Chiamati a ricominciare di L.Maggi

Lidia Maggi
Riforma, 15 novembre 2013

Nella riflessione precedente abbiamo conosciuto Dio, il protagonista del racconto biblico, come
ostinato ricominciatore, incapace di arrendersi al non senso della vita. Di fronte a una realtà fragile,
sempre a rischio di precipitare nel caos e nel fallimento, Dio reagisce con atto ri-creativo, riaprendo
ulteriori possibilità. E se fosse proprio tale attitudine a caratterizzare anche la vocazione umana? Se
nel desiderio di rialzarsi, riprendere il cammino, ci fosse in noi la memoria di quell’ imprinting
originario, offerto a un’umanità pensata a immagine e somiglianza di Dio? La creatura umana, impastata di polvere rossa – adamà – e riempita di soffio divino – nishmat chayim, anima di vita –
vive uno strano meticciato fatto di terra e cielo, fragilità e infinito. E non solo perché tessuta di terra
e soffio, ma anche perché creata per la relazione, come l’intera creazione. Ogni cosa, ogni creatura è
interconnessa nella grande orchestra della vita e tutto il creato è sinfonia. Si esegue, però, il
concerto della vita senza prove; e a volte, troppe volte, dimenticando lo spartito, la vocazione
originale. Non è, forse, questo che ci racconta il prologo della Genesi? La bellissima melodia
dell’esistenza viene gradualmente deformata fino a divenire rumore insopportabile; e tuttavia, Dio
continua ad ascoltare, non si alza indignato dalla poltrona, ma cerca di ritrovare in quel frastuono
pochi accordi armonici che riaprano alla melodia.

Nel mito antico della Genesi, dunque, Dio non è solo colui che dà vita alla vita

Nel mito antico della Genesi, dunque, Dio non è solo colui che dà vita alla vita: Egli stesso se ne
prende cura legando la sua esistenza al mondo. Non rimane indifferente alle sue sorti. Non solo le
accompagna, ma le segue con apprensione: «Purché tenga», dirà nel Talmud, commentando la sua
opera. Rimaniamo sulla scena iniziale, proposta come chiave di lettura per decodificare l’intera
storia che da qui prende inizio, così da capire meglio come Dio si muova rispetto ai primi
fallimenti. La Genesi, pur raccontandoci con stupore e bellezza la nascita del mondo, non ci
consegna una narrazione idilliaca della creazione e tanto meno delle relazioni umane. La coppia
primordiale, che inaugura simbolicamente la stirpe umana, nonostante la benedizione divina, si
ritrova in poco tempo a vivere una relazione incrinata.

Stupore e crisi sono gli ingredienti che caratterizzano il «primo amore».

Stupore e crisi sono gli ingredienti che caratterizzano il «primo amore». Eppure c’erano tutte le
premesse perché quella storia, la prima, volasse alto, regalandoci l’atteso happy end. I due, infatti, si
sono scelti dopo lunga ricerca. Nessuno ha imposto ad Adamo quella creatura di sogno. Adamo non
è costretto a prenderla come compagna: la sceglie liberamente, dopo averla cercata assieme a Dio,
tra mille creature del nuovo mondo. Il mito racconta che sfilano, come in passerella, tutti gli animali
della terra, ma nessuno sembra trovare il consenso umano per vincere la solitudine. Eva entra in
scena intessuta di ricerca e desiderio. Fa sussultare Adamo di gioia e stupore. È un legame di libertà
quello che, da subito, caratterizza la prima coppia. Adamo riconosce la donna come parte di sé (osso
delle mie ossa); e tuttavia sa che questa è dono. È la creatura che ha sempre sognato. E non solo
metaforicamente: poiché Eva viene formata da Dio mentre Adamo dorme. Costui non partecipa
attivamente all’atto creativo: non ne è il creatore. Eva, dunque, è dono. Eppure non bastano il
desiderio, la scelta libera e consapevole, il riconoscimento, a rendere stabile quella relazione. Il
legame si rivela fragile, attaccabile da chi, con fare sottile, strisciante, si insinua tra i due,
deformando il loro sguardo sul mondo e insinuando il sospetto. La realtà che li circonda subisce una
radicale trasformazione. Il giardino diventa deserto e l’albero tra gli alberi è, ai loro occhi, l’unico
desiderabile: nel giardino di Eden nasce la pubblicità che deforma la realtà, imprigionando in un
oggetto definito il desiderio e facendoci credere che senza di esso non è possibile essere felici.

Il mito antico racconta di una prima fragilità legata alla comunicazione

Il mito antico racconta di una prima fragilità legata alla comunicazione: a come udiamo e a come
guardiamo. Possiamo possedere interi boschi e non essere più in grado di vederli, quando fissiamo
gli occhi sull’unico albero che non possiamo avere. Sguardo fisso, impietrito, idolatra. Si deforma
così anche l’immagine del Creatore: colui che dona abbondantemente ogni cosa (mangia pure di
ogni albero del giardino…) diventa la divinità che ti impedisce di nutrirti, di crescere, perché
invidiosa. Si insinua il sospetto che Dio sia in competizione con le sue creature e che quel divieto –
dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare perché nel giorno che tu ne
mangerai, certamente morirai – sia stato dato non per il bene della coppia, ma per la sua rovina. Di
fatto, qualcosa muore: viene deformata l’immagine di Dio, scorto come l’antagonista; e si spezza la
collaborazione tra la coppia. Dall’altro, ora, bisogna difendersi. Il suo corpo nudo, sperimentato
come luogo dell’intimità, giardino di delizie, diventa campo di battaglia, spazio per ferire e
saccheggiare. Il linguaggio dello stupore si deforma in accusa: ognuno è solo. È la crisi della
coppia, e non ci si sente più responsabili per l’altra persona. Persino l’evento fondatore che li ha
fatti incontrare viene deformato attraverso parole di accusa che cancellano quelle originarie di
tenerezza: la donna che tu mi hai messo a fianco… (ma non l’aveva cercata, desiderata per uscire
dalla sua solitudine?); il serpente mi ha ingannata e io ne ho mangiato… (ma la creatura umana, non
doveva «dominare» su tutti gli animali? Ora, invece, ubbidisce alla voce del serpente che la
controlla e l’inganna). Il racconto, pur tragico, ha risvolti ironici, quasi carnevaleschi: eccoli i
«dominatori del creato», comandati a bacchetta da un piccolo animale strisciante! Dio scaccerà
Adamo ed Eva dal giardino di Eden; ma già da prima la coppia si era esiliata da esso sperimentato,
nel sospetto, non più come luogo di vita. Adamo ed Eva sono chiamati a uscire non tanto per
punizione; piuttosto, dovranno andarsene per il loro bene, come avverrà per Abramo (vattene per te
stesso: Lek lekà). In quel giardino il loro amore muore. Occorre ricominciare altrove. Non prima,
però, di aver ricevuto da Dio un dono: una tunica di pelle. Il Creatore non li manda «senza pelle» ad
affrontare la nuova vita. Nel tentativo di ristabilire una relazione ormai incrinata, il Signore compie
gesti di cura: non li lascia nudi, li protegge con una nuova pelle ora che, con le parole, sanno
graffiare l’intimità invece che accarezzarla.

È un nuovo inizio per Adamo ed Eva. Esiliati, sono anche liberati dal dominio del serpente

È un nuovo inizio per Adamo ed Eva. Esiliati, sono anche liberati dal dominio del serpente e
dislocati dal loro sguardo deformato sul giardino. Non potranno più abitarlo, ma quel giardino non
sarà perduto per sempre: lo porteranno dentro di sé, quando sapranno riscoprirlo nel corpo
dell’altro. Di questo ci parla un altro libro della Bibbia: il Cantico dei cantici. Una chiara riscrittura
della Genesi, un altro finale alla storia antica, dove gli ostacoli e le difficoltà sono affrontati senza
far morire una storia, senza che lo sguardo si deformi, attraverso un amore forte come la morte. Il
Cantico è una seconda possibilità per l’amore, un nuovo inizio che muove i suoi passi da quella
prima uscita, da quel primo fallimento, soccorso da un Dio che chiama a ricominciare.