Evangelii Gaudium. Così la gioia del Vangelo può riformare la Chiesa

Giovanni Valente
La Stampa, 26.11.2013

Da dove viene e quale strada indica l’esortazione apostolica «Evangelii Gaudium» che viene pubblicata oggi. Eccone i principali contenuti

Poteva essere una «semplice» esortazione apostolica post- sinodale, come tante altre. Papa Francesco ne ha fattoun documento chiave del suo pontificato. La road map che suggerisce le «vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni» . Quasi la profezia di un rinnovamento profondo proposto a tutti i cristiani. Un testo operativo, impetuoso, destinato a scuotere tutte le istanze e a tutte le dinamiche della compagine ecclesiale, con l’invito pressante a emanciparsi da tutto ciò che fa velo alla missione di annunciare il cuore palpitante del Vangelo tra gli uomini d’oggi, così come sono.

All’inizio di tutto c’è la gioia del Vangelo. O meglio, la «alegrìa del Evangelio», come è intitolata la versione originale in castigliano. «La gioia del Vangelo» si legge nelle prime righe dell’esortazione «riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia». Mentre «il grande rischio del mondo attuale, con la sua molteplice e opprimente offerta di consumo, è una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata». Anche molti credenti cadono in questo rischio, «e si trasformano in persone risentite, scontente, senza vita». Mentre «quando qualcuno fa un piccolo passo verso Gesù, scopre che Lui già aspettava il suo arrivo a braccia aperte».

Sperimentare e proporre agli altri la salvezza gioiosa donata da Cristo risorto e i mezzi di cui Lui si serve è la vocazione di tutti i cristiani e la ragion d’essere propria della Chiesa. L’esperienza dell’incontro personale con Cristo è «la sorgente dell’azione evangelizzatrice». Se qualcuno «ha accolto questo amore che gli ridona il senso della vita» chiede Papa Bergoglio «come può contenere il desiderio di comunicarlo agli altri?». Per questo l’evangelizzazione non può mai essere intesa come «un eroico compito personale, giacché l’opera è prima di tutto sua (…). Gesù è “il primo e il più grande evangelizzatore”. In qualunque forma di evangelizzazione il primato è sempre di Dio» .

Se la missione propria dei cristiani è quella di annunciare la gioia del Vangelo, lo scopo configura anche le forme e i modi in cui essa avviene. Tutti «hanno il diritto di ricevere il Vangelo». Per questo – scrive Papa Francesco – «i cristiani hanno il dovere di annunciarlo senza escludere nessuno, non come chi impone un nuovo obbligo, bensì come chi condivide una gioia, segnala un orizzonte bello, offre un banchetto desiderabile. La Chiesa non cresce per proselitismo ma “per attrazione”». Quella del vangelo è una gioia missionaria «che ha sempre la dinamica dell’esodo e del dono, dell’uscire da sé, del camminare e del seminare di nuovo, sempre oltre». La comunità evangelizzatrice si immerge «nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario», Essa «accompagna l’umanità in tutti i suoi processi, per quanto duri e prolungati possano essere. Conosce le lunghe attese e la sopportazione apostolica. Si prende cura del grano e non perde la pace a causa della zizzania».

L’intento dichiarato dell’esortazione apostolica è «proporre alcune linee che possano incoraggiare e orientare in tutta la Chiesa una nuova tappa evangelizzatrice, piena di fervore e dinamismo». In questo percorso proposto a tutti – premette l’attuale vescovo di Roma – «non è opportuno che il Papa sostituisca gli episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori. In questo senso, avverto la necessità di procedere in una salutare “decentralizzazione». Nondimeno, la «trasformazione missionaria della Chiesa» prefigurata dal Bergoglio passa attraverso un rinnovamento ecclesiale definito «improrogabile». Si tratta di avventurarsi con tutta la Chiesa «in una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno. Ora non ci serve una “semplice amministrazione”. Costituiamoci in tutte le regioni della terra in uno “stato permanente di missione”».

Il criterio guida del rinnovamento non è una particolare teologia o linea di pensiero ecclesiale, ma «una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione».

La pastorale ordinaria, le parrocchie, i movimenti, la gerarchia sono invitati a porsi in atteggiamento di “uscita”. Lo stesso esercizio del ministro petrino, secondo Papa Francesco, viene coinvolto nel dinamismo del rinnovamento “in chiave missionaria”: Bergoglio annuncia anche una «conversione del papato», per renderlo «più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione». E parla dell’intenzione di decentralizzare, valorizzando le conferenze episcopali e attribuendo loro «anche qualche autentica autorità dottrinale» dato che «un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria».

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L’Enciclica della conversione del papato

Gian Guido Vecchi
Corriere della Sera, 27 novembre 2013

L’invito ripetuto senza sosta «a tutti» perché siano «audaci» e «creativi». La Chiesa «mossa da un
desiderio inesauribile di offrire misericordia» e quindi «in uscita», «aperta», «in cammino» per
«annunciare il Vangelo» e «lo sguardo del Buon Pastore» che «non giudica» ma «ama»: fino a
raggiungere i più «lontani», le periferie estreme, gli «incroci delle strade per invitare gli esclusi»,
perché esiste «una gerarchia delle verità» e «le opere di amore al prossimo» sono la
«manifestazione più perfetta» della fede», la stessa «opzione per i poveri» è «una categoria
teologica».

Tutto nella Evangelii Gaudium , l’«esortazione apostolica» di Francesco pubblicata ieri,
esprime dinamismo, riforma, cambiamento, a partire dalla «freschezza» e dalla «gioia del Vangelo».

Una scossa in 288 punti della quale Bergoglio è ben consapevole. Se oggi i documenti «sono
rapidamente dimenticati», con questo non deve accadere: «Ciò che intendo qui esprimere ha un
significato programmatico e dalle conseguenze importanti».

Basterebbero le prime, vertiginose pagine, Francesco che chiede la «conversione pastorale e
missionaria» e un «improrogabile rinnovamento» di tutta la Chiesa. E poi scrive: «Dal momento
che sono chiamato a vivere quanto chiedo agli altri, devo anche pensare a una conversione del
Papato». Cioè un modo diverso di esercitare il primato di Pietro, nel senso della «collegialità»
evocata dal Concilio: «A me spetta, come Vescovo di Roma, rimanere aperto ai suggerimenti
orientati ad un esercizio del mio ministero che lo renda più fedele al significato che Gesù Cristo
intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione», spiega.

Prima di ricordare come Wojtyla avesse chiesto di essere «aiutato» a «trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova». Lo scrisse nel ‘95, nella Ut unum sint . Ma da allora «siamo avanzati poco in questo senso», nota Bergoglio: «Anche il Papato e le strutture centrali della Chiesa universale hanno bisogno di ascoltare l’appello ad una conversione pastorale».

Francesco vuole una «salutare decentralizzazione» perché «un’eccessiva centralizzazione complica
la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria». Cita documenti della chiese di tutto il mondo,
«il cristianesimo non è monoculturale e monocorde». E tratteggia un ruolo più importante delle
conferenze episcopali «perché il senso di collegialità si realizzi pienamente», quel «molteplice e
fecondo contributo» che auspicava il Concilio in analogia «alle antiche Chiese patriarcali». Anche
questo «non si è pienamente realizzato». Così il Papa chiede «uno statuto» che preveda per le
conferenze episcopali «attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità
dottrinale».

Una rivoluzione nel rapporti tra Pietro e i vescovi: «Non credo si debba attendere dal
magistero papale una parola definitiva o completa su tutte le questioni che riguardano la Chiesa e il
mondo. Non è opportuno che il Papa sostituisca gli episcopati nel discernimento di tutte le
problematiche dei loro territori». La stessa rivoluzione che sembra annunciarsi per i divorziati e
risposati esclusi dalla comunione, e non solo per loro.

La Chiesa «è chiamata ad essere sempre la casa aperta del Padre», ad avere sempre «le porte aperte». E «ci sono altre porte che non si devono chiudere», scrive il Papa: «Tutti possono partecipare in qualche modo alla vita ecclesiale, far parte della comunità, e nemmeno le porte dei Sacramenti si dovrebbero chiudere per una ragione qualsiasi».

Anche l’eucarestia «non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento
per i deboli». Queste «convinzioni» hanno «conseguenze pastorali» da considerare «con prudenza e
audacia». È lo stile di Francesco: «Di frequente ci comportiamo come controllori della grazia e non
come facilitatori. Ma la Chiesa non è una dogana, è la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con
la sua vita faticosa». Il testo si chiude con le parole di Gesù risorto: «Io faccio nuove tutte le cose».

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La Chiesa e l’importanza della parola

Franco Cardini
La Stampa, 27 novembre 2013

Sono davvero tanto noiosi i parroci cattolici, quando durante la messa della domenica spiegano il
Vangelo del giorno ai loro fedeli? È questo che sembra voler dire il vulcanico papa Francesco nel
rilevare la loro pesantezza.

Ma in che senso? Sono poco efficaci? Risultano poco interessanti per gli spettatori? Dovrebbero
curare meglio le loro capacità oratorie adattandole a una materia peraltro non facile, come il
commento e la spiegazione delle Scritture? Ma ciò in che modo: rendendo più attraente la loro
prosa, magari a scapito della profondità e della complessità della materia da affrontare? Ma ciò non
comporterebbe il rischio di cadere nella banalità, se non nella fatuità? Di solito, le critiche dei
cattolici nei confronti dei loro pastori e della loro perizia oratoria sono di tre tipi: noiosità,
superficialità, banalità.

Ora, una predica può aver anche, malauguratamente, tutte e tre queste caratteristiche; ma di solito accade che, a seconda del pubblico che assiste a una performance predicatoria e alla sua preparazione intellettuale ad accoglierla, essa può risultare o dotta e profonda, ma per ciò magari noiosa, oppure leggera e magari accattivante, ma al tempo stesso superficiale; quanto alla banalità, è un pericoloso jolly che si attacca bene tanto alla dottrina quanto al semplicismo.

In realtà, è molto probabile comunque che papa Bergoglio, con questa sua nuova un po’
sconcertante uscita, si riferisca – magari, chissà, perfino senza direttamente volendo – alla sua
esperienza di sacerdote e di organizzatore della Chiesa in America latina: un paese oggi
letteralmente aggredito dalle campagne di predicazione – specie, ma non solo, televisiva – delle
varie sette protestanti, nei confronti delle quali la compagine cattolica appare sulle difensive se non
addirittura in ritirata.

D’altronde, il problema è vecchio. Fino dalla Chiesa dei primi secoli la Chiesa ha adottato l’arma di
diffusione costituita dalla parola: una delle pagine neotestamentarie più affascinante e sconvolgente
al riguardo è quella del dono pentecostale agli apostoli di sapersi esprimere in una lingua che tutti
comprendevano. In quella cultura ellenistico-romana nella quale i rètori erano tanto importanti e la
dicendi peritia tanto apprezzata, i primi cristiani conquistarono nuovi convertiti grazie a quella viva
parola apertamente proferita sulla quale si fondavano Gesù di Nazareth e Paolo di Tarso.

La retorica era una delle artes del «Trivio», le tre discipline «letterarie» su cui si fondava una buona educazione scolastica («retorica», «grammatica», «dialettica»): papi i santi Leone e Gregorio, detti entrambi «Magno», e mistici come Agostino e Bernardo insistevano sull’importanza delle omelie con le quali si accompagnava l’insegnamento evangelico.

Presto però l’eloquenza religiosa, già importante nei primi secoli della Chiesa, dovette abbandonare
le mura delle basiliche e dei monasteri e tornar sulle piazze in nuovi termini di missione e di
apostolato: c’erano da combattere gli eretici e la loro abilità dialettica, il loro fascino sulle folle
medievali. I nuovi ordini «mendicanti» del XIII secolo, quello di Domenico di Guzman e quello di
Francesco d’Assisi, nacquero dal seno della Chiesa proprio per far fronte alle nuove esigenze di
evangelizzazione fondate sulla capacità di convincere e di entusiasmare: e si aprì l’età di un nuovo
modo di predicare, addirittura più vicino alle forme dell’oratori politica dei laici – l’ars concionandi
–, che aprì le porte a «divi della penitenza» come Bernardino da Siena, Giovanni da Capestrano,
Gerolamo Savonarola. Le stesse sorti della Riforma e della Controriforma si giocarono sulle piazze:
Martin Lutero, Giovanni Calvino, Ignazio di Loyola.

Nell’età contemporanea, anche grazie all’avvento dei grandi media di comunicazione di massa –
cinema, radio, televisione – l’eloquenza ormai divenuta laica si trasformò in una forza travolgente:
pensiamo solo all’oratoria politica e a certi straordinari maestri di essa, come Adolf Hitler e Fidel
Castro. Se le ideologie politiche sono state «religioni civili», l’oratoria politica ha costituito una
sorta di dirompente predicazione laica: e Jorge Mario Bergoglio, che giovanissimo restò affascinato
come quasi tutti gli argentini da quella formidabile predicatrice laica che fu Eva Duarte de Perón, ne
sa più di qualcosa.

Chissà che papa Francesco non abbia pensato un istante proprio alla forza e alla passione di Evita, quando ha raccomandato ai predicatori cattolici di essere «meno noiosi»: cioè forse più entusiasti, dunque più convinti e convincenti.

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Il Papa. Questa economia uccide

Roberto Monteforte
l’Unità, 27 novembre 2013

È racchiusa in 224 pagine la «rivoluzione gentile» di Papa Francesco. La sua Esortazione apostolica
«Evangelii Gaudium» rappresenta un vero manifesto del suo pontificato. Formalmente è dedicata
alla «nuova evangelizzazione» al termine dell’Anno della Fede e a come annunciare il Vangelo al
mondo di oggi, ma nei suoi cinque capitoli Papa Francesco non solo indica un modello preciso di
Chiesa «aperta», «gioiosa», che sappia incontrare i lontani, fedele al Vangelo e con un rapporto
preferenziale per i poveri. Che sappia uscire dalla sua autoreferenzialità, dal rischio della mondanità
e sia aperta al cambiamento. Esprime un punto di vista preciso sulla crisi globale e su come
rispondere alla domanda di vera giustizia e di pace.

La sua «Esortazione» non è un documento politico, ma richiama un punto di vista preciso verso ciò
che offende la dignità dell’uomo e dei Popoli.

Alle questioni sociali Bergoglio dedica due dei cinque capitoli del documento, il secondo e il
quarto. Si coglie l’esperienza vissuta nella sua Argentina colpita duramente dalla crisi economica
internazionale nella sua critica esplicita al «feticismo del denaro» e «alla dittatura di un’economia
senza volto e senza scopo veramente umano», nuova e spietata versione dell’«adorazione
dell’antico vitello d’oro». Stigmatizza l’attuale sistema economico che «è ingiusto alla radice» (59),
«questa economia che uccide» perché prevale la «legge del più forte». Torna sulla cultura dello
«scarto» che ha creato «qualcosa di nuovo» e drammatico: «Gli esclusi, che non sono “sfruttati” ma
rifiuti, “avanzi”» (53). Finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando
«all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause
strutturali della “inequità” – insiste – non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun
problema». E indica proprio nell’«inequità», la radici dei mali sociali.

La Chiesa non può restare indifferente a tali ingiustizie. «L’economia non può più ricorrere a rimedi
che siano un nuovo veleno, come quando si pretende di aumentare la redditività riducendo il
mercato del lavoro e creando un tal modo nuovi esclusi». Dedica pagine alla denuncia della «nuova
tirannia invisibile, a volte virtuale» in cui si vive è quella a «un “mercato divinizzato”, dove
regnano “speculazione finanziaria”, “corruzione ramificata”, “evasione fiscale egoista”» (56).
Ricorda come il possesso privato dei beni si giustifica «per custodirli e accrescerli», ma «in modo
che servano meglio al bene comune». Le rivendicazioni sociali, che hanno a che fare con la
distribuzione delle entrate, l’inclusione sociale dei poveri e i diritti umani – osserva – non possono
essere soffocate con il pretesto di costruire un’effimera pace «per una minoranza felice».

Chiede giustizia vera e non fa sconti il «vescovo di Roma». Invita ad avere cura dei più deboli: «i
senza tetto, i tossicodipendenti, i rifugiati, i popoli indigeni, gli anziani sempre più soli e
abbandonati» e i migranti, per cui esorta i Paesi «ad una generosa apertura» (210). Parla delle
vittime della tratta e di nuove forme di schiavismo: «Nelle nostre città è impiantato questo crimine
mafioso e aberrante, e molti hanno le mani che grondano sangue a causa di una complicità comoda
e muta» (211). Ricorda il dramma delle donne doppiamente povere che «soffrono situazioni di
esclusione, maltrattamento e violenza» (212). In questa difesa della dignità della vita umana il Papa
conferma la condanna dell’aborto. «Non è progressista pretendere di risolvere i problemi
eliminando la vita umana».

Aggiunge che però si è «fatto poco per accompagnare le donne che si trovano in situazioni molto
dure, dove l’aborto si presenta loro come una rapida soluzione alle loro profonde angustie».
Rivendica il diritto dovere della Chiesa ad intervenire su questi temi e chiede a Dio «che cresca il
numero di politici capaci di sanare le radici profonde e non l’apparenza dei mali del nostro mondo,
più politici che abbiano davvero a cuore la società, il popolo, la vita dei poveri».

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Maggiori poteri alle chiese locali. Così Francesco convertirà il papato

Andrea Tornielli
La Stampa, 27 novembre 2013

«Evangelii gaudium», la «gioia del Vangelo» che è da proporre a tutti: è il titolo della lunga
esortazione apostolica di Papa Francesco resa nota ieri. Il primo vero documento programmatico del
pontificato, che invita tutta la Chiesa a una «conversione pastorale e missionaria», a uscire, ad
abbandonare le logiche di apparato, a non rimanere attaccati a usanze superate: «Sogno una scelta
missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio
e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale,
più che per l’autopreservazione».

Francesco scrive: «Dal momento che sono chiamato a vivere quanto chiedo agli altri, devo anche
pensare a una conversione del papato». Rifacendosi alle aperture enunciate nel 1995 da Wojtyla ma
rimaste senza seguito, afferma di pensare a «un esercizio del mio ministero che lo renda più fedele
al significato che Gesù intese dargli». Anche le strutture centrali della Chiesa «hanno bisogno di
ascoltare l’appello ad una conversione pastorale» e di realizzare di più la collegialità indicata dal
Concilio. Si deve rafforzare il ruolo delle conferenze episcopali, con l’attribuzione di «qualche
autentica autorità dottrinale», perché «un’eccessiva centralizzazione complica la vita della Chiesa».

Anche per colpa dei media, «il messaggio che annunciamo corre più che mai il rischio di apparire
mutilato e ridotto ad alcuni suoi aspetti secondari». Ciò accade quando questioni che fanno parte
dell’insegnamento morale della Chiesa vengono continuamente proposte «fuori del contesto che dà
loro senso». Una pastorale in chiave missionaria «non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata
di una moltitudine di dottrine che si tenta di imporre a forza di insistere». Bisogna invece
concentrarsi «sull’essenziale, su ciò che è più bello».

La Chiesa è «una Madre con le braccia aperte». Bisogna lasciare aperte le porte delle chiese, ma
anche quelle dei sacramenti. A proposito dell’eucaristia, Francesco spiega – citando sant’Ambrogio – che «non è il premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli». Un accenno riferibile anche alla condizione di molti divorziati risposati che sarà studiata dal prossimo Sinodo. «La Chiesa non è una dogana, è la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita
faticosa».

Francesco critica il clericalismo che penalizza i laici, mantenendoli «al margine delle decisioni» o
assorbendoli in «compiti intraecclesiali senza un reale impegno per l’applicazione del Vangelo alla
trasformazione della società». E riconosce che le rivendicazioni dei diritti delle donne «pongono
alla Chiesa domande profonde che la sfidano e che non si possono superficialmente eludere».

Non ascoltare il grido del povero vuol dire porsi «fuori dalla volontà del Padre». Si tratta di una
«preferenza divina che ha una conseguenza nella vita di fede di tutti i cristiani, chiamati ad avere gli
stessi sentimenti di Gesù». Francesco invita a non confidare «nelle forze cieche e nella mano
invisibile del mercato», e in scelte economiche che «sono un nuovo veleno, come quando si
pretende di aumentare la redditività riducendo il mercato del lavoro e creando in tal modo nuovi
esclusi».

Tra gli esclusi ci sono i nascituri, «che sono i più indifesi e innocenti di tutti». «Non è progressista
pretendere di risolvere i problemi eliminando una vita umana». Ma Francesco riconosce anche:
«abbiamo fatto poco per accompagnare adeguatamente le donne che si trovano in situazioni molto
dure, dove l’aborto si presenta loro come una rapida soluzione alle loro profonde angustie».

Francesco che la missione evangelizzatrice non è questione di addetti ai lavori o di «truppe» scelte.
Annunciare la gioia del Vangelo è tutto il popolo di Dio. Un «popolo dai mille volti». L’annuncio
cristiano non si identifica in alcuna cultura. Per questo «Non possiamo pretendere che tutti i popoli
di tutti i continenti, nell’esprimere la fede cristiana, imitino le modalità adottate dai popoli europei
in un determinato momento della storia».

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Un manifesto che inquieta il cattolicesimo conservatore

Domenico Rosati
l’Unità 27, novembre 2013

Le cronache mettono giustamente l’accento sulle implicazioni sociali dell’annuncio del vangelo,
così come le ha delineate papa Francesco nell’«esortazione apostolica» Evangelii gaudium che
conclude l’Anno della fede. Ma il cuore del documento, dal quale la stessa dimensione sociale
prende luce, riguarda l’annuncio del Vangelo nel mondo attuale e dunque prende di petto il ruolo, la
missione, della Chiesa e il modo in cui essa lo esercita o dovrebbe esercitarlo nelle presenti
condizioni storiche.

Si tratta di un vero e proprio manifesto del pontificato che porta a sintesi i tanti frammenti che Francesco ha finora disseminato nelle omelie quotidiane e nei discorsi, ora ricomposti in un pensiero unitario offerto all’attenzione sia dei fedeli sia degli «uomini di buonavolontà». E se l’impressione che si ricava dall’inizio del testo è quella di un vero e proprio «inno alla gioia» riferito al messaggio evangelico, il seguito offre materia per un esercizio critico ed autocritico per l’intera comunità cristiana, per i vescovi e per lo stesso Papa come istituzione.

Il modello di Chiesa che Francesco delinea è, infatti, profondamente distante da una realtà di cui
denuncia i limiti e i difetti. Egli auspica «una Chiesa in uscita» che raggiunga tutte le periferie
umane, fiduciosa nella qualità del «seme» che vi spande, prendendo l’iniziativa di «offrire
misericordia». E con ciò si distanzia, denunciandolo, da un costume di «introversione ecclesiale»,
cioè di chiusura autosufficiente che impedisce che «la Parola venga accolta e realizzi la sua potenza
liberatrice e innovatrice».

Non dunque un’entità costruita per giudicare (e condannare) ma per farsi interprete della
misericordia di Dio che occupa il primo posto in una «gerarchia delle verità cattoliche» che
Francesco riconosce sia in campo dogmatico sia in campo etico. Con la conseguenza di correggere
le «sproporzioni» che si producono quando s’ingigantiscono alcuni precetti e si perde di vista
l’essenziale, cioè «non si annuncia il Vangelo ma accenti dottrinali e morali derivanti da opzioni
ideologiche».

E qui va notato che molti passaggi del testo riproducono i punti di vista degli
episcopati continentali e nazionali, a riprova di una varietà di sensibilità ed esperienze e, soprattutto,
dell’impossibilità, riconosciuta una volta da Paolo VI, di riservare a Roma «una parola unica»:
citazione preziosa perché ultimamente poco frequentata, allo stesso modo della condanna che Papa
Giovanni pronunciò sui «profeti di sventura» all’apertura del Concilio Vaticano II.

Senza andare oltre (come un testo così ampio e analitico richiederebbe) si può dire che esso
contiene impulsi e direttive tali da non lasciar tranquille le aree più conservatrici del mondo
cattolico, comprese quelle che finora hanno ostentato verso Francesco un ossequio tanto deferente
quanto poco intonato a prassi ed atteggiamenti consolidati.

Vuol dire, se non prevale il conformismo clericale, che l’affermazione dell’idea di Chiesa di
Francesco non avverrà senza la prova del confronto, l’unica che potrà assicurarne l’autenticità
dell’esito. E comunque – resta scritto – «Dio ci liberi da una Chiesa mondana sotto drappeggi
spirituali e pastorali». Dentro questa cornice, che include anche un sorprendente e meticoloso…
prontuario della predicazione, vanno collocate le affermazioni sull’intima connessione tra
evangelizzazione e promozione umana, con un approccio molto radicale al nodo della povertà, che
viene affrontato con linguaggio e indicazioni che oltrepassano le tradizionali formule del magistero
sociale della Chiesa, pur esplicitamente evocato.

«La nuova evangelizzazione, si legge, è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro (dei poveri) esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa»; ed è «un messaggio così chiaro, così diretto, così semplice ed eloquente, che nessuna ermeneutica ecclesiale ha il diritto di relativizzarlo». Ma risolvere i problemi dei poveri significa «rinunciare all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredire le cause strutturali della inequidad (in spagnolo nel testo). Altrimenti «non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema».

Qui la politica è direttamente interpellata. Si confida ancora «nelle forze cieche e nella mano
invisibile del mercato»? O ritorna il nodo della trasformazione della crescita economica, pur
necessaria, in uno sviluppo che, per realizzarsi, necessita di «decisioni, programmi meccanismi e
processi specificamente orientati a una migliore distribuzione delle entrate, alla creazione di
opportunità di lavoro, ad una promozione integrale dei poveri che superi il mero assistenzialismo»?

Il papa, giustamente, si ferma sulla soglia, ma lo scenario che evoca è quello di una riforma che
permetta di uscire dagli scenari del pensiero unico. A partire dalla consapevolezza che «l’economia
non può più ricorrere a rimedi che sono un nuovo veleno, come quando si pretende di aumentare la
redditività riducendo il mercato del lavoro e creando in tal modo nuovi esclusi». Se è una sfida per
tutti, lo è in primo luogo per i cristiani.