Un paese dove farsa e tragedia coesistono senza fine

Peter Ciaccio
vociprotestanti.it, 3 ottobre 2013

Il risveglio è stato brusco. Negli ultimi giorni abbiamo vissuto una commedia ad opera di uno scrittore scadente. Una farsa con balletto, un’operetta di infimo livello, ma sempre una commedia, dal titolo “Cade o non cade”. Le location erano i palazzi di Roma, col pensiero a Francoforte, New York e alla residenza del cagnolino Dudù.

I personaggi erano i parlamentari, circondati dal circo mediatico. La vera novità era nel coro, un coro 2.0: decine, centinaia, migliaia di coreuti, tutti a commentare su Twitter e Facebook i movimenti dei personaggi, che, come da tradizione portano la maschera. Cerimonie e liturgie, ciascuna con il suo gran cerimoniere o liturgo.

Ogni personaggio ha il suo ruolo: chi minimizza e chi fa la cassandra, chi è fedele e poi tradisce e chi tradisce per rimanere fedele. Tensione massima sul finale, quando l’antagonista — quello con la maschera dionisiaca, per intenderci — si propone come deus ex machina e comunica di averci ripensato, di aver scherzato. Chiosa finale del protagonista che sussurra: «È un grande!»

Una farsa. Storicamente la farsa nasce per “farcire”, per riempire lo spazio tra due tragedie. E, come da copione, finita la farsa è arrivata la tragedia.

Una barca carica di profughi va a fuoco al largo di Lampedusa. Si parla di 500 naufraghi, centinaia di morti. Il mare restituisce cadaveri che galleggiano sull’acqua.

Nell’isola si danno da fare. È l’ennesima emergenza e bisogna sbrigarsi a raccogliere i cadaveri e a cercare i dispersi, prima che vadano a incrementare il numero dei morti. Ci sono dei cattivi e li hanno presi: scafisti, si chiamano, e fanno parte dell’industria criminale della tratta degli esseri umani.

Qualcuno però si è dimenticato di chiudere il sipario alla fine della farsa del giorno prima, operazione necessaria per non confondere il pubblico. I personaggi della farsa recitano a soggetto, d’inerzia, continuano come se nulla fosse. Si accusano a vicenda: “Il colpevole sei tu!” C’è anche chi dà sfogo alle proprie emozioni, e apre la bocca per esprimere il proprio sdegno con un verbo intransitivo pronominale tra i più nobili e ricercati: “Sono stufo”.

La farsa e la tragedia coesistono come in una di quelle sceneggiature che potrebbe essere scritta così bene da meritare l’Oscar. Oppure scritta così male da meritare di essere cestinata, senza una via di mezzo possibile. E sembra anche che l’addetto al sipario sia stato licenziato. Non si vede la fine, figurarsi il lieto fine.

C’è un piccolo libro della Bibbia in cui si racconta il lavoro del profeta Amos: non uno che aveva studiato teologia, una persona “semplice” — si direbbe oggi. «Io non sono profeta, né figlio di profeta; sono un mandriano e coltivo i sicomori», diceva di sé. Testimoniava la volontà di Dio in un contesto anestetizzato: chi stava bene stava molto bene e chi stava male, be’, quelli non esistevano per chi stava bene. Amos riportava queste parole come parole del Signore:

«Io odio, disprezzo le vostre feste, non prendo piacere nelle vostre assemblee solenni.
Se mi offrite i vostri olocausti e le vostre offerte, io non le gradisco;
e non tengo conto delle bestie grasse che mi offrite in sacrifici di riconoscenza.
Allontana da me il rumore dei tuoi canti! Non voglio più sentire il suono delle tue cetre!
Scorra piuttosto il diritto come acqua e la giustizia come un torrente perenne!»
(Amos 5,21-24)

Il Dio d’amore della Bibbia dice di odiare, non le persone, ma il teatrino, la farsa della falsa pietà e delle liturgie ridondanti, dei capri espiatori e dei mea culpa. Il Dio che ama gli esseri umani, vuole il diritto e la giustizia. Scorrano come l’acqua di un torrente: presente, inarrestabile, veloce e inesauribile. Scorrano il diritto e la giustizia come l’acqua.

Però noi nell’acqua del mare lasciamo che galleggino dei cadaveri. Cadaveri che non meritano di essere semplici personaggi di questa farsa-tragedia, che si ripresenteranno alla prossima replica, ma che meriterebbero almeno di essere gli ultimi: quelli che chiudono il sipario.

In attesa di un nuovo giorno.

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Aquilante: “L’Italia e l’Europa ripensino le politiche migratorie e di cooperazione”

www.nev.it

Il presidente della Federazione evangelica Massimo Aquilante: “Per noi cristiani gli immigrati di Lampedusa sono il volto di Gesù che ci rivolge una vocazione all’accoglienza e alla fraternità”. “L’Italia e l’Europa ripensino le politiche migratorie e di cooperazione”

Roma, 3 ottobre 2013 (NEV-CS68) – “Fatti drammatici e prevedibili che interrogano la nostra coscienza di europei e di cristiani e ci costringono a ripensare le politiche migratorie”: così il presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), pastore Massimo Aquilante, commentando le notizie in arrivo da Lampedusa sulla strage di oltre 90 immigrati.

“Quello che accade sulle coste siciliane è la conseguenza di squilibri economici, guerre e violenze politiche e religiose che non possiamo ignorare – continua Aquilante -. Al contrario sono fatti che ogni giorno più drammaticamente ci dimostrano che l’Europa tutta – non solo l’Italia – deve ripensare le sue politiche migratorie e di cooperazione con i paesi africani e mediorientali, cercando, da una parte, di sostenere l’economia di paesi devastati e, dall’altra, di realizzare politiche responsabili di accoglienza e di asilo.

Per noi cristiani – conclude Aquilante – gli immigrati di Lampedusa sono il prossimo che bussa alla nostra porta, l’altro che interroga e mette in discussione la nostra condizione di privilegio, il volto di Gesù che ci chiama e ci rivolge una vocazione all’accoglienza e alla fraternità”.