Un Dio che non interviene, ma partecipa e ama. Per una mutua interazione tra fede e scienza

Claudia Fanti
Adista Documenti n. 31 del 14/09/2013

Quanto sia grande lo spazio di ricerca che si apre ai teologi grazie ai contributi di scienze come la cosmologia o la biologia – uno spazio che diversi di loro stanno in effetti già esplorando da tempo – lo evidenzia con grande chiarezza l’astronomo e gesuita statunitense George V. Coyne, direttore della Specola Vaticana dal 1978 al 2006 e tuttora a capo di un gruppo di ricercatori presso l’Università dell’Arizona. Invitato a partecipare, dal 2 al 5 ottobre 2012, al XIII Simposio Internazionale dell’Instituto Humanitas Unisinos (l’Università gesuita del Vale do Rio dos Sinos, a São Leopoldo, nel Rio Grande do Sul; www.ihu.unisinos.br) sul tema “Chiesa, cultura e società: la semantica del Mistero della Chiesa nel contesto delle nuove grammatiche della civiltà tecnoscientifica”, Coyne ha negato decisamente, nella sua relazione, l’incompatibilità tra la dottrina della creazione e una qualunque spiegazione scientifica delle origini dell’universo, sia pure quella della creazione dell’universo dal nulla (dove per nulla si intende il vuoto quantico, un equilibrio dinamico di particelle di materia e di antimateria in continuo annichilimento, dalle cui fluttuazioni, secondo le più recenti teorie, dovrebbe essere nato il nostro universo): una teoria, questa, in base a cui, per esempio, il matematico e astrofisico britannico Stephen Hawking nega la necessità di Dio per spiegare l’origine dell’universo. A prescindere dal fatto che, nota Coyne, «tali spiegazioni soffrono anch’esse di problemi di verificabilità» e «ci si chiede anche se offrano realmente spiegazioni ultime», lasciando per esempio «ancora aperta la domanda riguardo alle origini dello stato precedente in cui si sono verificate le fluttuazioni quantistiche», il fatto è che per il gesuita «la vera fede in Dio non sorge dimostrando la sua esistenza attraverso qualcosa come un processo scientifico». Semplicemente, evidenzia Coyne, «Dio non è una risposta a una necessità»: «Non dovremmo aver bisogno di Dio; dovremmo accettarlo quando viene a noi».

In ogni caso, se nessuna spiegazione può avere implicazioni riguardo all’esistenza o meno di Dio, né per affermarla né per negarla, Coyne è convinto che la descrizione scientifica delle origini abbia invece «molto a che vedere con la mia conoscenza di Dio, nel caso io creda che Dio esiste». Se, infatti, evidenzia il gesuita, si prendono sul serio i risultati della scienza moderna, questa «ci parla di un Dio che deve essere molto diverso dal Dio visto dai filosofi e dai teologi medievali». Un Dio che – scrive Coyne, il quale comunque, a differenza di altri teologi, non giunge mai a mettere in discussione il concetto di un Dio personale – «nella sua libertà infinita crea continuamente un mondo che riflette questa libertà a tutti i livelli del processo evolutivo in direzione di una complessità sempre più grande», un Dio che, cioè, «lascia che il mondo sia quello che sarà nella sua evoluzione continua. Non interviene, ma permette, partecipa, ama».

Di seguito, in una nostra traduzione dal portoghese, ampi stralci dell’intervento dell’astronomo e gesuita statunitense, pubblicato sul numero 78 dei Quaderni di Teologia Pubblica dell’Instituto Umanitas Unisinos.

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Le implicazioni dell’evoluzione per la semantica della fede

George V. Coyne

Alla base del tema che intendo affrontare vi sono le seguenti domande: fino a che punto ciò che sappiamo attraverso la scienza riguardo all’evoluzione della vita nell’universo può influenzare il nostro atteggiamento religioso? E, d’altro canto, fino a che punto il pensiero religioso può offrire un contributo alla nostra comprensione scientifica delle origini e dell’evoluzione della vita nell’universo?

Tale duplice domanda implica il rischio serio di trasgredire l’indipendenza epistemologica delle varie discipline: teologia, filosofia, astrofisica, biologia e cosmologia, e di creare, con ciò, più confusione che comprensione. Nel corso dell’esposizione, dovremo mantenere una posizione coerente rispetto alla difesa dell’integrità di ciascuna delle discipline, specialmente riguardo al rapporto tra scienze naturali e teologia. La storia ha già mostrato quale effetto disastroso possa derivare dal venir meno a questo compito.

È impossibile negare la reale importanza assunta durante l’Illuminismo dalla teologia naturale, ultimo caso storico di interazione significativa tra scienza e teologia. Il culmine di tale movimento è rappresentato da Isaac Newton. Per Newton, non c’era alcuna ragione nota del fatto che tanto i pianeti quanto le loro lune si muovessero tutti quasi sullo stesso piano, non rispondendo ciò ad alcuna necessità naturale, dal momento che molte comete del sistema solare si muovono in orbite fortemente inclinate rispetto a tale piano. L’assenza di ragioni scientifiche e il rifiuto di Newton di considerarle come mere coincidenze lo portarono a concludere che «i movimenti dei pianeti non potrebbero derivare solo da una causa naturale, ma sono fissati da un Agente intelligente», un agente che Newton esalta in termini, per così dire, di ammirazione professionale, in quanto «sistemare tutte queste cose insieme in una varietà tanto grande di corpi dimostra che quella causa non è cieca né fortuita, ma assai ben istruita in meccanica e geometria». Ed è così che è nato il grande “Dio dei Vuoti”, il Dio che spiega ciò che la scienza non può spiegare.

(…) Il risultato finale, a mio giudizio, è che nell’epoca dell’Illuminismo e dell’ondata di razionalità scientifica, la maggior parte degli scienziati, che erano credenti, non furono ragionevoli nel loro appoggio alla fede religiosa, in quanto cercavano di fondare tale fede su basi puramente razionali. (…). Per quanto il raziocinio filosofico e teologico (…) non contraddica, in sé, qualunque discorso razionale, la vera fede religiosa è, in mancanza di un termine migliore, trascendente. Va al di là del razionale. (…).

LA SCIENZA DELL’EVOLUZIONE

È difficile trovare un tema più delicato di quello delle origini e dell’evoluzione dell’universo e, specialmente, della vita e dell’intelligenza nell’universo, rispetto alla possibilità che tali origini possano essere intese senza tirare in ballo un Dio creatore. La gamma di risposte va dall’estremo di uno Stephen Hawking a quello di un Pio XII passando per quasi tutte le posizioni intermedie possibili. Hawking sostiene che, se la sua teoria cosmologica quantistica delle origini dell’universo senza condizioni di contorno è corretta, non abbiamo bisogno di Dio. Pio XII ha cercato di sostenere che con le cosmologie del Big Bang gli scienziati stavano scoprendo quello che già si sapeva dalla Genesi, cioè che l’universo ha avuto inizio nell’azione creatrice di Dio. In mezzo, abbiamo posizioni come quelle del naturalismo evolutivo e dell’intervento divino episodico. I naturalisti evolutivi ritengono che, per quanto la nostra conoscenza scientifica dell’evoluzione sia limitata, la migliore spiegazione dell’universo e di tutto ciò che esso contiene è quella di un’evoluzione attraverso una complessità crescente in un sistema in espansione in cui tanto processi deterministici quanto processi casuali svolgono il loro ruolo in un universo ricco di opportunità (…). Quanti seguono l’ipotesi dell’intervento divino episodico sostengono che l’attività divina sia necessaria almeno in alcune fasi del processo evolutivo e, particolarmente, nell’apparizione della vita e dell’intelligenza umana, perché i processi naturali da soli non sono adeguati a spiegare il risultato finale. (…).

L’universo ha 13,7 miliardi di anni e contiene circa 100 miliardi di galassie, ciascuna delle quali contiene in media 200 miliardi di stelle di un’immensa varietà. L’universo si espande da 13,7 miliardi di anni a partire dal Big Bang. Siamo a 13,7 miliardi di anni-luce distanti dal Big Bang e, con grandi telescopi, guardiamo all’indietro fin quanto possiamo. Quanto più lontano guardiamo nell’universo, tanto più indietro nel tempo stiamo volgendo lo sguardo. Pertanto, quando guardiamo indietro di 12 miliardi di anni, stiamo osservando l’universo quando era giovane. (…).

Come nasce una stella? Una nube di gas e polvere da 100 a 1.000 volte la massa del nostro sole, inizia a rompersi e pezzi di nube cominciano a collassare fino a raggiungere una temperatura interna di milioni di gradi, trasformandosi in una fornace termonucleare. Nasce una stella. In questa fornace, la stella vive convertendo idrogeno in elio, elio in carbonio e, se ha una massa sufficiente, carbonio in ossigeno, in azoto, ecc. fino ad arrivare al ferro. Nella sua vita, una stella converte gli elementi più leggeri in quelli più pesanti. Anche le stelle muoiono. Una stella alla fine della sua vita non riesce più a sostenere una fornace termonucleare e, così, non può più resistere alla gravità. Collassa, esplode ed espelle la sua atmosfera nell’universo.

Pertanto, le stelle nascono e muoiono. E, morendo, lanciano resti di materia stellare per l’universo. A partire da questo gas proveniente dai resti di una supernova nascerà un’altra generazione di stelle. La nascita e la morte delle stelle sono determinanti: se non avvenissero, non saremmo qui. Per ottenere gli elementi chimici indispensabili per il corpo umano, sono state necessarie tre generazioni di stelle. Per ottenere la chimica necessaria alla vita, è stato necessario che le stelle rigurgitassero materiale per l’universo. (…). A partire da tutto questo processo intorno a una stella che chiamiamo sole, è apparso un gruppo di pianeti tra cui il piccolo granello di sabbia a cui diamo il nome di Terra. Una cosa meravigliosa è avvenuta su quel piccolo granello. Nel XVI e nel XVII secolo, con la nascita della scienza moderna, abbiamo sviluppato la capacità di collocare l’universo nella nostra testa.

È chiaro che non sappiamo tutto sul processo dell’evoluzione biologica nel contesto dell’evoluzione cosmologica. Ma la migliore spiegazione scientifica presentata fino ad ora è che, attraverso l’evoluzione neodarwiniana, il cervello umano si pone come il risultato di un processo di complessificazione chimica in un universo in evoluzione. Quando l’universo si è arricchito di certe sostanze chimiche di base attraverso tre generazioni di stelle, queste sostanze, in passi successivi, si sono unite per formare molecole sempre più complesse. Infine, in un qualche straordinario processo chimico, è apparso il cervello umano, la più complicata macchina che conosciamo.

Affrontiamo ora una questione fondamentale per la fede cristiana. Sorgiamo per caso o per necessità in un universo in evoluzione? Basandomi sul meglio della scienza moderna, rispondo descrivendo la danza dell’universo fertile. Da 13,7 miliardi di anni, l’universo è impegnato in una fertile danza. Una delle ballerine è il caso. Quando parliamo di caso, intendiamo che non è sicuro che un dato evento si verificherà. L’“incertezza” può essere calcolata in termini matematici. (…). Un buon esempio di un avvenimento casuale è quello di due molecole molto semplici che vagano nell’universo e si incontrano per caso, destinate – essendo questa la natura di tali molecole – a formare una molecola più complessa. Le condizioni di temperatura e di pressione, tuttavia, sono tali da impedire che questo legame chimico si realizzi e così le due molecole si allontanano. Esse, o molecole a queste identiche, si incontrano tuttavia miliardi e miliardi di volte, persino trilioni di volte, in questo universo, finché non si incontrano nelle giuste condizioni di temperatura e di pressione. (…). L’aspetto da evidenziare è che, a partire da un’analisi strettamente matematica, chiamata matematica della dinamica non lineare, si può dire che, nella misura in cui va avanti tale processo e si sviluppa un maggior numero di molecole complesse, c’è sempre più direzionalità nel processo. A misura che la complessità aumenta, cioè, la complessità futura diventa sempre più predeterminata. Tutto ciò (…) può essere rappresentato da un albero, l’Albero dell’Universo. Tutto quello che si è verificato nell’universo, dalla formazione dei quark fino a quella delle dita del piede, è presente in esso, compresi quei processi che non sono andati a buon fine, ogni incontro di molecole in circostanze sfavorevoli. L’albero non è mai stato potato. Ma se una brezza leggera soffia su questo albero, cosa si vedrà? Qualcosa che ricorda il tronco nudo di un albero con una certa ramificazione estesa a varie forme di vita e al cui vertice c’è l’essere umano. Il risultato è inevitabile, perché con una combinazione di processi casuali e necessari in un universo così fertile, con tante opportunità, si determina un restringimento del processo evolutivo a causa della natura della fisica, della chimica, della biologia e della dinamica non lineare. (…). Oltre a ciò, gli scienziati hanno constatato che sembra esserci una regolazione fine (Fine Tuning, ndt) nell’universo in direzione della vita umana. Tutte le leggi e le costanti della natura presentano un valore così ben determinato che, se ci fosse una qualsiasi piccola variazione, questa non permetterebbe alla vita di essere così come la conosciamo.

LA RICERCA DI VERITÀ

(…) Non abbiamo certamente la conoscenza scientifica per spiegare dettagliatamente come ogni creatura viva è venuta all’esistenza. (…). Quel che più conta è che non conosciamo con esattezza scientifica gli elementi sufficienti in natura per produrre nell’evoluzione la continuità genealogica ininterrotta che riteniamo sia effettivamente avvenuta. (…). Quello che presentiamo è la più adeguata spiegazione concepibile in questo momento considerando i dati empirici disponibili. (…). Nelle scienze naturali vi è una serie di criteri in base a cui una spiegazione è ritenuta la migliore. Definirei i criteri principali in questo modo: 1) verificabilità, nel senso che esiste, almeno in principio, un modo di giudicare se la spiegazione combina con i dati; 2) prevedibilità, nel senso che, a partire dai dati sugli avvenimenti passati o presenti, è possibile prevedere avvenimenti futuri e osservare poi se quegli avvenimenti avvengono effettivamente; 3) semplicità o economia, nel senso che serve il minimo possibile per ottenere il maggiore potere esplicativo; 4) bellezza, nel senso della qualità estetica della spiegazione: per quanto questo appaia, specialmente per le scienze naturali, un criterio assai soggettivo, quasi tutte le grandi scoperte scientifiche si sono beneficiate della sua applicazione; 5) potere esplicativo unificatore, nel senso che il tentativo di comprensione è anche in armonia con tutto ciò che sappiamo, anche con quanto sappiamo al di fuori delle scienze naturali.

È di quest’ultimo criterio che vorrei trattare, in quanto mi pare che estenda la semantica delle scienze naturali in direzione dell’ambito di altre discipline, specialmente della fede cristiana. (…). Quand’è che l’unificazione non è realmente unificatrice, ma piuttosto un’adulterazione della conoscenza ottenuta da una disciplina con i presupposti inerenti ad un’altra altra disciplina (…)? La storia è piena di esempi di tali adulterazioni. È per questa ragione che gli scienziati hanno sempre esitato ad usare tale criterio. Ma, se applicato con cautela, mi pare un criterio estremamente creativo per il progresso della nostra conoscenza e, di conseguenza, della nostra fede. La supposizione è che esiste una base universale per la nostra comprensione e, poiché tale base non può autocontraddirsi, la comprensione che otteniamo a partire da una disciplina dovrebbe essere complementare a quella che otteniamo a partire da tutte le altre discipline. (…). Ciò significa nella pratica che, allo stesso tempo in cui restiamo fedeli ai rigorosi criteri di verità della nostra disciplina, siamo aperti ad accettare il valore di verità delle conclusioni di altre discipline. E tale accettazione non deve restare solo passiva, nel senso di non negare tali conclusioni, ma anche attiva, nel senso che le integriamo alle conclusioni derivate dalla nostra stessa disciplina. Ciò, è chiaro, non vuol dire che non ci sia conflitto, e persino contraddizione, tra le conclusioni raggiunte dalle varie discipline. Ma, se realmente accettiamo la base universale di cui ho parlato prima, conflitti e contraddizioni devono essere visti come temporanei e apparenti. (…).

UN’INTERAZIONE MUTUA: LA SCIENZA E LA SEMANTICA DELLA FEDE CRISTIANA

Tale esposizione è particolarmente pertinente quando affrontiamo questioni fondamentali e ultime come l’origine della vita e il suo senso per la fede cristiana. L’esistenza di esseri intelligenti nell’universo ha qualche significato per la comprensione dell’universo come un tutto? La nostra conoscenza di Dio dipende dalla nostra conoscenza dell’universo? In effetti, un indizio molto forte che vi sia una base universale per la comprensione è l’impulso molto chiaro dell’essere umano a cercare un senso. (…). Vi sono due temi di particolare importanza per l’interazione mutua tra scienza e fede cristiana: 1) l’evoluzione biologica e la natura dell’essere umano; 2) la cosmologia scientifica e la fede cristiana in un Dio creatore. Li affronterò uno per volta.

UN’INTERAZIONE MUTUA: L’EVOLUZIONE E LA PERSONA

Per ragioni storiche, e non per ragioni veramente religiose, l’evoluzione biologica è stata l’enigma delle religioni. Il pensiero religioso fondamentalista la nega. Il pensiero cattolico, nella misura in cui matura, l’accetta come scientificamente verificata, ma esita rispetto al modo di affrontarla. Perché questo rifiuto e questa esitazione? È perché Dio deve essere onnipotente e avere tutto sotto controllo? Il dinamismo intrinseco all’universo in evoluzione sembra sottrargli tale onnipotenza. (…).

Potremmo dire che Dio crea attraverso il processo di evoluzione e che, pertanto, la sua è una creazione continua. Considerando che, in ultima analisi, non può esserci contraddizione tra la vera scienza e le verità religiose rivelate, il miglior modo di intendere questa creazione continua è in termini di una migliore comprensione scientifica dell’apparizione dell’essere umano. Mi pare che tale comprensione venga espressa nella seguente affermazione dell’eminente chimico evolutivo Christian de Duve (…): l’evoluzione, per quanto dipendente da eventi casuali, avanza sotto una serie di costrizioni interne ed esterne che la spingono a muoversi in direzione di una maggiore complessità, se le circostanze lo permettono. Se tali circostanze fossero state differenti, l’evoluzione avrebbe potuto seguire un diverso corso nel tempo. Avrebbe potuto produrre organismi diversi da quelli che conosciamo, forse anche esseri pensanti diversi dagli umani.

Questa contingenza nell’apparizione dell’essere umano contraddice la verità religiosa? Mi pare di no, se i teologi possono sviluppare una comprensione più profonda della creazione continua di Dio. Dio, nella sua libertà infinita, crea continuamente un mondo che riflette questa libertà in tutti i livelli del processo evolutivo per una complessità sempre più grande. Dio lascia che il mondo sia quello che sarà nella sua evoluzione continua. Non interviene, ma permette, partecipa, ama. (…).

UN’INTERAZIONE MUTUA: LA COSMOLOGIA SCIENTIFICA E LA FEDE CRISTIANA

(…) Quello che viene proposto, per esempio, quando parliamo della regolazione fine dell’universo può essere un invito a tornare ad un esame del concetto religioso della creazione dell’universo da parte di Dio sullo sfondo delle cosmologie moderne. (…).

Una delle più produttive aree di ricerca nella cosmologia moderna è l’applicazione della meccanica quantistica a un’analisi delle origini e dei primi passi dell’universo. È importante considerare che la nostra conoscenza osservazionale delle origini e dei primi momenti dell’universo è assai limitata, per non dire inesistente. Ma possiamo recuperare in modo abbastanza rigoroso le condizioni fisiche che caratterizzavano questi istanti applicando la fisica e la matematica a ciò che osserviamo nell’universo attualmente. Tra la miriade di questi dati, sono tre le principali osservazioni che emergono e ci permettono di ricostruire l’universo incipiente: 1) a partire dalla misurazione delle galassie e degli insiemi di galassie distanti, sappiamo che l’universo si sta espandendo secondo condizioni molto precise; 2) a partire dalla misurazione dell’abbondanza di elio, litio, deuterio e di altri elementi leggeri, sappiamo che gran parte di questo materiale è stato creato in condizioni di temperatura e di densità estremamente elevate nell’universo incipiente; 3) a partire da una misurazione della temperatura attuale dell’universo, la cosiddetta radiazione cosmica di fondo, possiamo stabilire le condizioni di temperatura dell’universo incipiente. Quando combiniamo tutto ciò con altre osservazioni, possiamo determinare l’età dell’universo, la sua massa approssimativa e la sua densità media.

(…). Ma le domande scomode restano. Come è iniziato tutto? Quando tutto è cominciato, non c’erano certe condizioni iniziali a determinarne l’evoluzione? L’universo è realmente apparso in tutta la sua specificità a partire da fluttuazioni quantistiche? Tali considerazioni soffrono anch’esse di problemi di verificabilità. Ci si chiede anche se offrano realmente spiegazioni ultime.

È proprio qui, credo, che la semantica della scienza e quella della fede cristiana potrebbero interagire fruttuosamente. Molti dei concetti che costituiscono ingredienti essenziali dei modelli cosmologici presentano importanti implicazioni nel pensiero religioso e tali implicazioni possono anche arricchire il pensiero cosmologico (…). Esplorando queste implicazioni, però, è essenziale che il significato fondamentale dei concetti nelle varie discipline non sia confuso. (…).

Nei modelli cosmologici del Big Bang l’universo ha avuto un inizio. Questo inizio nel tempo è uguale a zero e costituisce una singolarità matematica: non può essere affrontato, cioè, dalla matematica o dalla fisica Per evitare questa singolarità, si sostiene che la gravità quantistica debba essere applicata alle condizioni estreme dell’inizio dell’universo. (…). La maggior parte degli approcci esige un’origine del nostro universo specifico a partire da fluttuazioni quantistiche di uno stato precedente (…). Tali approcci trattano però solo di inizi relativi. E lasciano ancora aperta la domanda riguardo alle origini dello stato precedente in cui si sono verificate le fluttuazioni quantistiche. Ma queste considerazioni attorno alla gravità quantistica relative all’origine dell’universo cosa hanno a che vedere, per esempio, con le considerazioni religiose rispetto alla creazione dell’universo nel tempo e a partire dal nulla (creatio ex nihilo)?

(…) La chiave per intendere la differenza tra creazione e origine è la nozione di cambiamento. I cambiamenti in natura sono l’oggetto di studio delle scienze naturali. (…). Tutti esigono un’entità esistente che cambi. Le scienze naturali non si occupano in alcun modo della questione dell’esistenza: trattano dell’esistenza di una forma specifica e dei mutamenti nella natura che producono forme specifiche di esistenza. (…). La creazione non si occupa della catena di avvenimenti che producono una particolare specie di essere. Si occupa della fonte dell’essere di tutto ciò che esiste. Non si tratta dell’evoluzione di una specie a partire da un’altra. Creare non significa lavorare sulla base di qualche materiale già esistente. (…). Creare non significa prendere “nulla” e farne “qualcosa”, nel senso di cambiarlo dal non essere all’essere. Esistere significa dipendere da una fonte dell’esistenza. Pertanto, la creazione non è esclusivamente, e neppure principalmente, un avvenimento distante; creare è la causalità continua, completa dell’esistenza di tutto ciò che è.

Pertanto, non può esserci un conflitto necessario tra la dottrina della creazione e una qualunque spiegazione scientifica delle origini. Le scienze naturali cercano di spiegare il mutamento e le origini del mutamento. Che i mutamenti descritti siano biologici o cosmologici, abbiano un inizio o meno, siano senza fine o temporalmente finiti, restano comunque processi. (…). Così, presupponendo che qualcosa esista, il modo in cui la vita si è originata da questo qualcosa è una questione scientifica. Perché esiste qualcosa, e non niente, non è una questione scientifica. Le percezioni religiose dei primordi parlano della creazione a partire dal nulla (creatio ex nihilo). C’è una confusione persistente tra concezioni cosmologiche e metafisiche/religiose del “nulla”. Le concezioni cosmologiche quantistiche dei primordi parlano di “fluttuazioni del vuoto” e alcuni sono tentati di equiparare questo “vuoto” al “nulla” dei teologi. Ma è completamente sbagliato. Il “vuoto” della meccanica quantistica è qualcosa, per quanto sia appena un concetto matematico. Parlare di “creazione a partire dal nulla” in filosofia o teologia significa che si sta negando che una qualunque materia sia mutata o trasformata in qualcosa d’altro. (…).

Il creatore è considerato anteriore a ciò che è creato, ma l’anteriorità, in realtà, non è temporale. La relazione è metafisica e non temporale. Che la creatura sia creata a partire dal nulla non significa che prima sia niente e poi qualcosa. Significa che la creatura ha un’esistenza dipendente. Gli antichi filosofi della natura pensavano che l’universo fosse eterno nel senso di non avere un inizio. Alcuni cosmologi propongono che la stessa nozione di temporalità sia un concetto sussidiario. (…). Alcuni propongono anche che vi sia un'”inflazione eterna”, una serie infinita di universi all’interno di universi. Anche così, tutti questi universi esigerebbero una creazione per venire ad essere. Non c’è contraddizione neppure con la nozione di un universo creato eterno. Poiché, se anche l’universo non avesse un inizio temporale, questo dipenderebbe ancora da un creatore per venire ad essere. La dipendenza radicale da una fonte fondamentale dell’essere come “causa” dell’essere è ciò che creazione significa.

Affermare la creazione o negarla sulla base di teorie scientifiche rappresenta una comprensione erronea tanto delle origini quando della creazione. Il Big Bang descritto dai cosmologi moderni non è creazione. L’evoluzione della vita nell’universo non è creazione. (…). La creazione si riferisce alla ragione ultima dell’esistenza di tutte le cose. Le scienze naturali cercano le forme attraverso le quali le cose sono venute ad essere, le loro origini. Di conseguenza, è sbagliato concludere che vi siano implicazioni per un creatore nel caso l’universo sia interamente contenuto in se stesso, senza singolarità o contorni, e completamente descritto da una teoria unificata. (…).

I LIMITI DELLA NOSTRA CONOSCENZA E LA RICERCA DELLA FEDE CRISTIANA

(…) Per quanto la teologia sia una scienza, una forma razionale di conoscenza in se stessa, si dice che essa proviene dalla fede e conduce ad una comprensione della fede (fides quaerens intellectum). Ciò la rende soggetta a tutte le false illusioni che possono sorgere dal comportamento puramente soggettivo, ed essa è chiamata sempre a lottare per separare queste illusioni da ciò che è oggettivamente vero. È chiamata prima di tutto, nel mondo di oggi, a confrontarsi con la nostra conoscenza scientifica dell’evoluzione della vita. Se avviassimo il dialogo accennato in questa relazione, arriveremmo subito a percepire che l’esistenza di un progetto nell’universo derivato da un punto di vista religioso non è incompatibile con la nostra conoscenza scientifica dell’origine e dell’evoluzione della vita. O arriveremmo a percepire che quella tendenza inevitabile esistente nell’universo fisico in direzione di strutture più complesse è un invito a pensare al di là della scienza verso una sintesi più profonda della nostra comprensione dell’evoluzione scientifica e della nostra fede cristiana.

Ciò che importa è rendersi conto che, tanto nell’approccio scientifico quanto in quello religioso, noi stiamo cercando la verità, che non possediamo ancora. Ma è chiaro che l’evoluzione è una caratteristica intrinseca e peculiare dell’universo. Né l’universo come un tutto né qualunque dei suoi ingredienti possono essere intesi se non in termini di evoluzione. E l’evoluzione è un avvenimento quotidiano. Noi stiamo, per esempio, permutando costantemente atomi con la riserva di atomi dell’universo. Ogni anno, il 98% degli atomi del nostro corpo è rinnovato. Ogni volta che respiriamo, assorbiamo miliardi e miliardi di atomi riciclati da tutti gli altri organismi respiratori durante le ultime settimane. Nulla di ciò che sta nei miei geni era presente un anno fa. Tutto è nuovo, rigenerato a partire dall’energia e dalla materia disponibile nell’universo. La mia pelle è rinnovata ogni mese e il mio fegato ogni sei settimane. Insomma, gli esseri umani sono tra gli esseri più riciclati dell’universo.

Come dobbiamo interpretare la descrizione scientifica delle origini della vita in termini di fede religiosa? (…). Dio non è una risposta a una necessità. Si ha l’impressione, nel caso di certi credenti, che sperino ingenuamente nella permanenza di certe lacune nella nostra conoscenza scientifica dell’evoluzione per poterle riempire con Dio. Ciò è esattamente l’opposto di quello che significa l’intelligenza umana. Dovremmo cercare la pienezza di Dio nella creazione. Non dovremmo aver bisogno di Dio; dovremmo accettarlo quando viene a noi. (…). La vera fede in Dio non sorge dimostrando la sua esistenza attraverso qualcosa come un processo scientifico. Non si incontra Dio come conclusione di un processo razionale di questo tipo. (…). Ha un senso che vi sia un Dio personale che è legato a noi, che ci ama e che si è dato a noi. La fede consiste nell’arrivare ad amare Dio perché accettiamo il fatto che ha preso l’iniziativa di venire a noi. L’affermazione che tutte le cose sono create è un’affermazione religiosa che tutto ciò che esiste dipende da Dio per esistere. (…). L’universo non è Dio e non può esistere indipendentemente da Dio. (…).

Ma se confrontiamo quello che sappiamo scientificamente delle origini con la fede religiosa nel Dio creatore, cosa ne risulta? Io direi che la comprensione scientifica dettagliata delle origini non ha alcuna incidenza sul fatto se Dio esista o no. Ha molto a che vedere con la mia conoscenza di Dio, nel caso io creda che Dio esiste. (…). Tenterò di spiegare.

Prendiamo due concezioni scientifiche contrapposte delle origini: quella di Stephen Gould di un processo evolutivo episodico, totalmente contingente e, pertanto, non ripetibile, e quella proposta da Christian de Duve di un processo evolutivo convergente in cui l’interazione di caso, necessità e opportunità conduce inevitabilmente alla vita e all’intelligenza. In entrambi i casi è scientificamente difendibile sostenere l’autonomia e autosufficienza dei processi naturali, di modo che il ricorso a Dio per spiegare l’origine di tutto ciò che esiste non è necessario. (…). Tuttavia, se credo in Dio, allora quello che la natura mi dice su Dio in un caso è molto diverso da quello che mi dice nell’altro. Si noti che non sto ricorrendo alla fede per giudicare tra punti di vista scientifici in conflitto. Penso effettivamente che l’evoluzione convergente è più coerente con l’autorivelazione di Dio nelle Scritture di modo che, come Galileo amava dire, il Libro della Scrittura e il Libro della Natura parlano dello stesso Dio. Se prendiamo sul serio i risultati della scienza moderna, sarà difficile credere che Dio sia onnipotente e onnisciente nel senso dei filosofi scolastici. La scienza ci parla di un Dio che deve essere molto diverso dal Dio visto dai filosofi e dai teologi medievali. Per esempio, potrebbe Dio, dopo 1 miliardo di anni in un universo con 14 miliardi di anni di età, aver previsto che la vita umana sarebbe venuta ad esistere? (…). Se veramente accettiamo la concezione scientifica in base a cui, oltre ai processi necessari e alle opportunità immense offerte dall’universo fertile, vi sono anche processi casuali, allora sembrerebbe che neppure Dio avrebbe potuto sapere il risultato con certezza. Dio non può sapere ciò che non è conoscibile. Il teologo, è chiaro, darebbe una risposta diversa. Dio è trascendente, è al di fuori del tempo e dello spazio. Tutti gli avvenimenti sono simultanei ai suoi occhi. Ma io ho voluto accentuare l’immanenza di Dio in un universo in cui la nostra conoscenza scientifica rispetto alle origini della vita deve avere un’incidenza sulla semantica della nostra fede cristiana.

Questa enfasi sull’immanenza di Dio non intende limitarlo. Tutt’altro. Essa rivela un Dio che ha fatto un universo che presenta un certo dinamismo e, così, partecipa della stessa creatività di Dio. (…). Se rispettano i risultati della scienza moderna, i credenti devono allontanarsi dalla nozione di un Dio dittatore, un Dio newtoniano che ha fatto l’universo come un orologio che ticchetta regolarmente. Nella semantica della fede religiosa, Dio dovrebbe forse essere visto più come un padre o una madre, o come chi rivolge parole di incoraggiamento e di sostegno. (…). I teologi già possiedono il concetto di creazione continua di Dio. Integrare i risultati della scienza moderna in questa nozione di creazione continua sarebbe un’esperienza molto arricchente per i teologi e i credenti. Dio sta operando con l’universo. L’universo ha una vitalità propria, come quella di un bambino. (…). Un padre o una madre devono permettere che il bambino cresca e diventi adulto, faccia le proprie scelte, segua la propria strada nella vita. Parole che danno vita sono più ricche che meri ordini o informazioni. È in questo modo che Dio si rapporta con l’universo.

Si tratta di immagini molto deboli, ma in che altro modo possiamo parlare di Dio? Possiamo soltanto arrivare a conoscerlo per analogia. L’universo che conosciamo attualmente attraverso la scienza è un modo di trarre conoscenza analogica su Dio. Per le persone che accettano l’idea che la scienza moderna ci dica effettivamente qualcosa su Dio, essa pone una sfida, una sfida arricchente, per le credenze tradizionali su Dio. Dio, nella sua libertà infinita, crea continuamente un mondo che riflette questa libertà in tutti i livelli del processo evolutivo in direzione di una complessità sempre più grande. Dio lascia che il mondo sia quello che sarà nella sua evoluzione continua. Non interviene, ma permette, partecipa, ama. Questo tipo di pensiero è adeguato per preservare il carattere speciale attribuito dal pensiero religioso all’apparizione non solo della vita, ma anche dello spirito, evitando, allo stesso tempo, un rozzo creazionismo? Solo un dialogo approfondito darà la risposta.