Né autonomia, né universalità

Roberto Rivosecchi
www.italaialica.it | 05.11.2013

Il teologo Vito Mancuso su Repubblica, confutando l’accademico olandese Ian Buruma, che ritiene il primato della coscienza, affermato da Papa Francesco, perfettamente in linea con l’individualismo della nostra epoca, ci intrattiene amabilmente, ovviamente sostenendo che tale primato è cosa ben diversa e sta a significarci un patrimonio comune all’umanità, la via per riconoscere il bene. E’ la coscienza la norma immediata dell’azione umana: esiste un bene comune a tutti gli uomini, che ognuno può riconoscere mediante questa luce interiore. Soggettiva, ha la capacità di conoscere il bene, oggettivo e universale, a prescindere dal proprio interesse e dalle diverse circostanze. Al contrario l’individualismo definisce il bene a partire da sé, dal proprio uso e consumo.

La coscienza si connota dunque quale spirito interiore più autentico e messaggio etico immanente del cattolicesimo. Il magistero e la dottrina hanno sempre sostenuto il suo primato, tant’è che il Catechismo, art. 1800, recita: “L’essere umano deve sempre obbedire al giudizio certo della propria coscienza”. Altro che significati individualistici, assimilabili alla più deteriore pratica comune del nostro tempo. La coscienza e le sue determinazioni hanno valore universale, tanto più, aggiunge Mancuso, che è la Legge morale, quell’insieme di regole che si impongono a priori, la fonte di ispirazione di ogni processo decisionale interiore. Seguendo tale percorso il perdono e la giustificazione sono a disposizione anche del non credente.

Nonostante la irrilevanza, non si capisce infatti perché mai il non credente, se veramente tale, debba essere forzatamente coinvolto in un percorso mai richiesto e cercato, Il Papa continua a sorprendere, a far discutere, a scandalizzare, quasi mettesse in campo rivoluzioni epocali. Anche nei salotti televisivi ne sono convinti: con il richiamo alla coscienza crolla ogni baluardo al relativismo. Figuriamoci negli ambienti tradizionalisti: siamo di fronte ad una esagerazione demagogica che sconvolge l’insegnamento del magistero e del dogma. Nel richiamo a praticare la propria coscienza si intravedono un amore e un perdono a tutti indistintamente concessi. Basta appellarsi a quella legge morale interiore che guida tutti noi.

E’ garantita così universalità e autonomia. Quanto nel mondo cattolico più tradizionale si è in sofferenza, tanto in quello progressista si è in fibrillazione. Si tentano opere di metabolizzazione: Francesco è sulla strada tracciata da Benedetto, un Papa agostiniano che ha fatto della coscienza il fulcro del suo magistero. Entrambi sono in perfetta continuità con il Concilio, là ove afferma che l’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio nel suo cuore. La coscienza è dunque il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio. Addirittura, per l’occasione, ci si accorge che il primato della coscienza è stato sempre un fiore all’occhiello del cattolicesimo. Il fatto che suoni tanto nuovo fa porre a Mancuso seri interrogativi sulla qualità di un certo cattolicesimo di corte talmente amante del potere da tradire lo spirito interiore più autentico.

Tutti sono comunque convinti che di rivoluzione si tratti. Una strana rivoluzione al seguito del magistero e della dottrina, di cui si evidenziano alcuni aspetti, mentre per quieto vivere e per ragion di stato si tacciono altri. Per l’appunto l’evidenziare il richiamo alla coscienza permette a Mancuso, sempre in ricerca della “Sua Chiesa”, adattamenti un po’ forzati. Il suo collegamento infatti tra Legge morale e universalità della coscienza sa tanto di salto nella fede, un salto senza mediazione nell’irrazionale, già compiuto da altri. In disparte e sotto tono invece i temi che porterebbero al conflitto e alla divisione, quali i famosi “valori non negoziabili”. E comunque un perdono, nel richiamo alla coscienza, non si nega a nessuno.

All’omosessuale va tutto il nostro amore e la possibilità della riconciliazione. Ovviamente dopo che il ricorso alla riflessione interiore lo abbia rimesso in gioco secondo le “regole”, che inevitabilmente rimandano al circuito virtuoso tra Legge morale e coscienza. Entrambe però con l’imprimatur della Sapienza divina, che prescrive all’uomo vie e norme di comportamento. Altrimenti nulla può evitare la reiterazione della condanna. Di quale rivoluzione stiamo dunque parlando? E poi, chi ci garantisce che una coscienza così condizionata sia garanzia di autonomia? E che la Legge morale, che la illumina, ma a sua volta illuminata dalla Sapienza divina, sia patrimonio comune dell’umanità? Secondo il pensiero laico del giusnaturalismo sembrerebbe di si: nella natura sono iscritte le leggi morali universali antecedenti alle leggi stabilite dall’uomo.

L’etica sarebbe dunque implicita nella natura stessa. Ma già il primo Mancuso, seguendo il Kant de “Il cielo stellato e la legge morale in me”, contrapponeva la legge morale che vuole il bene alla natura che conosce solo la forza. Col pensiero religioso, poi, entriamo nel campo della fede, che esclude a priori, col procedere razionale, anche la stessa autonomia e universalità. Se infatti, come ci spiega magistralmente Paolo Bonetti, nel suo ultimo editoriale “Una rivoluzione inesistente”, la Legge morale viene a coincidere con la Legge naturale e con quella divina, il credere diventa lo spartiacque: dell’universalità in riferimento ai non credenti, dell’autonomia in riferimento ai credenti.

Questa Legge morale che sostanzia la coscienza e, abbiamo visto, risultato della Sapienza divina, diventa per i credenti una via dell’obbedienza alla verità oggettiva e quindi alla oggettività del dogma. Dice Bonetti, siamo nella piena ortodossia della concezione tomistica. Tutti possono dormire sonni tranquilli. Nessuna rivoluzione incombente: continuiamo ad essere né autonomi, né universali.