L’Imu non c’è più. Ma anche con la Service tax la Chiesa non paga

Luca Kocci
Adista n. 33, 28 settembre 2013

Nell’annoso e confuso dibattito su Imu sì, Imu no, Imu forse, una sola cosa sembra assolutamente certa: gli immobili di proprietà ecclesiastica – e delle organizzazioni senza fini di lucro – continueranno ad essere esentati dal pagamento dell’imposta.

Il presidente del Consiglio Enrico Letta, presentando la nuova Service tax – la tassa che dovrebbe sostituire ed inglobare una serie di imposte locali, da quelle sulla casa (appunto l’Imu) a quelle sulla spazzatura (Tarsu) – è stato esplicito: «C’è tutto il tema dei locali legati alle attività non profit del terzo settore (compresi quindi gli immobili di proprietà ecclesiastica, n.d.r.) che sono stati pesantemente penalizzati dall’Imu», ha detto Letta nella conferenza stampa di presentazione della nuova tassa. «Nella Service tax vogliamo completamente alleggerirla perché crediamo che questo passo sia importante».

La traduzione del lessico coperto, e ancora un po’ democristiano, del presidente del Consiglio è inequivocabile: esenzione totale. Si torna quindi alle origini, quando tutti gli immobili di proprietà degli enti ecclesiastici non pagavano una lira, perché all’epoca c’era ancora la lira.

La storia dell’esenzione Ici è infatti piuttosto lunga e travagliata. Venne introdotta fin da subito, nel 1992, con la nascita dell’imposta. Però a metà degli anni ‘90 il Comune dell’Aquila avviò un contenzioso con l’Istituto delle suore zelatrici del Sacro Cuore e gli intimò il pagamento dell’Ici per alcuni immobili usati come casa di cura per anziani e pensionato per studentesse universitarie. Ne scaturì una battaglia di ricorsi e contro-ricorsi fra le religiose e l’amministrazione comunale che, dopo una battaglia legale durata quasi dieci anni, vinse: la Corte di cassazione stabilì che l’attività delle suore non era né di culto né benefica – come prevedeva la legge – ma commerciale, perché le anziane e le studentesse pagavano l’ospitalità, quindi l’Ici andava versato.

A quel punto ci fu l’intervento risolutivo di Silvio Berlusconi (presidente del Consiglio) e Giulio Tremonti (ministro dell’Economia), al governo nel 2005, che modificarono la legge: erano esentati dall’Ici tutti gli immobili di proprietà ecclesiastica in cui si svolgevano anche attività commerciali purché «connesse a finalità di religione o di culto». Un condono tombale.

L’anno successivo, vinte le elezioni, Romano Prodi (presidente del Consiglio) e Pierluigi Bersani (ministro dello Sviluppo economico) corressero la rotta – anche perché l’Unione europea si stava interessando al caso sulla base di una denuncia presentata dai Radicali per improprio aiuto di Stato –, giocando con gli avverbi: sono esentati dall’Ici gli immobili di proprietà ecclesiastica (e degli enti senza fini di lucro) destinati al culto e allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive purché «non abbiano esclusivamente natura commerciale». Il «non esclusivamente» sanò alcune situazioni limite, ma mantenne intatti i privilegi delle migliaia di conventi trasformati in alberghi – gli stessi ricordati da papa Bergoglio durante la sua visita al Centro Astalli di Roma lo scorso 10 settembre: «Carissimi religiosi e religiose, i conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare i soldi. I conventi vuoti non sono nostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati» –, case di riposo, cliniche e scuole private, tanto che lo stesso Bersani, l’inventore della formula avverbiale, ammise che la norma lasciava spazio ad una «casistica di confine», all’interno della quale era possibile ottenere l’esenzione dal pagamento.

Con la trasformazione dell’Ici in Imu, sembrava che l’esenzione potesse essere abolita: si sarebbero dovute delimitare le superfici in cui venivano svolte attività sociali e di culto da quelle destinate ad attività commerciali, per esentare le prime e far pagare le seconde. Ma i tempi troppo stretti non lo hanno permesso e così l’esenzione è rimasta in vigore anche per il 2012. E sarebbe restata anche negli anni successivi perché, con il governo Monti ancora formalmente in carica benché le elezioni politiche si fossero svolte la settimana prima, la risoluzione n. 3/DF del 4 marzo 2013, firmata dal direttore generale delle Finanze, Fabrizia Lapecorella (nomen omen, avrebbero detto i romani), chiariva che per gli enti ecclesiastici e non profit la scadenza del 31 dicembre 2012 per adeguarsi alla nuova normativa che prevedeva la suddivisione degli spazi commerciali/non commerciali «non deve considerarsi perentoria» ma poteva essere assolta «entro il 31 dicembre del quinto anno». Cinque anni in più, quindi, per riscrivere i loro Atti costitutivi e i loro Statuti, passaggi obbligatori per godere dell’esenzione dal pagamento dell’Imu sulle porzioni degli edifici adibiti ad uno non commerciale che così risultava di fatto garantita fino a tutto il 2017.

Poco dopo, il 28 aprile 2013, nasce il governo Letta-Alfano che prima sospende il pagamento dell’Imu e poi abolisce l’imposta inserendola nella nuova Service tax, da cui gli enti ecclesiastici e non profit, come ha detto il presidente del Consilgio, saranno esentati. A meno che i conti pubblici in agonia non costringano il governo a tornare suoi suoi passi.

È impossibile quantificare con precisione il patrimonio immobiliare della Chiesa in Italia. Una parte è di proprietà vaticana – in particolare dell’Apsa (Amministrazione del patrimonio della sede apostolica) e di Propaganda Fide (ovvero la Congregazione vaticana per l’evangelizzazione dei popoli) –, quindi formalmente di uno Stato estero per cui i dati sono inaccessibili; il resto è disperso in una miriade di enti ecclesiastici (diocesi e arcidiocesi, istituti per il sostentamento del clero, istituti religiosi, capitoli, parrocchie, confraternite, pie società ecc.). Una stima esatta quindi è irrealizzabile. La valutazione più attendibile resta quella operata dal Gruppo Re, una società fondata nel 1984 e specializzata nella consulenza e nei servizi immobiliari, finanziari e gestionali agli organismi ecclesiastici: la Chiesa italiana sarebbe padrona del 20% del patrimonio immobiliare italiano.

A parte le chiese e gli edifici di culto, si tratta di decine di migliaia di istituti religiosi, conventi, collegi, seminari, canoniche – spesso dismessi e convertiti ad altro uso, da alberghi a case di accoglienza – ma anche palazzi e appartamenti, spesso in zone di pregio, terreni e campi accumulati in duemila anni di storia o acquisiti recentemente sotto forma di donazioni e lasciti. Tutti questi immobili di proprietà ecclesiastica (ma anche di altri enti catalogati come «senza fini di lucro») destinati «allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive» sono esenti dal pagamento delle tasse, prima l’Ici e ora l’Imu. L’Associazione nazionale dei Comuni italiani calcola che le mancate entrate dovute all’esenzione ammonterebbero ad una cifra fra i 400 e i 700 milioni di euro annui.

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Imu: la Chiesa deve 4 miliardi allo Stato

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La Commissione europea lo scorso 19 dicembre ha chiuso dopo due anni l’indagine riguardante gli aiuti di Stato che l’Italia aveva garantito alla Chiesa esonerandola dal pagamento dell’Ici sugli immobili non di culto. In una scuola elementare Montessori della capitale e in un piccolo bed&breakfast di provincia, a pochi chilometri da Roma, sentendo questa notizia hanno sussultato visto che avevano aperto un contenzioso proprio a tale riguardo con la Chiesa.

Le autorità europee sono sempre state sfavorevoli agli aiuti di Stato ma hanno anche sempre affermato che tornare in possesso dell’Ici dovuta ma non pagata, tra il 2006 e il 2011, non sarebbe stato “assolutamente possibile”, perché in definitiva era questo che il Governo Monti aveva detto in materia. ” Alla luce delle circostanze eccezionali invocate dall’Italia, non deve essere disposto il recupero dell’aiuto, avendo l’Italia dimostrato l’impossibilità assoluta di darvi esecuzione“, spiegava Bruxelles.

Praticamente un unicum per quanto riguarda la giurisprudenza comunitaria, tanto che questa motivazione aveva sbalordito la suddetta scuola elementare e il bed&breakfast che si erano affidati a due avvocati per ricorrere contro la Corte di Giustizia europea per chiedere l’annullamento di quanto disposto dalla Commissione. I ricorrenti si chiedono quali siano i motivi dell’impossibilità assoluta visto che non sono mai stati provati, per questo dunque hanno fatto ricorso, perché ritengono sia possibile recuperare l’Ici pregressa.

La questione non è irrilevante; le stime Anci, infatti, valutavano gli introiti Ici su quegli immobili, riferibili ad enti non profit e per la maggior parte alla Chiesa, pari a 600-800 milioni annui. Se si moltiplica questo dato per sei, ossia gli anni in cui doveva essere riscosso, la cifra che si ottiene si aggira sui 4 miliardi, una vera e propria manna dal cielo visto il periodo di coperture striminzite e praticamente assenti, a partire dal miliardo necessario per evitare il rincaro Iva.

Al di la dell’Iva potrebbero essere davvero tanti gli impieghi di questa ingente somma; a partire dal miliardo e mezzo che permetterebbe all’Italia di rientrare nei ranghi in relazione al rapporto tra deficit e Pil in modo da evitare di dover tornare alla procedura di infrazione europea per sbloccare altri soldi, circa 12 miliardi, da usare l’anno prossimo per generare investimenti ed occupazione.

Effettivamente il doppio ricorso depositato dalla Montessori e dal B&B il 16 aprile scorso, esaminato in questi giorni dalla Corte Ue, potrebbe anche riaprire l’indagine sull’Italia e forzare così il governo a fare finalmente i calcoli del vantaggio che comporterebbe questa cifra.

Certo, chiedere in dietro 4 miliardi al Vaticano è praticamente impensabile anche perché, al di la di tutto, ci sono dei limiti pratici che renderebbero la cosa estremamente complicata, a partire dal fatto che non esiste un censimento degli immobili in questione, non solo ma il governo Monti, che di fatto ha messo in campo l’Imu e ne ha definito i nuovi contorni anche per questi enti no profit, non ne ha mai portato a termine le procedure attuative.

In un anno e mezzo né Monti né Letta sono stati in grado di ottenere dal Ministero dell’Economia un regolamento indispensabile per calcolare concretamente le porzioni commerciali da quelle non commerciali dei singoli immobili. In via Venti settembre assicurano che arriverà entro dicembre. Nel frattempo, nel 2012 e nel 2013, vista la confusione e le circolari criptiche, nessuno ha pagato l’Imu, o meglio; ha pagato chi versava a suo tempo l’Ici.

Gli altri stanno attendendo la burocrazia, pigra o pilotata, che arriva sempre dopo, a volte tardi con grandi pasticci per il Paese, come il recente caso Telecom insegna, neppure capace di proteggere la propria rete telefonica perché nessun decreto attuativo l’ha ancora definita strategica.