Matteo Renzi e Papa Francesco: anniversari e destini incrociati di due rottamatori

Piero Schiavazzi
L’Huffington Post, 21 dicembre 2013

In settimana il Papa ha compiuto settantasette anni. Tra pochi giorni Matteo Renzi ne festeggerà trentanove: più o meno l’età che aveva Bergoglio quando lui nacque, l’11 gennaio 1975. A separarli oltre al Tevere e all’Arno scorre il doppio della vita.

Basterebbero questo elemento, e le due date, a sancire una distanza e diversità irriducibili. Eppure agli occhi degli italiani, che hanno visto e vissuto da vicino l’ascesa in parallelo delle due leadership, l’immagine giovanile del Pontefice non risente del gap anagrafico. Il Sindaco al contrario può sembrare addirittura più vecchio, sul piano dell’anzianità politica, poiché calca le scene nazionali da un quinquennio almeno, mentre l’arcivescovo di Buenos Aires, dopo la fugace apparizione del 2005, era pressoché ignoto al grande pubblico, ignorato dai pronostici di Porta a Porta e dalle quotazioni dei bookmaker nostrani.

Se Francesco è rimasto un defilato outsider, nascondendosi ai suoi sostenitori e perfino allo Spirito Santo, Matteo ha corso sin dall’inizio per vincere, scoprendosi e predestinandosi. Accomuna però, entrambi, una sconfitta nel primo tentativo: Bergoglio durante il conclave che incoronò Ratzinger al quarto scrutinio. Renzi nelle primarie di un anno fa, che confermarono Bersani. Ed entrambi hanno rifiutato, all’indomani, di essere cooptati nella squadra del vincitore, tornandosene sul Rio de la Plata e sulle rive dell’Arno. Infine hanno fama di “rottamatori” con uguale carica, e carisma, di rottura e discontinuità rispetto al passato. Sicché, se il paragone tra un papato e un partito comporta di per sé un azzardo, risulta tuttavia troppo intrigante per resistere alla tentazione.

Al di là della fede nel suo profilo trascendente, il pontificato costituisce infatti una figura della leadership, da discernere con il metodo della scienza politica, cominciando dal momento fatidico e liturgico dell’unzione elettorale, che in questo caso presenta risvolti singolari e complementari. Renzi ha ricevuto il battesimo dei gazebo in una giornata luminosa, meteorologicamente limpida e simbolicamente candida: l’8 dicembre, festa dell’Immacolata. Bergoglio si è immerso “nelle acque profonde del mistero” in una serata grigia e plumbea, perfettamente sincronizzata con il clima che avvolgeva la Chiesa. Il loro avvento discende da una spirale di eventi estremi, perversi e imperversanti, tra i falchi di Curia e i franchi tiratori di Montecitorio, che hanno reso le “ditte” ingovernabili e indotto i predecessori alle dimissioni. Traumatiche e catartiche.

L’investitura dell’arcivescovo di Buenos Aires e del sindaco di Firenze nasce dalla conversione di un elettorato “rosso”, di porpore e nomenclature pentite, che un tempo li respinsero ma poi si sono aggrappate ad essi per non naufragare. Per ambedue, l’obiettivo che si prefiggono va ben oltre il mandato ricevuto. Il primo è stato chiamato a cambiare la Chiesa, ma intanto ha già iniziato a cambiare il mondo. Il secondo è stato insediato per cambiare il PD, ma freme per trasferirsi altrove a cambiare l’Italia.

Per affrontare la sfida che li attende, dopo avere terremotato e avviato a rottamazione la piramide interna, si appellano e lavorano a piattaforme unitarie, a condizione però di non venire imbrigliati. Anche se non volutamente, ma verosimilmente, gli slogan dell’uno si adattano pertanto all’altro in modalità fungibile. Al punto che suggestivamente si inviano messaggi convergenti.

La mattina dell’incoronazione, sfogliando i giornali, mentre Matteo ripassava e ripensava il discorso, Francesco dalle colonne della Stampa ricordava che “la prudenza è una virtù di governo. Anche l’audacia lo è. Si deve governare con audacia e con prudenza”. Un suggerimento che il Sindaco ha di lì a poco messo in scena e spettacolarizzato, con le attenzioni apparentemente discrete ma scientificamente plateali riservate a D’Alema e Veltroni.

Il Pontefice, dal canto suo, ha offerto prova della stessa virtù con i marescialli dello stato maggiore uscente: nel giro di quindici giorni, dopo averli tenuti a lungo in stand by, ha confermato “in direzione” il polacco Zenon Grocholewski e il canadese Marc Ouellet, luogotenenti di Wojtyla e Ratzinger, al comando di apparati strategici quali le Congregazioni dell’Educazione Cattolica e dei Vescovi, dove si forma e seleziona la classe dirigente, attraverso il controllo sulle università ecclesiastiche e le nomine episcopali. Contestualmente, tuttavia, ha provveduto a bilanciare e orientare in senso progressista i due dicasteri, con una infornata di porporati e presuli a lui vicini.

In modo analogo, la composizione delle due strutture che assistono il Papa e il Sindaco, il “consiglio di cardinali” di Bergoglio e la segreteria di trentenni di Renzi, non rispecchia soltanto geografie o anagrafi, ma equilibri tra correnti e alleanze.

Tornando agli slogan, il segretario del PD a Milano ha rispolverato, sulle note dei Negrita, il mito del ribelle che raggiunto il potere rimane se stesso: una figura che al giorno d’oggi, nell’immaginario popolare, trova proprio nel Pontefice argentino la sua incarnazione contemporanea, celebrata e consacrata da Time.

Bergoglio non è un rivoluzionario, non lo è mai stato. Ma un ribelle. La ribellione, non la rivoluzione, fornisce l’ermeneutica per decifrare il suo stile. Ribellione a “purismi angelicati” e “totalitarismi del relativo”, “nominalismi dichiarazionisti” e “fondamentalismi antistorici”, “eticismi senza bontà” e “intellettualismi senza saggezza”, snocciolati nella Evangelii Gaudium come involucri artificiali che comprimono, e opprimono, la vitalità del Vangelo.

Renzi ha fiutato subito la svolta che il nuovo corso rappresentava per l’esperienza e l’esperimento del PD, partito di ex comunisti ed ex democristiani guardato da sempre con sospetto dalla CEI. Così, a ridosso dell’elezione di Francesco, il 18 marzo ne ha salutato l’avvento sulla sua newsletter, con una disinvoltura di toni e contenuti che un domani, da premier, non potrebbe diplomaticamente permettersi: “Da credente dico che mi piace un Papa che come prima cosa prega e fa pregare. La centralità del cristianesimo è Cristo, non un insieme di regole o un complicato gioco di liturgie. E spero che quel suo appello a una Chiesa povera e per i poveri si realizzi anche nei sacri palazzi, dove magari sarebbe bello ci fosse un po’ meno politica e finanza e un po’ più fede e carità. Se anche sciolgono lo IOR, insomma, noi ce ne facciamo una ragione…”

Con il vescovo di Roma, il sindaco di Firenze condivide l’idea peronista secondo cui l’abito del potere non si confeziona per addizione, ma per sottrazione, togliendosi la giacca o la mozzetta, portando il trolley o la valigetta, spostandosi in taxi o in utilitaria, sostando con gli operatori ecologici o i giardinieri. Come conseguenza immediata, le rispettive chiese sono apparse immediatamente più forti ma sicuramente più spoglie, tra processi di trasparenza finanziaria e recessi dal finanziamento ai partiti.

Anche sui diritti, dallo Ius Soli alla Civil Partnership, emerge un messaggio indirizzato Oltretevere. Rimuovendo lo scoglio della Bossi-Fini, Renzi offre un approdo riformatore all’onda lunga del viaggio di Bergoglio a Lampedusa: se il Papa quel giorno aveva detto che non sappiamo più piangere, Matteo aggiunge che piangere non basta, traducendo il gesto profetico in progetto politico. Promuovendo le Unioni Civili ha invece giocato d’anticipo, avanzando la linea della difesa e proteggendo la specificità dell’Italia, rispetto alle vicine e latine Francia e Spagna, o all’Argentina stessa, primo paese sudamericano a introdurre il matrimonio ugualitario tout court. Una mossa di finezza degasperiana e morotea, che la sensibilità politica di Bergoglio non può non cogliere.

L’ultima convergenza si registra in tema di comunicazione, dove la Santa Sede ha chiamato a riorganizzare i media vaticani la multinazionale della consulenza strategica McKynsey & Company, da cui proviene, dopo avervi trascorso un quarto di secolo, anche il guru del Segretario del PD e futuribile ministro dell’economia Yoram Gutgeld. Se la scelta del cenacolo di Chicago, dispensatore di pentecosti laiche, si addice a un umanesimo fiorentino, mediceo e scientista, mal si concilia però con una istituzione che attinge il suo fascino dalla profezia, non dalla managerialità, e nel magistero di Francesco rifugge dallo spirito del mondo, riconoscendo allo Spirito divino il discernimento dei carismi, non ai cacciatori di teste.

Sulla via delle riforme, all’opposto, le strade divergono, perseguendo finalità polarizzate: il Sindaco deve rafforzare l’esecutivo, mediante una drastica riduzione dei passaggi assembleari, con sacrifici eccellenti che nelle intenzioni non risparmiano nemmeno la camera alta. Il Pontefice al contrario vuole accrescere i luoghi e momenti di gestione collegiale, lungo un percorso audace ma del tutto inedito, a tratti perfino anarchico, non privo di confusioni e sovrapposizioni, con una fioritura rigogliosa di saggi e sondaggi, commissioni e comitati, controllori e pianificatori.

Entrambi hanno davanti a sé un tempo esigente quanto stringente. Matteo, in attesa che nemesi faccia sorgere un nuovo rottamatore, si è dato quindici anni per passare alla storia. Francesco, per rimettere il papato al passo con i tempi, sa che possono bastarne cinque, ispirato da Dio e ispirandosi all’esempio di Giovanni XXIII.

Il primo vertice istituzionale tra i due, anche se il Sindaco è sbarcato sulle rive del Tevere, resta per ora fissato sull’Arno nel 2015, quando Firenze ospiterà gli stati generali della chiesa italiana, sempre che Renzi non acceleri l’approdo a Palazzo Chigi.

Nel frattempo, se lo sguardo del Segretario dovesse cadere su queste righe, lusingato dal parallelo biografico e incoraggiato dal vantaggio anagrafico, pregusterà la vetrina planetaria di Time. Magari convincendosi che un giorno potrebbe toccare a lui.