Siria, le parole non dette dalla Santa Sede contro la tirannide

Francesco Peloso
http://ilmondodiannibale.globalist.it

A distanza di sei mesi dalla sua elezione Francesco si è trovato a dover intervenire sulla feroce crisi siriana, una sfida diplomatica e profetica difficile, piena di insidie e di zone d’ombra. Per altro nel dispiegamento della sua strategia Bergoglio è dovuto partire quasi da zero visto che la precedente ‘gestione’ – se si escludono alcuni interessanti interventi di Ratzinger all’angelus – non aveva prodotto molto in materia. Anche perché nei sacri palazzi si preferiva non toccare di fatto un equilibrio storico: la prossimità, cioè l’alleanza, fra i vescovi e le chiese locali e il regime di Bashar al Assad. Le differenze che pure esistevano all’interno del mondo cattolico in merito al giudizio da dare sulla guerra siriana venivano dunque ignorate, la vulgata prevalente restava quella dei cristiani perseguitati e da difendere, e a difenderli era la dittatura di Assad.

Così per comprendere l’importanza della svolta impressa da Bergoglio bisogna tener presente che questo era lo stato delle cose Oltretevere; nel frattempo, dopo due anni e mezzo di guerra, il caso siriano diventava oggettivamente drammatico: il ruolo delle varie potenze regionali assumeva connotati inquietanti mentre si moltiplicavano episodi di orrore (come in ogni guerra) su entrambi i fronti; il disastro umanitario intanto cresceva fino a toccare proporzioni incalcolabili.

E’ in questo contesto dunque che si colloca l’intervento della Santa Sede. Nello specifico il Vaticano è fra i pochi ad aver provato a dire alcune semplici ma essenziali cose che andavano fatte: il rispetto del diritto umanitario e l’aiuto ai profughi, la tutela dell’integrità territoriale del Paese per evitare il suo spezzettamento etnico, il rispetto dei diritti umani, l’affermazione del principio di parità fra tutti i cittadini a prescindere dalla fede e dal gruppo di appartenenza. La Santa Sede si è poi rivolta all’opposizione chiedendo di separarsi decisamente dai settori fondamentalisti ed estremisti. Ancora, va ricordato, il Papa dopo la diffusione della notizia relativa all’uso di armi chimiche, ha invocato sui responsabili di simili azioni non solo il giudizio di Dio ma anche quello della storia (cioè dei tribunali); un richiamo implicito ma abbastanza evidente anche al regime di Bashar.

Eppure se questo è un piano minimo di azione internazionale che dimostra una ripresa d’iniziativa da parte vaticana dopo anni di latitanza (ancor più significativa nel vuoto assordante dell’Europa), c’è, allo stesso tempo, un silenzio che pesa ancora come un macigno. Se infatti è corretto e giusto chiedere a quanti si battono contro il regime che non vi siano collusioni con gruppi armati fondamentalisti, manca – di nuovo – un qualsiasi richiamo a ciò che questo regime degli Assad è stato realmente negli ultimi decenni: vale a dire dittatura, sistema di potere spietato, agente persecutore di chi chiedeva libertà e diritti elementari e democrazia, infine governo che ha bombardato il proprio popolo e lo ha messo in fuga.

Certo la realpolitik impone, in questo momento, una certa misura nei termini se l’obiettivo è quello di aprire un negoziato. Si tocca però su questo crinale un punto che non è nuovo nella storia moderna della Chiesa, un fattore di contraddizione che tende a riproporsi con sempre maggiore urgenza nelle vicende ecclesiali e vaticane. Piazza San Pietro di sera è centro di veglia e preghiera per la pace e di giorno si trasforma in Stato che fa diplomazia; e però è la seconda funzione, alla fine, a influenzare e determinare la prima.

Una prudente gestione diplomatica, il pensiero anche alle comunità cristiane della Siria, impedisce di dire parole chiare contro le torture del regime? (Da episodi di questo tipo prese fra l’altro il via la rivoluzione siriana). Tale interrogativo resta inevaso perché anche la Chiesa su questo punto – che non implica il venir meno del ‘no’ alla guerra – non si è mai pronunciata.

D’altro canto prescindere da un simile giudizio ha delle conseguenze: il contrasto all’intervento americano, senza chiarezza, rischia infatti di confondersi ambiguamente, e più o meno involontariamente, con la posizione russa come se quest’ultima rappresentasse, secondo un vecchio e polveroso cliché, le ragioni di un Paese del sud del mondo e non fosse invece essa stessa figlia di un regime autoritario, avvelenatore di giornalisti e imprigionatore di oppositori. Infine, nell’incapacità o nella mancanza di volontà di parlar chiaro, risultano offuscate le ragioni stesse della pace laddove un teatro di guerra è già sotto i nostri occhi da oltre due anni durante i quali certo non sono mancate le informazioni circa l’enormità della strage in atto; il conflitto non comincia insomma ora – posto e direi non concesso che il Congresso dia il via libero a Obama per l’intervento.

Ci sembra da tempo arrivato il momento che la Chiesa dica parole definitive sui regime autoritari e su chi li guida, senza più concedere troppo a una terzietà che forse può essere caratteristica di un mediatore dell’Onu, ma di cui è difficile trovare tracce nel Vangelo.

La Chiesa-Stato e la Chiesa-profetica fanno dunque, nel mondo post-moderno, sempre più fatica a convivere, non a caso il problema rientra fra quelli che Francesco dovrebbe provare a sciogliere nelle varie ‘riforme’ cui dovrà mettere mano nei prossimi mesi; un processo, neanche questo, da dare per scontato o già per acquisito visti gli ostacoli che lo stesso Papa ha di fronte.