante Opus Dei, sostenitore del colpo di Stato in Honduras del 2009 e oggi anche membro autorevole del “consiglio della corona” del pontefice). Si conferma così la tendenza di Bergoglio a scegliere i collaboratori in base a suoi personali legami o conoscenze.

In ogni caso, dal punto di vista della strategia futura, Parolin dovrebbe stare all’America Latina ed alla Cina (dal 2005 ha iniziato a studiare il dossier cinese, ha contribuito a ristabilire i contatti con Pechino; nel 2007 ha giocato un ruolo di primo piano nella stesura della Lettera ai cattolici cinesi inviata da papa Ratzinger) un po’ come Casaroli stava al blocco dei Paesi socialisti durante l’Ostpolitik: apertura, dialogo, capacità di mediazione. Per rilanciare l’immagine un po’ appannata della Chiesa. Per consentire al cattolicesimo di penetrare o rinsaldarsi nei Continenti, specie quello americano ed asiatico, che possono costituire la “nuova frontiera” di una religione segnata dalla secolarizzazione e dagli scandali.In perfetto stile Bergoglio, in una intervista rilasciata qualche settimana fa e diffusa dalla Sala Stampa Vaticana contestualmente all’annuncio della nomina, Parolin ha parlato infatti della necessità di una Chiesa «aperta», che presti «attenzione ai poveri» e «lotti contro la corruzione». A tutte queste considerazioni va poi aggiunto il fatto che nei giorni immediatamente precedenti alla nomina del nuovo segretario di Stato il papa aveva provveduto ad un’altra nomina di “peso”. Quella del nuovo segretario del Governatorato, carica che fu di Carlo Maria Viganò (quello le cui lettere diedero di fatto il via a Vatileaks). E ancora una volta si è trattato di un uomo di sua fiducia: p. Fernando Vérgez Alzaga, spagnolo, sacerdote dei Legionari di Cristo, per molti anni segretario del cardinale argentino Edoardo Francisco Pironio. (valerio gigante)

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Segreteria di Stato, torna la diplomazia

Giacomo Galeazzi
http://vaticaninsider.lastampa.it 1 settembre 2013

C’era una volta il Vaticano. Quello uscito trionfatore dalla Guerra Fredda e senza il quale, ammette Gorbaciov, «non si comprende la caduta del Muro e la storia del XX secolo». Negli ultimi anni la Santa Sede, indebolita da faide interne, aveva perso il ruolo da protagonista sullo scacchiere mondiale. La sua voce nelle questioni internazionali era coperta dal clamore degli scandali finanziari e sessuali culminati in Vatileaks. Adesso il Pontefice che a rapidi passi sta riconquistando le posizioni perdute riporta un diplomatico (Pietro Parolin) al vertice di una Curia che smette di essere la corte del potere come privilegio e torna ad essere una struttura al servizio della fede: cinghia di trasmissione degli «input» papali. Diplomazia e Vangelo alla guida della «Chiesa povera per i poveri». L’era Bertone si è conclusa ieri anche se il passaggio di consegne avverrà il 15 ottobre. «Questa chiamata è una sorpresa di Dio», commenta Parolin, autonomo da ogni cordata o gruppo di potere: proprio per questo era stato allontanato 4 anni fa dall’incarico di viceministro degli Esteri e confinato «quasi alla fine del mondo», nel difficilissimo Venezuela, dove è riuscito però a riportare serenità nei rapporti tra Chiesa e Stato. Adesso lo attendono i «dossier» caldi del globo cattolico.

Le sfide: pacificare la Curia dopo lo scandalo Vatileaks

Occorre pacificare la Curia dopo anni di faide interne e normalizzare i rapporti con la Cei. Lo scontro tra cordate di porporati culminato in Vatileaks e il braccio di ferro Bertone-Bagnasco sulla titolarità dei rapporti con la politica hanno indebolito l’immagine pubblica e l’autorevolezza della Santa Sede. Adesso si torna a un Vaticano al servizio delle Chiese locali e sarà l’episcopato italiano a trattare con le istituzioni. Senza intromissioni vaticane. Nel suo burrascoso settennato Bertone ha trovato nelle gerarchie fortissime opposizioni dovute principalmente al rigido «spoil system» da lui praticato ai danni di maggiorenti come Sodano e Ruini. Francesco perciò intende mettere al bando il carrierismo ecclesiastico, bollato come «acqua stagna». Preferendo Parolin a Bertello, il Pontefice tiene distinta la Segreteria di Stato dal gruppo degli otto cardinali-riformatori (organismo nel quale prevale l’iniziativa sulle procedure) che si riunirà a ottobre. Per il momento conferma il resto della squadra di governo (Becciu, Mamberti, Wells, Camilleri). Meno sprechi e burocrazia e altolà al sottobosco affaristico nei Sacri Palazzi.

Fermare lo “scippo” degli evangelici in Sudamerica

Le notizie che arrivano dal continente di Bergoglio non sono incoraggianti per la Chiesa. Sempre più cattolici sono attratti dalle «sirene» evangeliche finanziate da sigle Usa. Già Wojtyla, che pure confidava nella vitalità del cattolicesimo sudamericano, aveva fiutato il pericolo. Nel 1992 definì «lupi famelici» le sette protestanti in piena espansione tra i cattolici «latinos», quelle stesse sette contro la cui avanzata Roma non è ancora riuscita a opporre resistenza. Ogni ora 400 latinoamericani abbandonano la Chiesa per seguire un nuovo gruppo protestante. Le sette attirano i cattolici con il richiamo di una fede personale e profonda, una moralità esigente e puritana, un fortissimo vincolo comunitario, spirito di missione, ma anche profezia, guarigioni e visioni. E spesso aiuti economici. In sostanza, si tratta di un cristianesimo in antitesi con le istanze più liberal e progressiste, un credo che nella culla della teologia della liberazione «ruba», da destra, fedeli alla Chiesa. Le sette sono ben organizzate, hanno radio, giornali, strumenti di propaganda per farsi conoscere e seguire. Ma è scattata l’ora della «Reconquista» cattolica.

Mano tesa alla Cina per smussare le persecuzioni

Controlli su riti, istituzioni religiose e seminari. Arresti, torture, condanne di sacerdoti e laici. Prima di essere trasferito in Venezuela, da viceministro degli Esteri, Parolin si era occupato soprattutto della Cina, dove la comunità cattolica soffre pesanti violazioni del diritto alla libertà religiosa. All’origine di questa repressione c’è il crescente interesse religioso che si registra nel Paese, in particolare nei confronti del cristianesimo. Sul fronte delle ordinazioni episcopali illecite (cioè senza mandato papale), le tensioni tra Associazione Patriottica e Santa Sede sono ricorrenti, così come gli arresti e le «rieducazioni tramite il lavoro» di coloro che si rifiutano di aderire all’Associazione patriottica e rimangono fedeli al Papa. Le proprietà confiscate alla Chiesa dopo la presa di potere di Mao rimangono una questione spinosa. Il governo ha stabilito che devono tornare ai legittimi proprietari ma il ministero degli Affari religiosi ostacola chi cerca di riottenerle. La Giornata di preghiera per la Chiesa in Cina è stata istituita nel 2007 da Ratzinger. Pechino resta lontana ma Roma tende la mano.

Cristiani in fuga dal Medio Oriente in fiamme

Crollano i cristiani in Medio Oriente. Se all’inizio del secolo scorso rappresentavano il 20% della popolazione, oggi, nei diversi Paesi dell’area asiatica sud-occidentale, oscillano al massimo fino al 10%. I cristiani migrano dal Medio Oriente per le difficoltà in cui si sono trovati in seguito ai recenti conflitti. A Gerusalemme e a Nazareth sono ormai il 2%, mentre la nazione con il maggior numero di cristiani resta il Libano (35%) . L’inferno scoppiato in Siria accresce la «diaspora» dei cristiani. In tutto il mondo islamico si assiste a una continua radicalizzazione della protesta contro il potere mondiale definito come «Occidente» e visto dai musulmani come cristiano anche se è sempre più scristianizzato. Ciò ha ripercussioni sui cristiani locali. Al contrario in Africa la forte crescita dei fedeli di Roma sta provocando le violente reazioni dell’Islam radicale che, in Nigeria o Kenya, attaccano chiese e missioni. Francesco si affida allo «spirito di Assisi» per rilanciare il dialogo interreligioso e per impedire che si «uccida nel nome di Dio». Stop alla fede strumentalizzata per denaro e potere.

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Bertone: ascesa e declino dell’uomo forte abbandonato dai poteri forti della chiesa

Valerio Gigante
Adista Notizie n. 31 del 14/09/2013

Non si può dire che il card. Tarcisio Bertone in Vaticano non conti più nulla: lascia tanti dei suoi uomini nei posti chiave della Curia, del Governatorato, in qualche diocesi (non moltissime: su quel fronte l’ormai ex segretario di Stato ha perso diverse battaglie) e in tanta parte del “sottobosco” ecclesiastico. Ma soprattutto Bertone mantiene la carica di Camerlengo e quella (che non manterrà però a lungo) di presidente della commissione cardinalizia di sorveglianza sullo Ior. Ma certo, un’era si chiude con l’uscita di scena del cardinale salesiano e del sistema di potere che lo ha sostenuto.

Una carriera lenta, ma inarrestabile

Nato a Romano Canavese nel 1934, Tarcisio Bertone è il quinto di otto figli. Ha studiato in un “santuario” salesiano, l’oratorio di Valdocco a Torino, che, ancora giovane, lo attrasse verso la sequela di don Bosco. Ordinato il 1° luglio 1960, ha compiuto studi da canonista. Divenuto docente del pontificio Ateneo Salesiano, negli anni del postconcilio Bertone si segnala nell’università salesiana per essere nel gruppo di docenti progressisti (tra loro Bruno Bellerate, Ramos Regidor, Giulio Girardi) ironicamente ribattezzati “i manco 20”, che elaboravano documenti sul necessario rinnovamento della congregazione e dell’università. Una fase che per Bertone durò poco. I vertici dei salesiani infatti non gradivano l’intraprendenza del gruppo. Lo fecero sapere agli interessati. E diversi di loro rientrarono docilmente nei ranghi, condizione essenziale per poter fare carriera. Che per Bertone iniziò negli anni ’80, quando assunse il ruolo di consultore in diversi dicasteri della Curia Romana, soprattutto quello per la Dottrina della Fede. Poi, nel 1989, Bertone iniziò a bruciare le tappe: quell’anno venne eletto Rettore Magnifico dell’Università Pontificia Salesiana. Appena due anni dopo, nel 1991, il papa lo chiamò alla guida della diocesi di Vercelli. Altri due anni appena e la Cei lo nominò presidente della Commissione Ecclesiale Giustizia e Pace. Poi, nel 1995, Giovanni Paolo II lo volle segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, vice di Joseph Ratzinger.

Come segretario dell’ex Sant’Uffizio fu corresponsabile di molte discusse decisioni prese dal dicastero. Nel ’97 firmò l’incredibile scomunica al teologo progressista cingalese Tissa Balasuriya – uno degli esponenti più autorevoli della teologia asiatica – ritirata però dopo appena un anno. Collaborò alla stesura della Dominus Iesus, documento che, affermando l’unicità salvifica di Cristo che si realizza solo attraverso la sua Chiesa (ovviamente quella cattolica), comprometteva seriamente il dialogo ecumenico. Nel 2000 il papa lo incaricò di curare la pubblicazione della terza parte del “segreto” di Fatima e nel 2001 di “curare”, dopo il clamoroso matrimonio con Maria Sung, mons. Milingo, cui Bertone prescrisse un lungo (e misterioso, giacché del vescovo guaritore non si ebbe alcuna notizia per diversi mesi) “ritiro spirituale”. Poi, nel 2003, Bertone succedette, dopo una lunga lotta tra le correnti curiali, a Tettamanzi come arcivescovo di Genova: la città della lanterna era, all’epoca, l’ultima sede cardinalizia ancora disponibile, utile ad ingrossare le file o dei “progressisti” o dei “conservatori” in vista del Conclave. La conquista di Bertone dei vertici della Curia – compiutasi nel 2006 con la nomina a segretario di Stato al posto del card. Angelo Sodano – fu molto osteggiata. Tanto che la fuga incontrollata di notizie che davano per avvenuta la sua nomina già una settimana prima della ratifica ufficiale aveva forse il significato di tentare in extremis di “bruciarne” la candidatura, dandola in pasto alla stampa. Del tutto inusuale, poi, il modo con cui avvenne l’avvicendamento tra Sodano e Bertone, con il papa che si limitava ad annunciare una nomina che sarebbe stata effettivamente ratificata solo il 15 settembre successivo. Un pasticcio, insomma, che evidenziava chiaramente la volontà del papa di mettere una toppa ad una situazione che rischiava di sfuggirgli di mano, anticipando una decisione che i rapporti di forza interni stavano rendendo sempre più difficile da imporre, poiché sul nome di Bertone, in Vaticano, si stava facendo il vuoto. L’imbarazzo del papa coinvolse anche i fedeli della diocesi di Genova, cui Ratzinger aveva sentito il bisogno di scrivere una lettera, pubblicata su Avvenire il 23 giugno di quell’anno, in cui chiedeva loro il “grande sacrificio” di privarsi di Bertone. Del resto, alla faccia del “carrierismo ecclesiastico” sempre criticato da Benedetto XVI, ma sempre alimentato dal papa tedesco, Genova, dall’epoca del card. Giuseppe Siri, non ha più un arcivescovo che “duri” più di pochi anni. O che, come nel caso di Bagnasco, faccia il pastore a tempo pieno.

Il cardinale e la politica

Dal punto di vista pastorale e dottrinario Bertone è sempre stato un duro. Con poca propensione al dialogo interreligioso. Come vescovo di Genova, nel 2004, in un intervento pubblicato il 13 giugno sulla testata diocesana Settimanale cattolico (che ora si chiama Il cittadino), giudicò la lettera scritta dai parroci di Cornigliano per osteggiare la costruzione di una moschea nel loro quartiere «un intervento stimolante» e, pur ribadendo il «diritto di ogni comunità religiosa di avere il suo proprio luogo di culto», invocava il principio di reciprocità. Sempre da arcivescovo, il 20 luglio dello stesso anno, decise di presenziare, accanto al presidente della Repubblica Ciampi, al ministro della Difesa Martino e al Capo di Stato Maggiore della Marina Biraghi, all’inaugurazione della portaerei “Cavour”, la più grande della flotta militare italiana, impartendo – proprio lui che era stato presidente della Commissione Cei Giustizia e Pace – la sua benedizione alla nave da guerra ancorata nel porto di Genova.

Da segretario di Stato, nella Lectio magistralis tenuta in occasione dell’apertura, ai primi di dicembre 2008, dell’anno accademico della Facoltà di Diritto Canonico San Pio X di Venezia, chiuse ogni spazio al dibattito sulla democrazia nella Chiesa e l’uguaglianza tra i suoi membri. Nella Chiesa, affermò il segretario di Stato vaticano, «la fondamentale e uguale dignità e partecipazione che tutti hanno in forza dell’unico battesimo, viene esercitata secondo una diversità di funzioni», avendo quindi come risultato «distinzione e ineguaglianza tra i membri». Non è pensabile, proseguì il cardinale, una Chiesa «che riposi solamente sulle decisioni di una maggioranza», perché diverrebbe «una Chiesa puramente umana, ridotta al livello di ciò che è fattibile e plausibile, di quanto è frutto della propria azione e delle proprie intuizioni e opinioni, in cui quest’ultime sostituiscono la fede».
A livello di azione politica, Bertone sarà ricordato come l’uomo che ha condotto la Chiesa all’abbraccio mortale nei confronti del berlusconismo. Ma anche colui che tentò, riuscendoci solo in parte, di avocare alla Segresteria di Stato il compito di gestire i rapporti con la politica italiana e le sue istituzioni. Esautorando di fatto la Cei del dopo-Ruini, che per più di un quindicennio, come presidente della Cei, era stato l’arbitro assoluto delle scelte politiche della Chiesa in Italia.
Tutto iniziò con la direttiva del card. Bertone contenuta nella lettera al neoeletto presidente della Conferenza episcopale italiana Bagnasco, quando il 27 marzo 2007 il segretario di Stato invitò il capo della Cei a «riservare priorità all’evangelizzazione, alla catechesi dei giovani e degli adulti, ad una recuperata e motivata disciplina del clero e ad un impegno comune per la promozione specifica delle vocazioni al ministero presbiterale», facendo nel prosieguo della missiva intendere che era alla Segreteria di Stato vaticana che spettava la gestione dei rapporti con lo Stato italiano e con i partiti. La lettera doveva restare personale, ma Bertone la fece pubblicare sull’Osservatore Romano. Il messaggio era chiarissimo, ma restò in gran parte inascoltato dalla presidenza della Cei, col risultato di dare avvio ad una lotta durissima all’interno della gerarchia cattolica, durato sino allo scandalo Vatileaks.

Tappa di questo scontro, il cosidetto “caso Boffo”, dal nome del plenipotenziario di Ruini nel settore delle comunicazioni, Dino Boffo, dimessosi nel settembre 2009 dalla direzione di Avvenire, Sat2000 ed Inblu dopo le rivelazioni del 28 agosto 2009 fatte dal Giornale su una sua pregressa condanna penale per molestie. La “polpetta avvelenata” nei confronti del direttore di Avvenire era stata probabilmente preparata in ambito ecclesiastico ben prima di arrivare sulla scrivania del direttore del Giornale. A parte il fatto che il dossier su Boffo circolava da tempo, sia all’interno dell’Università cattolica di Milano che tra i vescovi, a confermare la pista “interna” fu, il 1° febbraio del 2010, proprio un incontro tra Boffo e Feltri. Avvenne a Milano, da Berti, uno dei ristoranti più frequentati dal jet set politico cittadino, con tavolo ben visibile, vicino all’entrata del locale. E infatti il giorno dopo ne parlarono tutti i giornali. Feltri ribadì a Boffo ciò che aveva appena detto in un’intervista al Foglio di Giuliano Ferrara (31/1/2010), e cioè che la copia del decreto penale (vera) e la velina (di oscura provenienza) su Boffo provenivano da ambienti istituzionali del Vaticano: «Una personalità della Chiesa di cui ci si deve fidare istituzionalmente mi ha contattato e fatto avere la fotocopia del casello giudiziale dove veniva riportata la condanna a Boffo e, assieme, una nota informativa che aggiungeva particolari sulla notizia». Feltri non svelava il nome della fonte, ma insisteva su un punto: era una persona di cui ci si doveva «istituzionalmente fidare», perché «non si poteva dubitare di lei». «Il suo emissario arrivò da me per portarmi la fotocopia, poi mi lasciò un foglietto che era un riassunto degli atti processuali, almeno così mi fu detto. In questa velina era scritto che chi aveva fatto questa molestia era un omosessuale». Velina anonima, che il ministro degli Interni Roberto Maroni escluse potesse essere stata redatta da fonti investigative o allegata ad alcun fascicolo giudiziario.

Per molti la “fonte” era Gian Maria Vian, direttore dell’Osservatore Romano molto vicino a Bertone. All’epoca, oltre che per l’egemonia sui rapporti con la politica, lo scontro Bertone-Ruini e Bertone-Cei si giocava sull’assalto del segretario di Stato ad alcune roccaforti del potere economico di Comunione e Liberazione nel campo della sanità. Complice il sostegno dell’Opus Dei, che ha accompagnato l’astro di Bertone fino all’epoca dello scontro sul tema strategico della “riforma” dello Ior, Bertone ambiva all’epoca a prendersi l’Istituto Toniolo, che attraverso il suo “Comitato permanente” controlla l’Università Cattolica di Milano, ma anche gli atenei di Brescia, Cremona, Piacenza, Roma, Campobasso, il Policlinico Agostino Gemelli di Roma, nonché la casa editrice Vita e Pensiero. Saldamente in mano di Ruini attraverso il rettore Lorenzo Ornaghi, ma anche in forza di una solida alleanza con Comunione e Liberazione e la Curia milanese, nel 2010 gli assetti di potere all’interno del Toniolo furono messi in discussione dal tentativo di Bertone di piazzare diversi suoi uomini nel Comitato Permanente dell’Istituto. La presa del Toniolo si inseriva nel più ampio progetto di acquisizione di ospedali cattolici da parte del Vaticano: il San Raffaele di Milano, il Bambin Gesù, l’Idi e il Policlinico Gemelli di Roma e la Casa Sollievo di San Giovanni Rotondo. Poi, progressivamente, a partire dal fallimento della cordata per l’acquisizione del San Raffaele guidata dal manager Giuseppe Profiti, dal presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi e dal finanziere Vittorio Malacalza, il progetto naufragò. Anche perché l’Opus Dei, che aveva sostenuto l’intraprendenza economico-finanziaria, oltre che quella politica, del card. Bertone, iniziò a far venire meno il proprio potente sostegno al segretario di Stato.

Il caso Ior e l’inesorabile declino

L’episodio clou di questo divorzio fu il caso Ior. Dal 2010 in Vaticano si gioca infatti la partita “trasparenza” nella gestione dello Ior. C’è chi vorrebbe entrare nella white list dei Paesi virtuosi dal punto di vista della trasparenza finanziaria, che passa necessariamente per il positivo giudizio di Moneyval (la Commissione di esperti sulla valutazione delle misure di antiriciclaggio monetario e di terrorismo finanziario del Consiglio d’Europa) e che consentirebbe all’istituto una maggiore facilità nei rapporti finanziari con gli altri Paesi, Italia in testa. Senza questo lasciapassare potrebbero inoltre ripetersi casi eclatanti come il clamoroso stop, ad inizio 2013, ai pagamenti tramite bancomat e carte di credito all’interno delle mura vaticane imposto da Bankitalia a Deutsche Bank Italia, che aveva la gestione dei terminali Pos, cioè le macchinette dove “strisciare” le carte in Vaticano, priva dell’autorizzazione necessaria per operare in Stati che agiscono fuori dalle normative dell’Unione Europea, come appunto è ancora il Vaticano.

D’altro canto, in Vaticano c’è però ancora chi preferirebbe mantenere il più possibile lo status quo, perché, con le severe norme internazionali e gli organismi di garanzia previsti per vigilarne il rispetto, le finanze vaticane passerebbero di fatto sotto il controllo dei poteri bancari e giudiziari italiani ed europei; inoltre, agendo di fatto come banca offshore, lo Ior è stato sinora il punto di riferimento di Paesi, banchieri e faccendieri che lo hanno utilizzato come canale di transito per capitali con destinazioni che dovevano restare segrete, o per operazioni illecite di ripulitura e riciclaggio. O per fondi destinati a sostenere la guerriglia controrivoluzionaria in America Latina o i regimi dittatoriali in Centro e Sud America; o per i soldi destinati a finanziare Solidarnosc ed altri movimenti di opposizione al socialismo reale nell’Est Europa; o per pagare la maxitangente Enimont. Ad incarnare queste due diverse visioni del futuro dello Ior due diverse fazioni di ecclesiastici. Uomini di Curia come i cardinali Angelo Sodano, Giovanni Battista Re, Agostino Cacciavillan, Jean-Louis Tauran, Attilio Nicora, sostenuti dalle lobby cattoliche più vicine agli interessi finanziari del capitalismo italiano ed europeo (Opus Dei, Cavalieri di Malta), hanno decisamente optato per una riforma dello Ior. Altri, più vicini agli interessi del capitale Usa (i Cavalieri di Colombo, ricchissima lobby statunitense vicina ai Repubblicani, che ha un immenso patrimonio investito nel campo sanitario ed assicurativo), hanno fatto perno sulla Segreteria di Stato e sul vecchio establishment ecclesiastico per boicottare le riforme. Il risultato è stato una lotta tra fazioni la cui intensità non ha conosciuto paragoni negli ultimi decenni. E che, invece che rimanere confinata all’interno dei Sacri Palazzi, è stata combattuta a colpi di rivelazioni, denunce, dossier fatti pubblicare sulla stampa di mezzo mondo.Dentro questa lotta di potere, anche il siluramento, nel 2011, del presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi, opusdeista e sostenitore della necessità della riforma dell’Istituto da lui guidato. L’operazione fu capitanata da Carl Anderson, membro del consiglio di sovrintendenza dello Ior, ma soprattutto capo supremo dei Cavalieri di Colombo. Alla fine, però, a sostituire Gotti Tedeschi è stato un uomo della cordata avversa a quella dei Cavalieri di Colombo: il presidente del ramo tedesco dei Cavalieri di Malta Ernst von Freyberg. La vittoria dell’ala “riformatrice” all’interno del Vaticano ha segnato irrimediabilmente la fine di Bertone. E delle sue ambizioni egemoniche.