Divorziati risposati: in vista del sinodo, il teologo Cereti rilancia la sua proposta

Valerio Gigante
Adista Notizie n. 44 del 14/12/2013

«Il mio predecessore a Buenos Aires, il cardinale Quarracino diceva sempre: per me la metà dei matrimoni sono nulli, perché si sposano senza sapere che è per sempre, perché lo fanno per convenienza sociale, eccetera. Anche il tema della nullità va studiato». Lo diceva, il 29 luglio scorso, papa Francesco, durante una conversazione con i giornalisti sul volo che da Rio de Janeiro li riportava a Roma.

Il tema dei divorziati risposati è uno dei più caldi all’interno della Chiesa cattolica e sarà anche al centro della riflessione del prossimo Sinodo dei vescovi. La prospettiva che la gerarchia maggiormente caldeggia, e che il papa stesso sembrerebbe avallare, sarebbe quella allargare le maglie della nullità dei matrimoni, per consentire ai divorziati di sposarsi nuovamente in chiesa in virtù della dichiarazione della mancanza di validità del primo legame. Una soluzione che permetterebbe al magistero di mantenere intatta la dottrina, ma di affrontare la questione delle nuove famiglie, ormai sempre più diffuse anche tra i credenti.

Ma l’attenzione della gerarchia ecclesiastica al tema della comunione ai divorziati risposati non è certo una novità legata alla salita di Francesco sul soglio di Pietro. Già nel discorso tenuto da papa Benedetto XVI di fronte al clero di Aosta nel 2005 si faceva cenno alla necessità di studiare meglio il caso particolare di un «sacramento celebrato senza fede», aggiungendo comunque prudentemente: «Se realmente si possa trovare qui un momento di invalidità perché al sacramento mancava una dimensione fondamentale, non oso dire». Poi, all’inizio dell’estate 2011, una settimana di formazione Cei (v. Adista n. 53/11) fu specificamente dedicata a questo tema; lo stesso anno, L’Osservatore Romano ripubblicò un vecchio scritto di Joseph Ratzinger, l’introduzione dell’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede al volume Sulla pastorale dei divorziati risposati (Libreria Editrice Vaticana, 1998). «Ulteriori studi approfonditi», affermava Ratzinger, «esige invece la questione se cristiani non credenti – battezzati che non hanno mai creduto o non credono più in Dio – veramente possano contrarre un matrimonio sacramentale». In sostanza, veniva aperto un varco all’idea che un matrimonio possa essere considerato nullo, oltre che nei casi tradizionalmente previsti dal diritto canonico, anche nell’eventualità in cui sia stato celebrato in assenza del requisito della fede da parte di almeno uno dei coniugi: «All’essenza del sacramento», concludeva infatti il prefetto, «appartiene la fede».

La regola per cui i divorziati risposati non possono ricevere la comunione risale alla fine degli anni ’70 (in Italia, il divorzio fu istituito “solo” nel 1970, confermato poi da un referendum del 1974). Nel 1981, nell’esortazione apostolica Familiaris Consortio, Giovanni Paolo II definiva le nuove unioni post-divorzio «una piaga» e ribadiva la «prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati». La «riconciliazione nel sacramento della penitenza, che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico», continuava Wojtyla «può essere accordata solo a quelli che assumono l’impegno di vivere in piena continenza».

Ma l’approccio “giuridico” al tema dei divorziati risposati non è l’unica possibile soluzione, anche se certamente è la più facile dal punto di vista della gerarchia. Per questo, soprattutto in vista del prossimo Sinodo, è utile e preziosa la ristampa di un libro di Giovanni Cereti, prete genovese, teologo e storico della Chiesa, autore del volume Divorzio, nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva, pubblicato dalle edizioni Dehoniane per la prima volta nel 1977 e riproposto in seconda edizione nel 1998. Quel testo, dai contenuti originali e dirompenti, perché solidamente fondato sulla tradizione, la storia e la prassi della Chiesa antica, suscitò timori e malumori da parte della Curia vaticana. Tanto che la sua circolazione fu limitatissima. Il fatto che sia stato appena ripubblicato da una casa editrice laica, Aracne, testimonia le difficoltà che le tesi di Cereti continuano ad avere in ambito ecclesiastico, ma rende al contempo possibile una maggiore conoscenza e diffusione del testo. Specie a ridosso dell’assise episcopale sulla famiglia, il libro potrebbe costituire (ed è questo il senso della ristampa) un prezioso contributo al dibattito dei vescovi.

Nel suo libro, Cereti esamina la questione dell’accesso all’eucaristia dei divorziati risposati a partire da un’analisi storica della prassi in uso presso la Chiesa delle origini, che anrebbe oggi ripresa e sviluppata: predicare la monogamia assoluta come ideale cristiano e assolvere, cioè riammettere all’eucaristia dopo la penitenza pubblica, coloro che hanno fallito il loro precedente matrimonio e poi sono entrati in una seconda unione. Un principio sancito esplicitamente, racconta Cereti, dal canone 8 del Concilio di Nicea, che imponeva ai novaziani (i seguaci del prete Novaziano, che contese inutilmente il papato a Cipriano, nel III sec. d. C., e le cui tesi furono successivamente giudicate eretiche) di riammettere alla comunione i cosiddetti lapsi, cioè gli apostati nella persecuzione, e gli adulteri, intesi allora nel senso evangelico, cioè di coloro che avevano ripudiato il proprio coniuge per sposarne un altro. Per rientrare nella Chiesa i novaziani dovevano mettere per iscritto la loro volontà di riammettere all’eucaristia – se avessero ottenuto la riconciliazione con la Chiesa attraverso la penitenza – gli apostati e i divorziati risposati. Questa indicazione, racconta Cereti, pur essendo sempre stata riconosciuta dalla Chiesa, è stato però successivamente interpretata come se si riferisse ai vedovi risposati, mentre in realtà parlava proprio degli adulteri, cioè dei divorziati risposati. E infatti la prassi di riammetterli alla comunione dopo un periodo di penitenza si è conservata nella Chiesa ortodossa ma non in quella cattolica.

Una tesi resa ancora più forte da un altro “cavallo di battaglia” di Cereti, formulato sin dal 1971, in un altro “classico” della sua produzione storica e teologica, Matrimonio ed indissolubilità, nuove prospettive (sempre edito dalle Dehoniane e introvabile tanto quanto è stato sinora l’altro). Cereti sostiene che l’unico sacramento permanente con cui il matrimonio può essere paragonato è l’eucarestia. E tuttavia, perché l’eucarestia perduri, è necessario che perduri ciò che ha costituito la materia del sacramento, e cioè le specie del pane e del vino. Se esse si degradano, cessa anche la presenza reale di Gesù in esse. E allora, incalza Cereti, pur essendo il matrimonio un sacramento permanente, come sostenere che la grazia di Dio permanga in esso anche quando la “specie” del sacramento si è degradata, cioè quando i due coniugi non sono più legati da vincoli affettivi, se la loro unione è finita, se i due addirittura si odiano? Pensare che in questo caso la grazia di Dio resti efficace anche in una situazione del genere appare quasi blasfemo.

«Alla fine della mia vita – ha detto qualche tempo fa Cereti in una intervista al nostro settimanale (v. Adista Notizie n. 6/12) – ritengo che l’aver avanzato questa proposta sia stato il più grande servizio che io abbia potuto rendere alla comunità cristiano cattolica. L’esperienza mi dice infatti che “ciò che Dio ha unito, l’uomo non deve sciogliere”: se una unione si conclude con il fallimento, molto probabilmente non era stata unita da Dio mentre, al contrario, è forse proprio la seconda unione ad esserlo».