Bergoglio. Un messaggio “liquido”

Pietro De Marco
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350619

In coscienza devo rompere il coro cortigiano, composto da nomi laici ed ecclesiastici fin troppo conosciuti, che accompagna da mesi gli interventi pubblici di papa Jorge Mario Bergoglio. È il coro di quelli che del papa celebrano il “nuovo” sapendo che non è tale, e tacciono le vere “novità” perché imbarazzanti. Per questa ragione sono costretto a segnalare alcune delle reiterate approssimazioni in cui cade l’eloquio spontaneo e accattivante di Francesco.

Nessuno è esente, nel conversare quotidiano e privato e tra pochi, da approssimazioni e forzature, ma non vi è persona che abbia responsabilità di fronte a molti – chi insegna ad esempio – che non adotterà in pubblico altro registro e cercherà di evitare l’improvvisazione.

Ora, invece, abbiamo un papa che esclama: “Chi sono io per giudicare?”, come si può dire enfaticamente a tavola o anche predicando esercizi spirituali. Ma di fronte alla stampa e al mondo un “chi sono io per giudicare?” detto da un papa stride oggettivamente con l’intera storia e la natura profonda della funzione petrina, dando in più la sgradevole sensazione di un’uscita incontrollata. Per la sua funzione vicariale rispetto a Cristo, non come singolo, il papa giudica. Poiché papa Francesco mostra, quando vuole, consapevolezza dei propri poteri come papa, si tratta – qualsiasi cosa volesse dire – di un vero errore comunicativo.

Abbiamo letto poi nell’intervista a “La Civiltà Cattolica” la frase: “L’ingerenza spirituale nella vita personale non è possibile”, che sembra accomunare sotto la figura liberal-libertaria della “ingerenza” sia il giudizio teologico-morale, sia la valutazione pubblica della Chiesa, quando necessaria, e persino la cura di un confessore o direttore spirituale nell’indicare, prevenire, sanzionare condotte intrinsecamente cattive. Papa Bergoglio adotta involontariamente qui in un luogo comune tipico della postmodernità, secondo la quale la decisione individuale è, come tale, sempre buona o almeno sempre dotata di valore, in quanto personale e libera come si pensa ingenuamente che essa sia, quindi insindacabile.

Questo scivolamento relativistico, non raro ormai nella pastorale diffusa, è coperto, non solo in Bergoglio, da richiami alla sincerità e al pentimento del singolo, quasi che sincerità e pentimento cancellino la natura del peccato e vietino alla Chiesa di chiamarlo col suo nome. Inoltre, è dubbio che sia misericordia il tacere e rispettare quello che ognuno fa perché libero e sincero nel farlo: abbiamo sempre saputo che il chiarire, non il nascondere, la natura di una condotta di peccato è un atto misericordioso eminente, perché permette al peccatore il discernimento di sé e del proprio stato, secondo la legge e l’amore di Dio. Che anche un papa sembri confondere il primato della coscienza con una sorta di ingiudicabilità, anzi, di immunità dal giudizio della Chiesa è un rischio per l’autorevolezza del papa e per il magistero ordinario che non può essere sottovalutato.

Nell’intervista a “La Civiltà Cattolica” il papa ritorna sul “chi sono io per giudicare?” e conferma: “Se una persona omosessuale è di buona volontà ed è in cerca di Dio, io non sono nessuno per giudicarla. […] La religione ha diritto di esprimere la propria opinione a servizio della gente, ma Dio nella creazione ci ha resi liberi”.

L’uso reiterato di quel “chi sono io?” conferma da un lato, in Francesco, un’accezione popolare di “giudicare” come sinonimo di “condannare” – che produce confusione, perché giudizio non è necessariamente condanna, spesso non lo è – e dall’altro accentua l’idea che nessuno di noi e nemmeno il papa sia legittimato a esprimere giudizio. Ma questo è falso: ognuno di noi può essere giudice in ogni ordinamento e anche nella Chiesa, se ne acquisisce competenza, e il papa è giudice per il mandato che gli è proprio. Inoltre, o nessuno è legittimato, mai, al giudizio, perché lo è solo Dio, o non si vede perché soltanto nel caso dell’omosessualità non si trovi l’istanza giudicante.

Inoltre se, come dice il papa, “la religione” – modo sbrigativo di designare storia e istituzioni e tesori di grazia fondati in Cristo di cui il papa è garante – “ha diritto di esprimere la propria opinione a servizio della gente”, ma non deve interferire nella libertà, non vi è più posto né per la Legge di Dio né per la Carità. La libertà in quanto tale diviene, davvero, l’assoluto. E certamente se “la religione” è ridotta a gruppo d’opinione non può assumere la statura del giudice. Chi ha, inoltre, bisogno della Carità se la sua libertà lo assolve prima di ogni giudizio?

La formula della Chiesa “al servizio della gente” ritorna nelle parole del papa anche a proposito della riforma liturgica, che sarebbe stata “un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta”. Definizione sbalorditiva, che riduce i sacri segni persino al di sotto di quello che essi sono diventati, ben poco, nelle chiese protestanti. A che è valso un secolo e mezzo di “ressourcement” liturgico?

Si dirà che non si deve sofisticare su parole dette in una conversazione tra confratelli gesuiti. Ma se è così sarebbe stato bene che la conversazione restasse nella memoria privata di papa Bergoglio e di padre Antonio Spadaro. Avere in sorte di leggere su “La Civiltà Cattolica” – magnifica combattente almeno fino agli anni Cinquanta per la verità cattolica e per Roma – che per l’attuale successore di Pietro dottrina, tradizioni e liturgia sono diventati la facoltà e l’eventualità di dare un parere e “offrire un servizio”, è un’umiliazione che poteva essere risparmiata alla Chiesa.

Su “la Repubblica” del 1 ottobre leggiamo altri discutibili enunciati di papa Bergoglio. Apprendiamo che “il proselitismo è una solenne sciocchezza, non ha senso”, come risposta al tema della conversione proposto ironicamente da Eugenio Scalfari (“Lei vuole convertirmi?”). Ma cercare la conversione dell’altro non è una “sciocchezza”; lo si può fare in maniera sciocca, oppure sublime come in molti santi. Ricordo che i coniugi Jacques e Raïssa Maritain, anch’essi dei convertiti, desideravano ardentemente e operavano per il ritorno alla fede di loro grandi amici. Perché eludere il tema della conversione confondendola col “proselitismo”, parola gravata di un connotato deteriore?

Poi abbiamo letto che, di fronte all’obiezione relativistica di Scalfari: “Vi è un’unica visione del bene? E chi la stabilisce?”, il papa concede che “ciascuno di noi ha una sua visione del bene” e “noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il bene”.

Ma se ognuno ha “una sua visione del bene” che deve poter realizzare, tali visioni non possono che risultare le più diverse, in contrasto e in conflitto spesso mortale, come provano la cronaca e la storia. Incitare a procedere secondo la personale visione del bene è in realtà incitare alla lotta di tutti contro tutti, una lotta strenua, perché compiuta per il bene e non per l’utile o altro contingente. È per questo che le visioni particolari – anche quelle guidate dalle intenzioni più rette – devono essere regolate da un sovrano, o modernamente dalle leggi, e in ultimo dalla legge di Cristo, che non ha alcuna sfumatura concessiva in termini individualistici.

Forse papa Francesco voleva dire che l’uomo, secondo la dottrina cattolica della legge naturale, ha la capacità originaria, un impulso primario e fondamentale, dato a tutti da Dio, di distinguere ciò che è in sé bene da ciò che è in sé male. Ma qui si inserisce il mistero del peccato e della grazia. Si può esaltare Agostino, come il papa fa, e omettere che in ciò che l’uomo “pensa sia il bene” opera sempre anche il peccato? Che ne è della dialettica tra la città di Dio e la città dell’uomo e del diavolo, “civitas” dell’amore di sé? Se il bene fosse ciò che l’individuo “pensa sia il bene”, e la convergenza di questi pensieri salvasse l’uomo, che necessità vi sarebbe stata della legge positiva in genere, della legge di Dio in particolare, e dell’incarnazione del Figlio?

Sostiene ancora il papa: “Il Vaticano II, ispirato da papa Giovanni e da Paolo VI, decise di guardare al futuro con spirito moderno e di aprire alla cultura moderna. I padri conciliari sapevano che aprire alla cultura moderna significava ecumenismo religioso e dialogo con i non credenti. Dopo di allora fu fatto molto poco in quella direzione. Io ho l’umiltà e l’ambizione di volerlo fare”.

Tutto ciò suona come un “a priori” poco critico. Quanto distruttivo “ecumenismo” e quanto “dialogo” subalterno alle ideologie del Moderno abbiamo visto all’opera nei decenni passati, a cui solo Roma, da Paolo VI a Benedetto XVI, ha posto un argine! Il Bergoglio che criticò le teologie della liberazione e della rivoluzione non può non sapere che il dialogo con la cultura moderna attuato dopo il Concilio fu ben altra cosa che un garbato “ecumenismo”.

Papa Francesco si conferma il tipico religioso della Compagnia di Gesù nella sua fase recente, convertito dal Concilio negli anni di formazione, specialmente da ciò che io chiamo il “Concilio esterno”, il Vaticano II delle attese e delle letture militanti, creato da alcuni episcopati, dai loro teologi e dai media cattolici più influenti. Uno di quegli uomini di Chiesa che, nel loro tono accostante e duttile, nei loro valori indubbi, sono anche i “conciliari” più rigidi, convinti dopo mezzo secolo che il Concilio sia ancora da realizzare e che le cose vadano fatte come fossimo ancora negli anni Sessanta, in un corpo a corpo con la Chiesa “pacelliana”, la teologia neoscolastica, sotto l’influenza del paradigma laico o marxista di modernità.

Al contrario: ciò che quello “spirito conciliare” voleva e poteva attivare è stato nei decenni detto o sperimentato e oggi si tratta anzitutto di fare un consuntivo critico dei suoi risultati, talora disastrosi. Lo stesso tenace annuncio in papa Francesco della misericordia divina corrisponde a un atteggiamento pastorale ormai corrente nel clero, fino a quel lassismo che il papa peraltro censura. Non solo. Il tema del peccato è pressoché scomparso dalla catechesi, con ciò liquidando il bisogno stesso della misericordia. Più che promuovere genericamente atteggiamenti misericordiosi, si tratta oggi di ricostruire una teologia morale meno fatta di parole e di nuovo in grado di guidare clero e fedeli nel caso concreto. Anche in teologia morale la strada per la vera attuazione del Concilio è stata riaperta dall’opera magisteriale di Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger.

Qualcuno sostiene che Francesco possa essere, in quanto papa postmoderno, l’uomo del futuro della Chiesa, al di là di tradizionalismi e modernismi. Ma il postmoderno che può allignare in lui – come liquidificazione delle forme, spontaneità dell’apparire pubblico, attenzione al villaggio globale – è di superficie. Con la sua duttilità e i suoi estetismi il postmoderno è poco plausibile in un vescovo dell’America Latina, dove nell’intelligencija ha dominato a lungo, fino a ieri, il Moderno marxista. Il nucleo solido di Bergoglio è e resta “conciliare”. Sulla strada intrapresa da questo papa, se confermata, vedo anzitutto la cristallizzazione del conciliarismo pastorale dominante nei cleri e nei laicati attivi.

Certo, se Bergoglio non è postmoderno, la sua recezione mondiale lo è. Il papa piace a destra e a sinistra, a praticanti e a non credenti, senza discernimento. Il suo messaggio prevalente è “liquido”. Su questo successo, però, non può essere edificato niente, solo reimpastato qualcosa di già esistente, e non il meglio.

Di tale apparire “liquido” sono segnali preoccupanti per chi non sia prono alla chiacchiera relativistica di questa tarda modernità:

a) il cedimento a frasi correnti tipo “ognuno è libero di fare…”, “chi dice che le cose debbano essere così…”, “chi sono io per…”, lasciate sfuggire nella convinzione che siano dialogiche e aggiornate. Presentarsi come semplice vescovo, per giustificare dei comportamenti poco formali, non copre e non potrà coprire il diverso peso e la diversa responsabilità che invece hanno le sue parole, qualsiasi parola, poiché il vescovo di Roma e il papa coincidono;

b) il mancato controllo da parte di persone di fiducia, ma sagge e colte, e italiane, dei testi destinati a circolare, forse nella convinzione papale che non ve ne sia bisogno;

c) una certa inclinazione autoritaria (“io farò di tutto per…”) in singolare contrasto con i frequenti assunti pluralistici, ma tipica dei “rivoluzionari” democratici, col rischio di imprudenti collisioni con la tradizione e il “sensus fidelium”;

d) in più, resta incongruo in papa Francesco questo prendere continue iniziative di comunicazione pubblica individuale e questo volersi senza filtri (la sintomatica immagine dell’appartamento papale come un imbuto), che rivelano indisponibilità a sentirsi uomo di governo (cosa più difficile che essere riformatore) in un’istituzione altissima e “sui generis” come la Chiesa cattolica.

Il suo è, a tratti, un comportamento da manager moderno e informale, di quelli che si concedono molto alla stampa. Ma questo aggrapparsi a persone e cose che stanno fuori – collaboratori, amici, stampa, opinione pubblica, lo stesso appartamento a Santa Marta è “fuori” – come se l’uomo Bergoglio temesse di non sapere che fare una volta rimasto solo, da papa, nell’appartamento dei papi, non è positivo. E la cosa non potrà durare. Anche i media si stancheranno di fare da sponda a un papa che ha troppo bisogno di loro.

Due ultime osservazioni.

1. A chi invoca lo stile ignaziano di accostamento del peccatore, o del lontano, replico che esso riguarda il rapporto in foro interno o la direzione di coscienza o il colloquio privato. Ma se il papa così si esprime in pubblico, le sue parole entrano nel flusso del magistero ordinario, diventano catechesi. Tutti sappiamo che il motto conciliarista “dal bastone alla misericordia” mirava non ad addolcire i confessori, quanto a indebolire l’autorità di Roma.

2. Il modello espressivo scelto da Bergoglio non può essere spinto al limite di investire il magistero ordinario e renderlo poco o punto obbligante. I poteri di un papa non si estendono alla natura stessa del proprio “munus”, che lo trascende e gli impone dei confini. Non approvo gli estremismi tradizionalisti, ma non vi è dubbio alcuno che la tradizione sia la norma e la forza del successore di Pietro.